tag:blogger.com,1999:blog-275109562024-03-07T10:13:26.240+01:00Alessandro PortelliAlesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.comBlogger207125tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-77749643559951756182019-04-29T21:09:00.005+02:002019-04-29T21:09:58.801+02:00Tutto il giorno di ieri sui media rimbalzava una notizia sconvolgente: gli organizzatori del “cosiddetto “Running festival” (ma che razza di nome!) di Trieste avevano deciso, “per il loro bene,” di non invitare atleti africani alla mezza maratona in programma ai primi di maggio e di “prendere soltanto atleti europei”.. Mi era paro un altro terribile segno dei tempi, e avevo mandato qualche riga di sconsolato commento al giornale. All’ultimo momento, dopo un paradossale tira e molla fra istituzioni, forse politiche, federazioni sportive e altri ancora (gli unici di cui non abbiamo sentito la voce sono gli atleti africani, non invitati neanche alla conversazione), gli organizzatori hanno fatto marcia indietro. E’ una cosa buona – l’ipocrisia, diceva Umberto Eco, è un omaggio del vizio alla virtù – ma il fatto che ci si fosse pensato, e le ragioni che erano state addotte, restano comunque un segnale su cui riflettere. Questo è, più o meno, quello che avevo scritto.
In questo nostro ipocrita paese, esclusioni e discriminazioni si praticano sempre e soltanto per fare il bene dei i discriminati e degli esclusi: il mancato invito agli atleti africani, che questa gara rischiavano di vincerla, è dovuto alla benevola volontà di impedire “un mercimonio di atleti africani di altissimo valore, che vengono semplicemente sfruttati” da manager cinici e disonesti. E’ sempre lo stesso meccanismo: gli atleti vengono sfruttati, quindi noi li difendiamo non facendoli lavorare; tanti africani soffrono per la povertà e le guerre, quindi “aiutiamoli a casa loro” e intanto chiudiamo i porti e non facciamoli arrivare. L’analogia la conferma il sottosegretario allo sport Giancarlo Giorgetti che, pur prendendo le distanze dalla decisione degli organizzatori triestini, ha confermato che bisogna combattere “quelli che chiamo gli scafisti dello sport”. Gli scafisti, lo sappiamo, sono la foglia di fico di chi dice di voler combattere mediatori e sfruttatori – gli scafisti dei migranti, i manager dei maratoneti – mentre si accanisce sulle loro vittime, lasciando a casa i corridori e lasciando annegare i migranti.
In realtà, comunque, la finta protezione agli sfruttati serve a proteggere altri. Spiega l’organizzatore Gianfranco Carini: “manager poco seri sfruttano questi atleti e li propongono a costi bassissimi e questo va a scapito della loro dignità […] di atleti e di esseri umani - ma anche a discapito di atleti italiani ed europei, che non possono essere ingaggiati perché hanno costi di mercato". Rieccoci, allora: i “negri” costano meno e portano via il lavoro ai nativi, come nelle campagne pugliesi e calabre. Proteggere la loro dignità serve a proteggere il valore di mercato degli autoctoni.
Che lo sport sia essenzialmente una merce, e che il mercato si regga essenzialmente sullo sfruttamento, non è più né un mistero né, temo, uno scandalo. Lo sfruttamento degli atleti – ma non solo africani! – è una realtà. Ma se gli organizzatori triestini davvero ci tenevano a combattere queste storture e a difendere i diritti degli atleti africani un modo ci sarebbe stato: pagare anche a loro, aggirando i loro sfruttatori, il giusto ingaggio “di mercato” che offrono a tutti gli altri. Così non sarebbero sfruttati (non più degli altri, cioè), e non potrebbero fare concorrenza a ribasso a nessuno. Non mi pare che gli sia venuto in mente.. Eppure, in questo modo, non avrebbero salvato solo la dignità umana e i diritti economici degli africani, ma anche la dignità degli europei, a cui nessuno avrebbe potuto dire, a gara conclusa, che hanno vinto solo perché gli africani non c’erano.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-19812506741308792672019-04-29T21:09:00.002+02:002019-04-29T21:09:19.692+02:00Nel 1950, nel libro La folla solitaria, un testo destinato a diventare un classico, il sociologo americano David Riesman avvertiva che in tempi brevi la favola di Jack AmmazzaGiganti sarebbe stata sostituita dalla fiaba di Jack AmmazzaNani. Invece di ribellarsi contro i potenti, il cittadino della nuova società di massa si sarebbe accanito a schiacciare quelli meno potenti di lui. Aveva ragione: nelle periferie romane, e in tutta Italia, le rivolte popolari non rivendicano diritti ma li negano a chi ne ha ancora meno.
Io credo che questo dipenda da un dato su cui abbiamo ragionato poco: queste sono le uniche lotte che gli abitanti delle borgate e delle periferie possono pensare di vincere, e che infatti vincono sempre. A Torre Maura distruggono il pane destinato ai Rom, e i Rom, democraticamente, vengono deportati; alla Magliana non vogliono che il parroco distribuisca pacchi alimentari ai Rom, e il parroco, cristianamente, smette di farlo.
Sappiamo che a Torre Maura, come altrove, erano indignati per la condizioni delle case popolari, per i trasporti, per il lavoro, per altri reali disagi. Ma sapevano, senza bisogno di ragionarci sopra, che se avessero fatto i blocchi stradali per rivendicare che almeno gli riscaldassero le case durante l’inverno, non se li sarebbe filati nessuno, al meglio avrebbero avuto vaghe promesse, al peggio la polizia li avrebbe manganellati invece di proteggerli, e probabilmente non sarebbe cambiato niente. Non è che dopo la protesta contro i Rom nelle loro vite sia cambiato concretamente qualcosa; ma sono stati visibili, tutta l’Italia ha parlato di loro, e hanno vinto.
Penso alla scena chiave di Moby Dick, quando l’ufficiale Starbuck dice al capitano Ahab: ma quanto vale la tua vendetta , in concreto, sul mercato? E Ahab gli risponde: ha un valore grandissimo qui, dentro di me. Quello che hanno vinto questi cittadini non è il riscaldamento invernale, ma la sensazione di essere cittadini e di avere dei diritti. A questo infine serve ammazzare i nani: per sentirsi cittadini con dei diritti bisogna costituire categorie di non-cittadini, di senza-diritti, che siano i Rom o i migranti, tali che ogni minuzia lasciata a loro sembri sottratta a noi, per cui negargliela ci dà la sensazione di ricevere una qualche forma di restituzione, immateriale e illusoria ma non priva di valore nella soggettività. E tutti a festeggiare la vittoria dei (mini)Golia su Davide.
Qui forse sta un lato oscuro della nostra stessa modernità. Se il fascismo è la rivendicazione sfacciata del diritto di chi si sente forte di dominare i deboli, anche le grandi democrazie moderne hanno garantito diritti agli inclusi grazie all’esistenza di altri esclusi – grazie alla schiavitù nella democrazia nordamericana, al colonialismo nella democrazia britannica. Forse il cosiddetto sovranismo del nostro tempo è una manifestazione estrema di questa tendenza: la proclamazione dei diritti universali e umani è possibile solo se dall’universalità e dall’umanità qualcuno è escluso.
Questo non giustifica niente: anche i bianchi rurali poverissimi e sfruttati dell’Alabama (e i tedeschi della Grande Depressione) avevano disagi reali, ma non per questo abbiamo pensato di relativizzare e attenuare il KuKluxKlan. Ma aiuta a ragionare, e a cercare come sconfiggerlo. Al di là della utile e interessante discussione sulla questione se le tendenze in atto prefigurino o no qualche forme di fascismo, infatti, direi che alla radice di tutto questo stanno, forse non solo ma certo in modo determinante, le trasformazioni della nostra democrazia reale, ed è su questo che dovremo lavorare.
I giganti hanno cambiato natura. Da un lato, sembra che si siano materializzati: il potere si incarna nella persona (il corpo monocratico) del leader, che sia Berlusconi o Salvini o magari Renzi. Dall’altro, più si concentra in un idolo visibile, più il potere si smaterializza, si diffonde, si nasconde. Chi comanda davvero nella globalizzazione? “A chi possiamo sparare?” chiedono sia il contadino sfrattato di Furore, sia il disoccupato vagabondo di The New Timer di Bruce Springsteen. I giganti non sono solo potenti ma anche invisibili e irraggiungibili. Con chi se la pigliano i cittadini di Torre Maura – con la Raggi? Col comune (quale dipartimento, quale ufficio?), con l’Istituto case popolari (esiste ancora?), con le banche, col governo, con Soros…? Oltre tutto gli sembra, non senza motivo, che anche quelli che un tempo li aiutavano a organizzarsi per lottare contro i giganti siano diventati giganti essi stessi, magari un po’ meno malevoli, e siano andati a confondersi in mezzo ai loro simili.
Più investiamo potere nel Capo, più ce ne spogliamo noi. I seguaci del Duce, del Capitano, del leader non hanno più diritti, ma ricevono solo concessioni (un reddito che si chiama “di cittadinanza” proprio perché ne è la negazione; o magari ottanta euro in busta paga) e gratificazioni emotive. Ma alla soddisfazione soggettiva e vicaria di identificarsi con il potere personalizzato del Capo carismatico si accompagna la sensazione di non essere altro che pedine in un gioco che non controlliamo. E’ una sensazione oscura, informe, non riconosciuta e non elaborata, e quindi incapace di manifestarsi se non in pure esplosioni di rabbia. Il “disagio delle periferie” non è che una forma del disagio generalizzato della cittadinanza, e non basta essere chiamati una volta ogni qualche anno a votare in un’elezione o una primaria per farci sentire che contiamo davvero qualche cosa. Più la democrazia si trasforma da partecipata in governabile, più il potere e la ricchezza si contraggono in mani sempre meno numerose e sempre più distanti, più il popolo sovrano si trasforma in plebe di sudditi governabili in cerca di sovranità residuali e illusorie.
Facciamo bene ad andare a Torre Maura a manifestare contro il fascismo. Faremmo ancora meglio ad essere presenti sempre a Torre Maura, Magliana, Casal Bruciato, San Basilio, quando si tratta di garantire per tutti – “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, come dice un testo che dovrebbe esserci caro – i diritti fondamentali: la casa, la salute, il lavoro, la scuola, la partecipazione democratica, da cui gli ammazza nani si sentono, e in gran parte sono, esclusi. Antifascismo oggi è semplicemente questo: far funzionare la democrazia partecipata ed egualitaria prefigurata dalla costituzione che dalla sconfitta e negazione del fascismo nasce e si sostiene. Avviare il lungo e faticoso lavoro di ricostituire (e inventarne di nuovi) quegli strumenti che, stando fra noi ed i giganti, ci permettevano di resistergli e di controllarli. Restituire dignità e funzione al parlamento. Ridare forza ai sindacati. Restituire centralità alla scuola pubblica. Inventare forme nuove di presenza civile organizzata nelle città… Insomma: antifascismo è memoria storica, senza di che non si fa niente; ma è soprattutto difesa del futuro.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-30811125093113191972016-10-05T15:32:00.001+02:002016-10-05T15:32:59.559+02:00Bruce Springtsteen: Born to Run, l'autobiografiail manifesto 5 ottobre 2016
“Le parole vorticavano impetuose come una tempesta, schiantandosi l’una contro l’altra senza ritegno”: è Bruce Springsteen che parla del suo primo disco. ma vale anche per questo libro. Springsteen è anche un artista della parola; e la prima cosa che si chiede a un libro è che sia un atto di parola sostenuto, competente e godibile. Questo lo è: non la solita autobiografia di star – anche se a volte rischia di scivolarci dentro – descrizioni di concerti, cene con i VIP… - ma un’autobiografia vera.
Da un’autobiografia ci si aspetta in primo luogo che la persona che scrive di sé sia anche rappresentativa, che la sua sia anche la storia di un tempo e di un luogo. La città di Freehold, le case e le mezze case) della famiglia Springsteen le tocchiamo, le sentiamo, le odoriamo, con tutti quelli che ci vivono dentro. La musica è la chiave con cui Springsteen spiega questo mondo, ma questo mondo è anche la chiave che ci fa capire come nasce la musica. L’entusiasmo – la notte, le ragazze, le macchine – di tante canzoni di Springsteen acquista profondità e ambiguità perché sullo sfondo dei luoghi e nel futuro dei personaggi stanno periferie proletarie dove vivere, fuggire, tornare: “Per raccontare la loro vita occorreva un mix tra il romanticismo cupo e violento del doo-wop, il vigoroso realismo del soul e quella vaga promessa di ascesa sociale offerta dalla Motown […] L’atteggiamento alternativo degli Stones e dei loro colleghi negli anni Sessanta non rispecchiava l’esperienza di quei ragazzi. E chi se lo poteva permettere? C’era da lottare, stringere i denti, lavorare, proteggere ciò che era tuo, restare fedele ai tuoi compagni, ai tuoi antenati, alla famiglia, al territorio, ai fratelli e sorelle greaser, alla patria. Erano queste le cose che ti rimanevano quando tutto il resto si sgretolava, quando le mode passavano e mettevi incinta la tua ragazza, quando tuo padre finiva in galera o perdeva il lavoro e toccava a te rimboccarti le maniche”.
In secondo luogo, ci aspetta la ricostruzione di un percorso: come l’io narrato diventa l’io narrante. Avevano ragione i suoi genitori, scrive Springsteen: la possibilità che “il quindicenne foruncoloso di Freehold, New Jersey, con la sua chitarra Kent da due soldi” sarebbe stato l’unico a salire un giorno sul palco coi Rolling Stones, suoi idoli adolescenziali (e davanti a centomila romani al Circo Massimo) era “una su un milione”. Come è successo? “Non ero nato genio. Per sopravvivere in quel mondo avrei dovuto metterci tutto me stesso, l’astuzia, le doti musicali, la presenza scenica, l’intelligenza, il cuore e la volontà”. Genio, diceva Thomas Edison, è “uno percento ispirazione, novantanove percento sudore”. “Ho lasciato abbastanza sudore sui palchi di tutto il mondo da riempire almeno uno dei sette mari”, scrive Springsteen. E’ l’etica operaia trasferita nella musica (gli Steel Mill: “musica operaia, fragorosamente chitarristica con sonorità di matrice Southern rock”); ma è “sudore” anche il lavoro mentale, l’intelligenza: “la mia Asbury Park era un’isola di disadattati e colletti blu, intelligenti ma non intellettuali” (il corsivo è mio!). Ma il sudore non è tutto: quell’un percento, che Springsteen chiama “talento” è intangibile e inspiegato. Dice una canzone di Iris Dement: “let the mystery be”, accettiamo il mistero. E un po’ di mistero è bene che rimanga anche qui.
Infine, ci si aspetta un percorso di conoscenza di sé, un modo per esplorarsi scrivendo. C’è una parola inattesa che ricorre più volte: “rabbia” – accumulata nell’infanzia cattolica, covata ed esplosa da suo padre nel silenzio e nella birra, interiorizzata e repressa fino a inquinare i rapporti più profondi: un “abisso in cui rabbia, paura, sfiducia, insicurezza e una misoginia di matrice famigliare facevano a pugni con le mie doti migliori”. C’è una felicità, scrive, che è “la sorella allegra della depressione”. Come l’euforia delle canzoni giovanili stava sullo sfondo della violenza di classe, così lo Springsteen atletico e vitalistico che vediamo sul palco è anche l’esorcismo di depressioni ricorrenti e curate con l’analisi e i farmaci, e con il lavoro di scrivere questo libro.
“Ho passato la vita a combattere, studiare, suonare e lavorare, perché volevo ascoltare e conoscere tutta la storia, la mia storia […] per potermi liberare dalle sue influenze più deleterie […] Non so se ci sono riuscito, il diavolo è sempre dietro l’angolo, ma so che è quanto mi sono impegnato a fare da giovane, con me stesso e con te”.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-39581966370976062392016-07-09T12:07:00.002+02:002016-07-09T12:07:29.506+02:00La scheda, il fucile e DallasIo non credo che possiamo essere contenti di quello che sta succedendo a Dallas in queste ore. In primo luogo, perché ci sono dei morti, e questo non è mai fonte di gioia. In secondo luogo perché sul piano della lotta armata, a vincere saranno inevitabilmente gli altri, difficilmente vinceremo, e ci saranno altri morti. Non è questione di retorica della non-violenza: le sue vittorie il movimento di liberazione afroamericano le ha conquistate con altri mezzi, con la mobilitazione di massa, e non è chiaro quali saranno gli effetti della strage di Dallas su questo piano.
Ma credo che, come sempre accade, dobbiamo leggere gesti estremi e disperati come questo come sintomo e segno di qualcosa di più ampio, più profondo, e più nostro. Diceva Langston Hughes, il grande poeta afroamericano: “Che ne è di un sogno differito? Si inacidisce come un acino d’uva al sole, o s’infetta come una piaga e marcisce?... Forse si affloscia come un grosso peso. Oppure esplode?” In questa America che ti permette di ricercare e inseguire la felicità ma ti impedisce di raggiungerla, il fuggiasco sogno afroamericano dell’uguaglianza diventa sempre più differito e frustrante quando sembra più vicino.
Malcolm X diceva: “the ballot or the bullet”, la scheda o il fucile. Gli afroamericani la scheda l’hanno usata, e hanno eletto Barak Obama. Il sogno sembrava a portata di mano, abbiamo letto editoriali sulla fine del razzismo, e invece è stato solo un nuovo inizio: l’abisso che per quattro secoli ha separato bianchi e neri, il vuoto su cui si strutturava l’America, è parso per un attimo ridursi, ma avvicinamento non ha creato armonia, bensì attrito, e l’attrito sanguina. Sanguina anche perché dall’altra parte – dalla parte di istituzioni intrise la vittoria afroamericana con la scheda ha subito additato a un’opinione pubblica spaventata e a istituzioni intrise di razzismo la strada del fucile. E le pallottole hanno continuato a volare, come fanno da secoli di schiavitù, linciaggi, segregazione, razzismo.
Il sogno sembrava a portata di mano, ed è sfuggito di nuovo. Che cosa è allora questa promessa sempre rinnovata e sempre mancata? E’ una menzogna, che inacidisce e marcisce il sogno e produce disincanto, sfiducia, crisi della partecipazione e della democrazia? O una maledizione, che produce rabbia e paura e infine, in gesti come quello di ieri a Dallas, esplode? Direi che l’uno è il segno dell’altro: l’esplosione minoritaria e disperata è lo specchio della delusione e della rabbia impotente della maggioranza in una democrazia che ha fallito il suo compito.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-73186120094422151142016-07-08T19:10:00.002+02:002016-07-08T19:10:37.883+02:00ILouisiana, Minnesota: il delirio dell'onnipotenza il manifesto 8.7.2016
Chissà se in uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà “Devils and Dust”: “ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di sopravvivere – la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere….”E’ la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle crossoads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto intorno… E’ l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati). Era “visibilmente nervoso” e spaventato il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro.
Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso – condonato, se non sotterraneamente condiviso, nella cultura delle istituzioni - che le persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling in a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo).
E infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico” compreso) che chiamare “orango” una donna nera (l’ex ministro Cécile Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere. Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica. E se il marito della donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente.
Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chi9ssà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è mano marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza. In Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di ricordarci che “Black lives matter”, le vita nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità – fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-91604591016905698502016-05-26T16:54:00.001+02:002016-05-26T16:54:20.857+02:00https://www.youtube.com/watch?v=KwYE2d0h170: semiknario su "On the ethics of Resistance", Harvard university, ottobre 2015
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-83642898747147530752016-01-27T12:09:00.000+01:002016-01-27T12:09:03.721+01:00L'Europa del genocidio respinge i migrantiA undici anni dalla sua istituzione, la Giornata della Memoria suscita valutazioni e commenti ambivalenti. Non sono poche, né poco autorevoli, le voci che lamentano un rischio, senz’altro reale, di saturazione, di ritualità burocratica e ripetitiva, un ricordo di un giorno per non pensarci più per tutto l’anno. D’altra parte, quando da fonti autorevoli sentiamo dire che l’idea della Shoah è stata suggerita a Hitler dai palestinesi, mentre l’Iran continua a non prendere le distanze dal negazionismo e neonazisti e affini di tutta Europa scelgono l’Italia per i loro raduni, ci rendiamo conto di quanto pervasivi possano essere il razzismo, il revisionismo opportunista e il negazionismo strumentale.
Il problema, come sempre, non è tanto se ricordare o no, ma che cosa ricordare e come. Dovremmo cominciare col distinguere la memoria in senso lato di conoscenza storica del passato, dalla memoria in senso proprio di consapevolezza critica delle esperienze sociali e personali vissute. La giornata della memoria acquisterebbe una dimensione ulteriore di senso se, insieme agli eventi ricordati, aprisse anche una riflessione sulla presenza, il ruolo, la crisi della memoria stessa. Altrimenti, la necessarissima conoscenza storica e sentita commemorazione della Shoah, della Resistenza (e anche delle foibe e del gulag) non compensa la smemoratezza intenzionale di una società in cui politici e media possono dire una settimana il contrario di quello che avevano detto la settimana prima senza che nessuno se lo ricordi e glielo ricordi.
Più ancora della conoscenza storica, la memoria impone una relazione vissuta fra il passato ricordato e il presente che ricorda. La commemorazione smette di essere un rituale e diventa memoria vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve a orientare il nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe servire anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge i migranti è la stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il genocidio organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra cultura che ha prodotto e produce tutto questo.
Proprio perché la Shoah è un crimine specificamente europeo, non possiamo fare del suo ricordo una memoria etnocentrica. E invece, fra le tante memorie che giustamente vengono evocate in giornate come questa, non trova posto la memoria del colonialismo, specialmente del colonialismo italiano e dei suoi crimini. Di che memoria sono portatori gli abitanti della Libia, ex colonia italiana, dove ci prepariamo di nuovo a “intervenire” (dopo il 1912 e il 2012), che memoria arriva in Italia con i migranti che arrivano (quando ci riescono) dall’ex colonia italiana dell’Eritrea? Che cosa ricordiamo dei trent’anni di resistenza libica all’occupazione, della resistenza etiope all’aggressione italiana, nel paese che erige sacrari alla memoria di un massacratore di libici e di etiopi come Rodolfo Graziani? Possiamo parlarne, o no, nella cosiddetta giornata della memoria?
Con tanti problemi e domande, però vorrei aggiungere un esempio positivo. Il 23 gennaio, nel liceo che porta il suo nome, si è svolta un’emozionante “notte di Primo Levi”. E’ stata emozionante per il modo in cui Edith Bruck, Sami Modiano, Giacoma Limentani – testimoni diretti degli eventi – hanno fatto capire a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie fino a che punto le tragedie di allora sono ferite ancora aperte nell’anima di persone che ci sono vicine;farli vivere a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie; per come tutto è stato reso più profondo e coinvolgente dalla musica dei MishMash e del coro Musica Nova, e dagli spettacoli e letture creati dagli studenti stessi; per la creazione di un senso di comunità e condivisione attorno alle tavole cariche di buone cose portate dai ragazzi e dai genitori stessi; per la consapevolezza diffusa che, come in tutte le grandi culture tradizionali, fare festa è un modo serio di ricordare. Ma è stato bellissimo soprattutto perché gli studenti e le loro famiglie non hanno partecipato come destinatari più o meno coinvolti di discorsi calati dall’alto, ma hanno retto tutto l’evento con il lavoro, le voci e le idee loro e dei loro insegnanti. Questo è un modo non solo di prendere coscienza del passato, ma di costruire memoria per il futuro: perché imparando da narratori come Edith, Sami, Giacometta i ragazzi di oggi si rendono conto che la memoria futura del nostro tempo dipende dalla loro partecipazione attiva in esso: se non ricordiamo,noln saremo ricordati. Per un volta, insomma, si è vista in azione la vera e autentica “buona scuola”.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-76306718185102511792015-12-30T10:19:00.001+01:002015-12-30T10:20:13.819+01:00Joe Hill: 1915-2015Era la fine del 1915, cent’anni fa. A Salt Lake City, Utah, i tribunali e lo stato uccisero Joe Hill, militante e bardo del sindacato rivoluzionario degli Industrial Workers of the World (IWW). Dal carcere, aveva scritto: “So che molti ribelli importanti dicono che la satira e la canzone sono fuori luogo in un’organizzazione di lavoratori, e ammetto che le canzoni non sono indispensabili alla causa; ma ogni volta che mi viene, continuerò a scrivere queste mie sciocchezze cantate, anche se so bene che la lotta di classe è una cosa seria.”
Scrive Tom Morello, musicista ribelle di oggi: “Senza Joe Hill, non ci sarebbero Woody Guthrie, Bob Dylan, Bruce Springsteen, i Clash, i Public Enemy, Minor Threat, System of a Down, Rage against the Machine.” Joe Hill spiegava: “Un opuscolo, per buono che sia, lo leggi una volta e basta, ma una canzone la impari a memoria e la canti e la canti; se prendi un po’ di nudi fatti e di senso comune, li rivesti con un po’ di umorismo per renderli meno aridi, e li metti in una canzone puoi raggiungere tanti lavoratori troppo poco istruiti o troppo indifferenti per leggere un opuscolo o un editoriale.” La base degli IWW erano lavoratori migranti e stagionali, e niente è più leggero, resistente e trasportabile di una canzone; come poi il movimento dei diritti civili, gli IWW saranno un singing movement , i cui militanti girano l’America portandosi in tasca due cose: la tessera che li fa riconoscere come compagni dovunque vanno, e il canzoniere rosso, The little red songbook, il cui fine dichiarato era di “fan the flames”, alimentare le fiamme della rivolta.
Joe Hill era un genio della parodia. Prendeva canzonette di successo, canti popolari, brani gospel, e rovesciava il senso mantenendo il suono. Prende una canzone popolare, la storia dell’eroico ferroviere Casey Jones, e lo trasforma in Casey Jones il crumiro, che si ammazza per far corere i treni durante uno sciopero, arriva in paradiso dove gli angeli sono in lotta, fa il crumiro anche lì e finisce a spalare zolfo all’inferno. Dalle canzoni di chiesa riprende la capacità di creare comunità, di cantare e improvvisare tutti insieme, e le trasforma in inni all’unità operaia. “There is power in the blood of the lamb,” c’è potere nel sangue dell’Agnello, diventa “there is power in a band of working man,” c’è potere in una schiera di lavoratori, quando sono uniti, mano nella mano. A forza di sentire le bande dell’Esercito della Salvezza annunciare la beatitudine futura nella dolcezza del cielo (“in the sweet bye and bye”), si inventa una frase diventata familiare anche da noi: “mangia e prega, campa di niente, e avrai la torta in cielo (“pie in the sky”)”. Senza Joe Hill, anche un po’ di Gianni Rodari (La torta in cielo, 1966) non ci sarebbe.
Scrive Tom Morello: “Joe Hill non si limitava a scrivere canzoni contro l’ingiustizia. Era in prima linea, a rischio della vita, per creare un mondo migliore e più giusto. Per questo il potere aveva paura di lui. Per questo l’hanno ucciso”. Le sue canzoni hanno avuto un impatto così straordinario e duraturo perché nascono da dentro il proletariato ribelle, intrise del linguaggio che Joe Hill, immigrato proletario, aveva assorbito sui moli del porto di San Diego, fra i boscaioli dell’Oregon, nelle miniere di rame, nei saloon della Bowery, in tutti i posti dove aveva lavorato e lottato.
Joe Hill rimane un’icona della sinistra (c’è anche un film di Bo Widerberg, Joe Hill, 1971. Peccato che nella versione italiana le canzoni siano cantate in pedestri traduzioni italiane) sia per le sue canzoni, sia per l’ ingiustizia simbolica della sua morte. L’accusa di omicidio per rapina fu sostenuta solo da vaghi indizi; i testimoni cambiarono versione in vista del processo; gli atti del processo scomparvero dagli archivi; il governo dello Utah rifiutò di ascoltare le proteste di tutto il mondo e il messaggio del presidente Wilson che chiedeva una revisione del processo. Ogni somiglianza con la storia di Sacco e Vanzetti è storicamente fondata.
Nel 1938, Alfred Hayes ed Earl Robinson lo ricordavano in una canzone subito resa classica dall’interpretazione di Paul Robeson: “Ho sognato di vedere Joe Hill stanotte, vivo come e te. Gli dissi, ma Joe, sei morto da anni; e lui: non sono morto mai. Dovunque i lavoratori sono in sciopero, in ogni fabbrica e miniera, dove i lavoratori lottano per i loro diritti, è lì che troverai Joe Hill.” C’è traccia di questa canzone nel discorso di Tom Joad in Furore di Steinbeck (e nel film John Ford): “Dove si lotta per dar da mangiare a chi fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì…” Dal romanzo e dal film, queste parole arrivano a Woody Guthrie e poi a Bruce Springsteen: “Dove c’è un poliziotto che picchia qualcuno, dove c’è una lotta contro il sangue e l’odio nell’aria, cercami e sarò lì…”
“Il mio testamento,” scrisse Joe Hill il giorno prima dell’esecuzione, “è facile da fare: non c’è niente da spartirsi, perché il muschio non si attacca a una pietra che rotola”( già: a rolling stone). Se potessi decidere, vorrei che Il mio corpo fosse fatto cenere e la cenere sparsa al vento, che la porterà dove crescono i fiori, e forse aiuterà un fiore appassito a rinascere.” Al suo funerale, marciarono in 30.000. Ma forse avevano ragione Hayes e Robinson: Joe Hill non è morto, il suo fantasma è qui insieme a quello di Tom Joad. Chissà che ricordarlo e cantarlo non aiuti a far rifiorire quel movimento operaio per cui è vissuto ed è stato ucciso cento anni fa.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-38304418136815886882015-12-19T22:38:00.002+01:002015-12-19T22:38:32.903+01:00"Adua" di Igiaba Scego - il manifesto 15.12.2015Erano appena i primi anni ’90, e alcuni di noi si posero una domanda: ma queste persone che arrivano ora da tante altre parti del mondo, stanno raccontando, stanno inventando, stanno scrivendo? C’era stato qualche incontro, qualche segnale, e ci domandammo se, con modalità paragonabili ma con tempi molto più rapidi, come negli Stati Uniti era nata una letteratura afroamericana, non stesse nascendo qualcosa che per mancanza di un altro termine, chiamammo provvisoriamente “letteratura afroitaliana”: persone non nate in Italia, o da famiglie non native italiane, che tuttavia scrivevano in italiano e pubblicavano in Italia. Ricordo un po’ di scetticismo. Gli italianisti dell’università che rifiutarono di accettare questi scritti come letteratura italiana (al massimo, “letterature comparate”); l’industria editoriale che da questi scrittori – come per quasi un secolo era successo agli afroamericani - si aspettava solo documentazione (autobiografia) o sentimenti (poesia), ma non gli riconosceva il diritto all’immaginazione (romanzo) e la capacità di metterla in parole.
Inutile ripetere che il tempo ha dimostrato che questa scrittura non solo esiste, ma cresce e ormai è arrivata a piena maturità, a solida coscienza di sé, e occupa uno spazio tutt’altro che trascurabile nella cultura dell’Italia contemporanea. Sottolineo Italia: perché quella che con un termine non necessariamente soddisfacente oggi chiamiamo “letteratura migrante” è un’espressione imprescindibile di quello che è oggi il nostro condiviso e molteplice paese. Se la storia dell’Italia, se le radici dell’Europa sono in gran parte il colonialismo e le guerre portate nel resto del mondo, allora le memorie degli eritrei o dei curdi che oggi abitano l’Italia diventano a pieno titolo memoria di tutti.
Per esempio, è memoria dell’Italia quella dà il titolo e il nome della protagonista ad Adua, il recente romanzo di Igiaba Scego: la prima sconfitta militare subita da un paese europeo (1896) per mano delle forze africane. Come ha mostrato la stessa Igiaba Scego in un altro utilissimo libro (Roma negata, Ediesse 2014), basterebbe guardarsi intorno per ritrovare nelle strade, sui muri, nei monumenti della capitale d’Italia i segni del passato coloniale italiano – glorificato dal nazionalismo e dal fascismo, trascurato e quindi tollerato dall’Italia democratica, e almeno in parte costruito proprio attorno alla non dichiarata intenzione di cancellare la memoria di quell’umiliazione originaria. Solo che adesso Adua è presente nelle stesse strade e negli stessi quartieri anche con un’altra connotazione e un altro punto di vista: quello degli italiani e dei migranti per i quali è una memoria (peraltro, come mostra il romanzo, ambigua e complessa) di dignità e orgoglio. Forse l’unico modo per elaborare davvero Adua è fare nostra Adua: riconoscerci in una memoria che, proprio perché è una memoria di guerra, non può essere che divisa nel momento in cui la accogliamo come condivisa.
Come altri testi recenti (penso a Il comandante del fiume di Cristina Ali Farah, a Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi), Adua è il prodotto di questa stagione di maturità autoconsapevolezza di questa nuova letteratura italiana. E’ un romanzo ambizioso. Leggendolo, mi è venuta in mente la categoria di “opera mondo” elaborata da Franco Moretti a proposito di opere canoniche della letteratura “occidentale”, dal Faust a Cent’anni di solitudine: opere che cercano l’impossibile impresa di fare entrare in mondo intero in un solo testo, che naturalmente falliscono, ma che proprio nelle loro imperfezioni recano il segno della loro grandezza. Adua non si misura con il mondo intero, ma certamente ha il coraggio di cercare di mettere in un solo testo tutta la storia di un pezzo di mondo, quella di un’Italia della cui storia fanno parte l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia e le loro memorie.
La protagonista la racconta all’unico interlocutore in grado, anche grazie alle sue grandi orecchie, di ascoltarla: l’elefantino del Bernini in piazza della Minerva, altra presenza africana nel centro dell’Italia. La storia di Adua va da un’infanzia rimpianta nella Somalia rurale alla scoperta del cinema nelle città colonizzate dagli italiani, dall’infibulazione allo sfruttamento sessuale in certo cinema italiano erotico-esotico degli anni ’70 (con un’appendice scopertamente berlusconica un po’ tirata per i capelli ma utile a portare la storia fino a noi), all’affetto e conflitto anche generazionale fra la prima diaspora postcoloniale e l'immigrazione recente (rispettivamente e spietatamente, nei relativi gerghi, “vecchie lire” e “Titanic"). Questa storia si intreccia con quelle del padre della protagonista, Zoppe, e del padre di lui: il contrasto campagna-città, le relazioni generazionali (le “paternali”, i monologhi in discorso indiretto libero del padre alla figlia sono le pagine meglio riuscite godibili del libro), ma soprattutto le complicazioni di un rapporto fra colonizzati e colonizzatori in cui la rabbia e il risentimento dell’oppresso si intrecciano con la subalternità e magari anche con l’opportunismo della sopravvivenza, in cui dai a tua figlia il nome di una vittoriosa battaglia anticoloniale ma poi coi colonizzatori (e quindi con la tua coscienza) sei per forza costretto convivere, adattarti e servire.
Il padre di Adua nel romanzo si chiama Zoppe. Anche nella forma “Zoope”, è un nome abbastanza diffuso in Somalia. Ma una volta che entra nel discorso italiano, le connotazioni diventano altre, e a me suggerisce irresistibilmente il più famoso zoppo della cultura euro-africo-asiatica – Edipo. Come ha mostrato Carlo Ginzburg in Storia notturna, da Edipo a Cenerentola la zoppia - rottura della simmetria costitutiva del corpo umano – è il segno di uno squilibrio profondo, di un disordine cosmico; ma proprio per questo è anche il segno di una posizione intermedia fra mondi diversi e in comunicanti (sono zoppi il coyote e la iena, mediatori fra mondo dei vivi e mondo dei morti in molte mitologie native americane). Ora, Zoppe è appunto questo: come Edipo, è indovino, mediatore fra mondi visibili e invisibili, capace di evocare persone lontane e pre-vedere tempi futuri (cosa che aiuta Scego a far entrare nel libro anche tempi che sarebbero fuori del suo orizzonte cronologico); e di mestiere fa il traduttore, la più complicata di tutte le figure di mediatore in un mondo in cui le lingue non si capiscono fra loro. Traduttore traditore, dice il proverbio: Zoppe dà ai colonizzatori accesso alle parole dei colonizzati, e in gran parte rinuncia alla propria – non racconterà mai a nessuno la sua storia, e il silenzio lo avvelena (grazia alla sua capacità visionaria, e all’incontro con una bambina e una famiglia ebrea, Zoppe pre-vede anche la Shoah: anche qui, un po’ forzato, ma utile a ricordarci che antisemitismo fascista e razzismo coloniale sono legati a doppio filo; e funzionale all’ambizione di opera-mondo del libro).
Il romanzo ci conclude in piazza dei Cinquecento. Nessuno ci pensa o lo sa: è un’altra memoria ambigua un po’ vergognosa e un po’ dimenticata. Proprio Igiaba Scego ci ha ricordato che prende il nome dei “cinquecento” italiani periti in un altro disastro coloniale, la battaglia di Dogali in Eritrea, nel 1897. Se uno la guarda su Wikipedia, ci trova un racconto “eroico” dei prodi italiani che soccombono a soverchianti forze africane – armate peraltro, sempre stando a Wikipedia, solo di lance. Se uno la pensa dentro la memoria di quelli che difendevano il loro paese da un’arrogante invasione straniera, è impossibile non stare dalla loro parte, contro una parte di “noi italiani” stessi. Se non la ricordiamo, è perché è vergognosa da due lati: da quello eroico-guerresco, perché è una sconfitta; e da quello civile, perché è parte di un’incivile storia di aggressione coloniale. In questo luogo simbolico, Adua si separa da Ahmed, il giovane immigrato con cui ha scambiato protezione, calore e affetto al di là delle differenze di età. Per la prima volta, lei si toglie lo “strano turbante” fatto con la stoffa blu ereditata da suo padre, e scopre che può liberarsi del peso e del marchio della sua memoria. Come dono d’addio Ahmed le regala una cinepresa: dopo essere stata filmata come oggetto da sfruttare, adesso finalmente potrà dare forma all’immagine che ha di se stessa. Per chi si libera dell’oppressivo turbante blu di una storia che ti grava addosso, piazza dei Cinquecento a Roma è soltanto la piazza della stazione: luogo multiculturale di incontri, di arrivi, di partenze, e di nuovi inizi.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-54344605669417929042015-11-05T23:00:00.000+01:002015-11-05T23:00:00.271+01:00Link a una pr esentazione del mio libro su Bruce Springsteen ("Badlands. Springsteen e l'America: il lavoro e i sogni", Donzelli, settembre 2015) a PPristina, Kosovo!
http://oralhistorykosovo.org/portelli-on-springsteen/#prettyPhoto[pp_gal]/0/Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-48268261176548627752015-07-30T10:24:00.000+02:002015-07-30T10:24:01.166+02:00Lampedusa, Calais, Ventimiglia...il manifesto 30.7.2015
Da Lampedusa non si entra. Da Calais non si esce. Da Ventimiglia non si passa. Dalla Serbia a Budapest si viaggia in vagoni piombati. A Ceuta e Melilla, enclave spagnole in terra d’Africa, come al confine fra Bulgaria e Turchia o al confine fra Ungheria e Serbia, si alzano reticolati e muri. Un po’ per volta l’Europa sta ritrovando le sue radici: confini inviolabili, egoismi e pregiudizi nazionali e razziali, l’eredità di un secolo e mezzo di colonialismo, le conseguenze di guerre dissennate a cavallo del terzo millennio, gli effetti del pensiero unico occidentale in forma di liberismo sfrenato. Il tunnel di Calais è una vivida metafora di tutto questo: pensato per unire, è diventato una invalicabile barriera divisoria per chi non ha i soldi del biglietto – anzi, una barriera fra chi i soldi ce li ha e chi no.
Scrivendo su un altro confine e un altro muro – quello fra Stati Uniti e Messico, la scrittrice chicana Gloria Anzaldúa conclude: il confine “es una herida abierta”, è una ferita aperta, dove il Terzo Mondo si strofina con il Primo, e sanguina. Come il Rio Grande e il muro che lo costeggia, anche Lampedusa, Calais, Ventimiglia sono ferite aperte, il sanguinante confine fra un Primo Mondo sempre più selvaggio e un Terzo Mondo che non ce la fa più a sopportare fame, guerra e dittature come destini ineluttabili e viene a chiedercene il conto. Adesso questi due mondi non si strofinano più soltanto ai confini fra loro, ma anche dentro l’Europa stessa, e la insanguinano tutta; ma il senso è sempre quello: l’insopportabilità di un mondo in cui ricchezza e risorse si ripartiscono in misura sempre più ingiusta e disuguale.
Un tempo, di queste ingiustizie si occupava la sinistra. Oggi, ci raccontano, sono finite le ideologie; ma la lotta di classe continua, in forme insolite e drammatiche. Da un lato, quella guerra di classe dei ricchi contro i poveri di cui ha scritto eloquentemente Luciano Gallino (e di cui la vicenda greca è una variante significativa). Dall’altro, la più antica lotta dei poveri per avere anche loro quello che hanno i ricchi: l’immigrazione di massa è infine (ed è sempre stata) proprio questo, l’arma estrema dei dannati della terra per un minimo di accesso ai beni della terra su cui viviamo tutti. A differenza delle forme di lotta e dei conflitti sociali del secolo scorso, questa lotta non è mossa dal progetto di abbattere un sistema, ma dall’ansia di condividerlo; non dall’ostilità ma dal desiderio, dal sogno, se non dall’amore idealizzato. Solo che siccome il sistema che vorrebbero condividere è in realtà retto da egoismo ed esclusioni, la richiesta di condivisione ne mette a nudo limiti e ipocrisie, impone inevitabilmente il cambiamento e per questo l’Europa la percepisce come invasione e minaccia e cerca in tutti i modi di fermarla. Ma fermare un simile cambiamento epocale è come provare a fermare il mare con le mani.
E’ difficile dire come possiamo noi svolgere un ruolo in questa nuova lotta di classe . Il lavoro di tante forme di volontariato e di intervento di base è prezioso, aiuta, salva vite, crea rapporti; ma le dimensioni del dramma sono almeno per ora superiori alle forze che può mettere in campo da solo. Io credo che dobbiamo comunque tutti accettare che le nostre vite non possono continuare uguali come se nulla fosse, magari con un po’ di tolleranza e benevolenza in più. Né noi né i migranti ci possiamo salvare da soli: quelli che dicono “prima gli italiani” non hanno capito che entrambi abbiamo bisogno delle stesse cose – casa, lavoro, salute, scuola, diritti, tutte cose che i migranti cercano e che noi stiamo un poco per volta perdendo, e che possiamo forse salvare e recuperare insieme, per tutti. Dobbiamo ritrovare alla democrazia il suo significato profondo, che non sta nella politica e nelle istituzioni ma nelle anime: democrazia come solidarietà, come capacità di riconoscere nell’umanità degli altri la nostra umanità stessa. C’è ancora qualcuno che lavora su questo?
Diceva un testo sacro del pensiero liberale: la mia libertà finisce dove comincia quella del mio vicino: che è precisamente un invito a vedere il vicino, specie si diverso e nuovo, come un limite alla propria libertà, come un ostacolo e un potenziale nemico. Io credo che dovremmo riformularlo: la nostra libertà comincia dove comincia la libertà del nostro vicino, i nostri diritti e quelli dei migranti sono per sempre inseparabili, la libertà di tutti noi finisce, e comincia, a Lampedusa, a Ventimiglia e a Calais.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-22074288400904899502015-07-19T10:46:00.000+02:002015-07-19T10:46:31.128+02:00Dov'è la sinistra a Casale San Nicola? - il manifesto 19.7.2015L’altro giorno la nostra strega preferita, Angela Merkel, ha fatto piangere una bambina palestinese dicendole senza peli sulla lingua: “non possiamo accogliere tutti”. Insensibilità teutonica. Noi latini siamo più umani e bonari: non è che non possiamo accogliere tutti; più semplicemente, non vogliamo accogliere nessuno.
Adesso ci sorprendiamo e ci scandalizziamo per le schifezze esplose a Treviso e alla periferia di Roma, con tanto di contorno a braccio teso di Forza Nuova e Casa Pound. Io però mi vorrei fare anche un’altra domanda: com’è che a Casal San Nicola i fascisti c’erano per aizzare le fiamme, e invece non c’era traccia di soggetti democratici, civili e antirazzisti a contrastarli, a spiegare, a offrire ragionamenti alternativi, e magari a sostenere i migranti in questo momento difficile delle loro vite? Dov’erano le brave persone del PD locale, che conosco e rispetto e che ho visto attivarsi solo per organizzare le primarie? Dov’era Sel? E lasciamo stare gli altri.
E’ la stessa storia che ho visto, dall’altro lato dello stesso quartiere, qualche anno fa, quando l’allora amministrazione Rutelli cercò di decentrare i campi rom istituendone uno di dimensioni limitate anche da queste parti: blocchi stradali, indignazione, grida rivoltose, Forza Italia e gli ultras della Lazio in strada, e della sinistra non una traccia. E alla fine, come a Treviso, come a viale Morandi, vincono loro.
Il senso comune, il mescolarsi di paura, egoismo, vittimismo, ignoranza che si respira nell’aria di oggi è anche il risultato della nostra abdicazione dalla politica come pratica quotidiana nella società e nei territori, direi come didattica ed educazione di massa come è stata per tanta parte della nostra storia. Ci siamo riempiti la bocca con Syriza, ma in paese ben più difficile e con più immigrati del nostro, Syriza nelle strade e nei quartieri c’era, ed è per questo che finora Alba Dorata non egemonizza le piazze. I manifestanti di Casale San Nicola non sono innocenti e la “comprensione” da più parti manifestata per le loro “ragioni” è pericolosamente vicina alla complicità. Ma sono soggetti subalterni e manipolati, capaci di ribellarsi solo contro gente più debole di loro. La colpa più grave è la nostra, la colpa è di una sinistra che ha un’idea rattrappita, separata, specialistica e mediatica della politica, che ha scelto di lasciare impolverare una democrazia costituzionale basata sulla partecipazione attiva dei cittadini – e che anche per questo si è ampiamente lasciata contaminare da settarismo, da affarismo e corruzione, e anche in buona parte dalla stessa mentalità egoistica e proprietaria di cui vediamo anche in questi episodi i risultati.
I nostri governanti non hanno per migranti e rifugiati più rispetto dei rivoltosi trevigiani e romani. Basta vedere come li gestiscono: non sono persone ma problemi, da collocare dove capita, nella prima discarica che viene sotto mano, senza progettare, senza coinvolgere, senza attivare pratiche democratiche che possano prevenire i conflitti e aiutare l’accoglienza, senza assicurarsi che dove li mettono ci possano davvero vivere. Chi sta al governo lo sa benissimo che aria tira. Operazioni improvvisate, dilettantistiche e autoritarie come queste sembrano – magari, sapendo chi c’è al ministero degli interni, sono – fatte apposta per aizzare il peggio che c’è nel paese. Poi si mandano i poliziotti coi caschi blu, a menare e a farsi menare. Le vere priorità di governo sono altre.
Eppure io resto convinto che questo paese non è rappresentato dai facinorosi di Quinto e di Casale San Nicola. Sono convinto che siano minoranze che monopolizzano il discorso pubblico e mediatico solo perché glielo consente il silenzio di tutti gli altri. La possibile ricostruzione della sinistra passa da qui. Vanno benissimo gi accordi politici, le sinergie fra notabili e gruppi dirigenti. Ma fino a quando in strada ci saranno solo quelli di Casa Pound, tutto questo – al meglio – resterà chiuso fra le solite quattro mura.
A proposito. All fine, la bambina palestinese che Angela Merkel ha fatto piangere e la sua famiglia, in Germania ci potranno restare
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-272155037252058232015-07-01T10:13:00.001+02:002015-07-01T10:13:44.377+02:00Charleston - South Carolina - June 20, 2015Before he started shooting, white terrorist Dylann Roof told the congragation in Charleston’s Emanuel African Methodist Episcopal Church: “You rape our women and are takng over our country”. These are two distinct paranoias – sexuality and power – harking to different historical times and yet connected by an undercurrent of meaning.
The image of the “black rapist” has deep roots in history, so much so that it sounds even slightly anachronistic today. Of course, it never disappeared from American (and Italian) imagination: we still remember the use of Willie Horton in Bush’s 1988 campaign. Yet, it harks back mostly to the years of mass lynching between Reconstruction and the 1930s, and has not been as visible recently. The fact that Dylann Roof mentioned it first is a sign of the deep atavistic pathologies he was swimming.
On the other hand, the belief that black people are taking over America is closely linked to the present moment. The election of Barack Obama, far from being a sign of the erosion of racial barrier, has unleashed fears of black domination, with African Americans on top and white people reduced to the status of second-class citizens. Whether intentional or not, even the recent wave of police killings of black people is part of this paranoid context. The white suprematist vision of the world cannot countenance coexistence, equality, multiplicity. Either we are on top, or them. So, each time white power appears to have been checked in the slightest manner, it is perceived as an apocalyptic change. Likewise, a few thousand migrants represent an “invasion” to paranoid white Europe.
What keeps these two historically distinct paranoias together is the obsession with purity. The obsession with rape evokes the terror of “miscegenation”: in racial ideology, one sixteenth or less of black “blood” makes a person entirely black. Likewise, even the slightest fragment of power by back in society is perceived as a contamination that makes the whole public sphere dirty and impure. An anthropological definition of “dirt” is “matter out of place”: nothing is more out of place than black Trevor Martin in a white neighborhood, or black Barack Obama in the White House.
This is why I think that the question whether Dylann Roof acted alone or not is irrelevant. Even if he turns out to have acted alone, his action s not an isolated event. We may have forgotten the white terrorist who broke into a Sikh temple in Wisconsin in 2012 and killed six people: he hated Muslims and Arabs, and the fact that Sikhs are neither was irrelevant, they were out of place anyway, like all immigrants, like this week’s migrants perched on the shoals at the French border or camping around the stations in Rome or Milan (and our peculiar obsession with purity and dirt has invented the paranoia of migrants as bearers of scabies). Dylann’s is not an isolated case: have we forgotten the black church burnings of the mid-90s? ,or the four children killed in Church in Birmngham in 1963? We ought to investigated the relationship between the obsession with the dirt and the aggression to the sacred in all these cases.
Charleston is a special place. In slavery times, South Carolina used to be the one state with a blck majority population. Here, in 1821, the ex-slave Denmark Vesey and his comrades organized the most important black revolt in slavery’s history – important not for what they did (they were discovered and killed before they could act) but for what they thought. Charleston is connected to the Caribbeans, and Denmark Vesey had heard from the Haitian sailors in Charleston harbor the story of their revolution and the ideas of the French revolution. In elegant reactionary Charleston, black slaves were the bearers of the ideas of freedom and modernity. Today, it is their descendants who help us salvage some traces f a progressively eroding sense of humanity.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-1517161235839638142015-07-01T10:11:00.001+02:002015-07-01T10:12:16.392+02:00Charleston, South Carolina. - il manifesto 20.6.2015Prima di iniziare il massacro, Dylann Roof ha detto ai fedeli neri della Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston, South Carolina: “stuprate le nostre donne e vi state impadronendo dell’America”. Sono due paranoie diverse – la sessualità e il potere - connotate da epoche diverse ma infine connesse da un sottofondo di senso.
La figura del nero violentatore affonda radici profonde nella storia, e questo le dà oggi un curioso sapore anacronistico. E’ vero che non è mai del tutto scomparsa dall’immaginario americano (e neanche dal nostro): la campagna elettorale che portò all’elezione di Bush padre nel 1988 fu tutta imperniata sulla figura di Willie Horton, un afroamericano che, in libera uscita dal carcere, aveva violentato una donna bianca. Tuttavia, rinvia soprattutto agli anni dei linciaggi di massa, fra la guerra civile e gli anni ’30, ed è stata relativamente meno presente in epoca più recente. Il fatto che Roof l’abbia riesumata rivela da quali paure ataviche è stato mosso, in quali profondità oscure è andato a pescare.
L’idea che i neri stiano impadronendosi dell’America invece è strettamente legata alla contemporaneità. La presidenza Obama, lungi dal segnare il superamento delle tensioni razziali, ha finito per acutizzarle, generando la convinzione che i neri stiano prendendo il potere e si preparino a ridurre i bianchi a cittadini di seconda classe. Intenzionale o meno, anche l’ondata di assassinii di neri da parte della polizia fa parte di questo quadro paranoico. La visione del mondo dei ”suprematisti” bianchi non ammette vie di mezzo coesistenze, sfumature: se non dominiamo noi, domineranno loro. Per questo, ogni volta che il potere bianco viene sia pure minimamente intaccato, è percepito come l’inizio di un capovolgimento apocalittico. E poche migliaia di profughi rappresentano un’”invasione” agli occhi di un Europa bianca paranoica.
Quello che tiene insieme queste due paranoie storicamente diverse è l’ossessione della purezza. L’atavica paranoia dello stupro si collega al terrore della miscegenation, la “mescolanza” che contamina la purezza del “sangue” della stirpe dominante. Nell’ideologia razziale americana, basta avere un sedicesimo di “sangue” nero per essere considerati cento per cento neri. La moderna ossessione per la “conquista” o l’”invasione” nera è anch’essa fondata su un analogo terrore della contaminazione : basta che i neri ottengano un frammento di potere perché l’intera sfera del potere sia percepita come sporcata e impura. Se è vero che lo sporco è “materia fuori posto”, ebbene, niente è più fuori posto di Treyvor Martin in un quartiere per bianchi o di un nero alla Casa Bianca. I puri devono correre ai ripari.
Per questi motivi mi sembra mal posta la domanda se il terrorista Dylann Roof sia un isolato o faccia parte di un’organizzazione. Anche se avesse agito tutto da solo, comunque non è un isolato, perché è espressione di una patologia diffusa e attivamente coltivata da media e politici di destra. Non è comunque isolato il suo gesto. Forse ce ne siamo già scordati, nel succedersi incessante di tragedie di cronaca, ma nel 2012 un altro terrorista bianco è entrato un tempio Sikh nel Wisconsin e ha ammazzato sei persone: odiava gli arabi e i musulmani, che i Sikh non fossero né l’uno né l’altro era irrilevante. Erano comunque gente fuori posto nell’America bianca e cristiana, come sono fuori posto tutti i migranti, accampati sugli scogli di Ventimiglia o attorno alle stazioni di Roma o di Milano (e la nostrana ossessione della purezza si è inventata pure l’emergenza scabbia). Non è un gesto isolato non solo perché, come in tanti hanno ricordato, echeggia la strage di Birmingham, Alabama, le quattro bambine uccise in chiesa da una bomba terrorista bianca nel 1963, ma anche perché – e anche questo fatichiamo a ricordarcelo – a metà anni ’90 l’America fu segnata da un’ondata di incendi dolosi di chiese nere. E c’è da domandarsi che relazione esista fra l’ossessione dello sporco e l’aggressione ripetuta al sacro.
Charleston, dove è successa questa strage, è un posto un po’ speciale. Al tempo della schiavitù, il South Carolina era l’unico stato in cui i neri fossero maggioranza. Fu qui che nel 1821 l’ex schiavo Denmark Vesey e un gruppo di suoi compagni organizzarono il più importante tentativo di rivolta della storia della schiavitù – importante non tanto per quello che fecero (furono scoperti e uccisi prima di poter agire) quanto per quello che pensavano. Orientata verso il Sud, verso i Caraibi, Charleston era “contaminata” dalle idee rivoluzionarie e di liberazione che arrivavano dall’appena compiuta rivoluzione di Haiti. Denmark Vesey era stato in contatto con i marinai haitiani, conosceva il pensiero della rivoluzione francese. Nella raffinata reazionaria Charleston, gli schiavi e gli ex schiavi erano i portatori delle idee di modernità e di libertà. Oggi, sta ai loro discendenti salvare un senso di umanità di cui sempre più, ogni giorno, perdiamo le tracce.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-77492181879991764862015-05-23T20:27:00.001+02:002015-05-23T20:27:05.967+02:00La polizia uccideIl 4 febbraio 1999, Amadou Diallo, uno studente africano che era a New York per motivi di studio, fu fermato da quattro agenti di polizia sulla soglia della sua casa del Bronx. Mentre metteva la mano in tasca per estrarre il portafoglio e far vedere i documenti, i quattro gli esplosero contro 41 colpi di arma da fuoco, uccidendolo. Diallo era disarmato. I poliziotti dissero che erano alla ricerca di un criminale e che la sua descrizione poteva corrispondere alla fisionomia di Amadou Diallo. Effettivamente, tanto il ricercato quanto la vittima erano neri. I quattro poliziotti resteranno impuniti.
Pochi mesi dopo, il 4 giugno, ad Atlanta, Bruce Springsteen e la E Street Band eseguono per la prima volta una nuova canzone – 41 Shots: “E’ un’arma, è un coltello, è un portafogli? È la tua vita, non è un segreto che puoi essere ammazzato solo perché vivi nella tua pelle americana”. La strofa centrale della canzone è un dialogo fra una madre e un figlio: “In queste strade, Charles, devi capire le regole. Se un poliziotto ti ferma, promettimi che sarai sempre educato, che non ti metterai a correre e scappare, e che terrai le mani bene in vista”.
Sono praticamente le stesse parole che il sindaco di New York, Bill de Blasio (sua moglie è nera, e quindi lo sono ufficialmente i suoi figli), ha pronunciato dopo l’uccisione impunita di Eric Garner, afroamericano ucciso a New York il 17 luglio 2014 dalla polizia: “Mia moglie e io abbiamo dovuto parlarne per anni a nostro figlio Dante. E’un bravo ragazzo, che rispetta la legge, a cui non verrebbe mai in mente di fare niente di male, eppure c’è una storia che ci pesa addosso, ci sono dei pericoli che corre – abbiamo dovuto letteralmente addestrarlo, come tante famiglie di questa città per decenni, e insegnargli a stare molto attento quando incontra gli agenti di polizia che sono lì per proteggerlo. E’ un doloroso senso di contraddizione che i nostri ragazzi vedono – la polizia è qui per proteggerci eppure c’è una storia che dobbiamo superare, perché tanti dei nostri ragazzi hanno paura. E tante famiglie hanno paura”. Anche il poliziotto che ha ucciso Eric Garner è stato assolto.
I figli del sindaco di New York sono neri. E’ nero anche il presidente degli Stati Uniti, e sono nere le sue figlie. Il 26 febbraio 2012 Trayvon Martin, un ragazzo nero di 17 anni, disarmato, fu ucciso a Sanford, Florida, dal vigilante George Zimmerman (anche lui assolto, dopo un lungo ciclo di indagini e processi). Barack Obama commentò: “Quando penso a quel ragazzo, penso alle mie figlie… Se avessi un figlio, somiglierebbe a Trayvon” – avrebbe la stessa “pelle Americana” e correrebbe gli stessi rischi. Puoi essere figlio del sindaco, figlio del presidente, o un borsista africano del Bronx, non fa differenza: la prima e ultima cosa che gli agenti vedono è la tua pelle.
La morte di Michael Brown, diciottenne disarmato ucciso il 9 agosto 2014 da un poliziotto bianco a Ferguson, Missouri, e quella di Eric Garner, soffocato a morte da un poliziotto bianco a New York il 17 luglio 2014 sono solo un paio fra gli episodi recenti di una lunga storia. Le più drammatiche rivolte dei ghetti americani – Los Angeles 1992, Miami 1996, Cincinnati 2002 – sono scaturite da episodi di violenza poliziesca. Ma gli episodi di Ferguson e New York hanno segnato un cambiamento nello stato d’animo della popolazione afroamericana, e non solo, risultato di un’amara presa d’atto: l’elezione di un presidente afroamericano ha conferito alla comunità nera una maggiore certezza dei propri diritti di cittadinanza, e reso più insopportabile il fatto che continuino ad essere violati impunemente come se niente fosse cambiato. Così, alla mobilitazione locale e nazionale dopo l’uccisione di Michael Brown (e alle risposte violente della polizia), hanno fatto seguito i “die-in” a New York e altrove, in cui centinaia di persone, bianchi e neri insieme come ai tempi della lotta per i diritti civili, si sono distese a terra ripetendo come slogan le ultime parole di Eric Garner: “I can’t breathe”, non posso respirare. Eric Garner è stato ucciso da in “chokehold”, la presa da dietro con le braccia attorno alla gola.
La “chokehold” (“presa a soffocamento”) è parente stretta di quella mortale pratica della”contenzione” che ha provocato non poche vittime anche in Italia. L’abbiamo vista al cinema nella morte di Radio Raheem in Fai la cosa giusta di Spike Lee (che infatti ha mixato le immagini del suo film con quelle della morte di Garner in un video di grande efficacia). “I can’t breathe” è sia una ripresa letterale delle ultime parole di Garner soffocato dalla “chokehold”, sia una metafora dell’atmosfera irrespirabile che si è creata attorno al rapporto fra polizia e minoranze negli Stati Uniti– “la storia che ci grava addosso” , nella parole del sindaco de Blasio. E’ un clima che è stato reso ancora più pesante dall’assassinio di due poliziotti a New York, il 21 dicembre 2014, da parte di un attentatore afroamericano che si è poi suicidato. Nessuno dei due poliziotti uccisi - Liu Wenjin and Raphael Ramos – era bianco. L’evento ha aggravato ancora di più la tensione fra le forze di polizia da un lato e la comunità afroamericana e i difensori dei diritti civili dall’altro, come se la morte di due agenti delegittimasse le proteste e la rabbia per l’assassinio dei ragazzi neri. Ma gli inviti di de Blasio sospendere le proteste hanno avuto un effetto molto limitato.
A questa tensione contribuiscono una serie di elementi: lo spirito di corpo, la certezza dell’impunità, il razzismo diffuso, il cosiddetto racial profiling, la segregazione residenziale e la cultura delle armi.
Un malinteso spirito di corpo non è certo una specificità americana: i casi Cucchi, Aldrovandi, Magherini e tanti altri mostrano come anche in Italia le cosiddette forze dell’ordine si chiudano a riccio a protezione dei loro membri responsabili di atti di violenza, come se denunciare un abuso da parte di singoli agenti equivalesse ad aggredire l’intera organizzazione anziché cercare di migliorarla. Anche negli Stati Uniti la polizia copre gli abusi invece di liberarsi dei responsabili e arriva (come da noi nel caso di Aldrovandi) a manifestare pubblicamente in difesa dei responsabili.
Negli Stati Uniti, questa difesa corporativa ha assunto toni anche spettacolari. Si era appena diffusa la notizia della canzone di Bruce Springsteen su Amadou Diallo che i poliziotti di New York si sono dichiarati insultati e offesi e hanno annunciato – seguiti da stampa simpatetica – il boicottaggio dei concerti di Springsteen. La canzone non l’avevano neanche sentita, ma nominare i “41 colpi” gli pareva in sé una provocazione intollerabile: sull’episodio doveva scendere il silenzio, il solo fatto di parlarne era un’aggressione all’intero corpo di polizia. Eppure la canzone è forse l’unico testo nella cultura popolare americana che cerca di vedere anche il punto di vista dei poliziotti e immaginare la loro umanità: la prima strofa li mostra inginocchiati davanti al corpo di Diallo, che pregano disperatamente perché non muoia. Più recentemente, si è ripetuto il gesto clamoroso dei poliziotti che, in occasione della commemorazione dei due commilitoni uccisi, hanno voltato pubblicamente e ostentatamente le spalle al sindaco de Blasio, colpevole di avere constatato che i ragazzi neri hanno motivo di avere paura della polizia.
La dimensione corporativa culmina con il senso di impunità. Anche questa non è una specificità americana: basta pensare alle brillanti carriere dei poliziotti condannati dopo i fatti di Genova del 2001. Allo stesso modo, gli assassini di Amadou Biallo, Michael Brown, Eric Garner, Trayvor Martin sono andati tutti impuniti, ed è stato anche questo che ha suscitato la rabbia e l’indignazione in tutto il paese. C’è una sistematica vicinanza ideologica, sociale e culturale fra l’universo delle forze dell’ordine e quello delle commissioni che indagano e infine decidono sul loro comportamento. Spesso (un po’ come nei nostri processi per stupro – o come nel caso Cucchi), il procedimento nei confronti degli agenti si è trasformato in un’aggressione all’identità delle vittime nel tentativo di dimostrare, contro ogni evidenza, che erano loro gli aggressori (è il caso delle prime versioni della morte di Michael Brown – ma anche il paradossale tentativo di dimostrare che nel caso di Trayvor Martin il vero razzista era lui) o comunque che se l’erano cercata, che se lo meritavano, che erano dei poco di buono marginali.
Al centro di questo quadro, naturalmente, sta il razzismo: il pregiudizio e la paura dell’altro. Non è certo un’esclusiva della polizia, ma diversi studi hanno dimostrato che tra i poliziotti il pregiudizio è ancora più diffuso che nella popolazione in generale. Per esempio, in un esperimento condotto dopo l’uccisione di Diallo, la maggioranza dei soggetti scambiavano oggetti innocui per armi con più frequenza se l’immagine era accompagnata da un faccia nera che non da una faccia bianca; e questa tendenza era ancor più marcata fra gli agenti di polizia che avevano partecipato all’esperimento. Come disse uno dei ricercatori, “i poliziotti sono addestrati ad essere molto sensibili alle armi, ma non a disfare gli stereotipi razziali inconsci”.
Anche qui non si tratta di una speciale perversità americana: un pregiudizio, implicito e talora esplicito, segna anche il rapporto fra forze dell’ordine e stranieri e migranti in Italia. Ma negli Stati Uniti riceve una definizione e una sanzione quasi istituzionale, sotto il nome di “racial profiling”. Il profiling è una tecnica investigativa che cerca di identificare gli autori di atti criminosi ricostruendone dagli indizi disponibili i tratti psicologici e il retroterra culturale; il profiling razziale è invece l’abitudine degli agenti di assumere l’identità etnica o il colore della pelle di una persona come motivo per ritenerla automaticamente sospetta di comportamenti criminali. Teoricamente il “racial profiling” sarebbe vietato, ma nella pratica investe continuamente la vita quotidiana di afroamericani e ispanici. Per esempio, essere neri, magari benvestiti, e alla guida di una macchina non scassata può essere motivo per venire sospettati di averla rubata ed essere fermati e inquisiti (è successo al filosofo e professore universitario Cornell West). Il “black English” afroamericano ha inventato una ironica definizione di questo crimine: DWI, Driving While Black (parodia del DUI, Driving Under the Influence, guida in stato di ubriachezza o sotto gli effetti della droga): guida in stato di nerità. Un rapporto del Dipartimento della Giustizia riferisce che neri e gli ispanici alla guida vengono perquisiti tre volte più spesso dei bianchi quando vengono fermati per motivi di traffico. Gli afroamericani hanno il doppio delle possibilità di essere arrestati e il quadruplo delle possibilità di subire atti violenti in occasione di incontri con la polizia.
Essere nero, giovane e maschio è in sé segno di essere sospetto o direttamente criminali: la presunzione di innocenza si rovescia, sei colpevole fino a prova contraria. Puoi essere anche un professore di Harvard di fama internazionale, come Henry Louis Gates, ma se sei nero e stai armeggiando di fronte alla porta di casa tua, puoi essere arrestato e portato in commissariato (per aver criticato questo comportamento, Barack Obama – sospettato di solidarietà razziale - ha dovuto chiedere scusa al poliziotto protagonista di questo brillante arresto e premiarlo con un invito alla Casa Bianca). Una legge varata in Arizona nel 2010 ordinava che chiunque fosse arrestato per qualunque motivo doveva dimostrare di non essere un immigrato clandestino: ovviamente, il sospetto gravava in primo luogo su chiunque sembrasse di origine messicana o chicana.
L’episodio di Henry Louis Gates rinvia a un altro elemento: la segregazione residenziale. Nella sua narrazione autobiografica (Black Boy, 1946), Richard Wright ricorda la paura con cui lui, ragazzo nero, attraversava i quartieri bianchi tornando a casa dal lavoro. I “restrictive covenants”, gli accordi fra proprietari per non vendere o affittare case ad afroamericani, sono vietati dalle leggi sui diritti civili di Lyndon Johnson negli anni ’60; ma, nella misura in cui la razza si incrocia con la classe, i quartieri restano in gran parte socialmente, e quindi etnicamente omogenei – tanto più in quanto si sono diffuse le cosiddette “gated communities”, i quartieri privati recintati ed esclusivi in cui vive solo chi è simile a tutti gli altri. Così, come un nero al volante di una bella macchina è sospetto di furto, così un nero che apre la porta di casa sua in un quartiere borghese di Cambridge, Massachusetts non può essere altro che un rapinatore. Un nero in un quartiere del genere è un corpo fuori posto: c’entra anche questo nell’uccisione di Trayvor Martin in Florida: prima di scontrarsi con lui e di ucciderlo, il vigilante George Zimmerman chiamò la polizia per avvertire che “un tizio assai sospetto…. un maschio nero... sta guardando le case”, ed è quindi – nero, giovane, maschio - automaticamente sospetto di volerle rapinare.
A tutto questo va aggiunta l’ossessione americana per le armi. Questo elemento funziona in due direzioni convergenti. Da un lato, questo significa che la polizia, spesso munita - come quella di Ferguson, Missouri, di armi pesanti da guerra – non ha molte remore a usarle. Dall’altro, il fatto che ci siano così tante armi in circolazione induce negli agenti l’aspettativa che qualunque soggetto “sospetto” sia armato. Nella maggior parte degli Stati Uniti, l’unico elemento di moderazione sul possesso delle armi è la norma che autorizza a portarle purché siano visibili; la Florida, dove viene ucciso Trayvor Martin, è uno di quegli stati che invece autorizzano il possesso di armi anche nascoste. Bisogna armarsi, dice la National Rifle Association, perché solo così ci si può difendere dagli aggressori armati che stanno dappertutto: una mentalità da assedio che si traduce, dopo l’11 settembre, in quell’ossessione del terrorismo che salda le paure private alle paranoie pubbliche
Così, al pregiudizio e al “racial profiling” si aggiunge la paura. I poliziotti vedono una minaccia in ogni nero e in ogni ispanico povero nel posto sbagliato: Andy Lopez, un ragazzino messico-americano di13 anni, viene ucciso a Sonoma, California, il 22 ottobre 2013, da un delegato dello sceriffo che scambia il suo fucile giocattolo per un’arma vera. Certo, spesso le armi sono vere sul serio, non di rado l’affermazione di avere sparato per legittima difesa corrisponde a verità, e non sono pochi i poliziotti che restano uccisi nell’esercizio delle loro funzioni. Altre volte, si tratta di un’affermazione non dimostrata ma plausibile. Ma anche in questi casi troppo spesso l’addestramento ricevuto non mette i poliziotti in grado di controllare il panico o di rispondere a una minaccia vera o percepita senza uccidere.
Il 24 dicembre 2014, Antonio Martin, 18 anni, è ucciso da un poliziotto a St. Louis, non lontano da Ferguson, mentre sono ancora vive le proteste per l’uccisione di Brown e Garner. La polizia afferma che era armato. Il video di sorveglianza della stazione di servizio dove avviene il fatto mostra che Martin ha un braccio teso verso l’agente; non si distingue nessuna arma ma il poliziotto “ha sparato perché aveva paura per la propria vita”. Era la terza persona uccisa dalla polizia a St. Louis dopo la morte di Michael Brown. In un altro caso la vittima era effettivamente armata e aveva sparato per prima.
Ma al di là di episodi comprensibili, resta il fatto che gli Stati Uniti sono un paese che fa un uso sproporzionato della repressione e del carcere, e che questa distorsione grava in modo sproporzionato sulla popolazione afroamericana e latina. Un documento della National Association for the Advancement of Colored People (l’organizzazione che lavora soprattutto sui diritti legali degli afroamericani), fornisce alcuni dati (http://www.naacp.org/pages/criminal-justice-fact-sheet). Gli Stati Uniti sono il 5% della popolazione mondiale, ma hanno il 25% delle persone in carcere (2,3 milioni al 2008). Il 3,2% della popolazione è sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, in carcere o in libertà provvisoria. Afroamericani e ispanici sono circa un quarto della popolazione degli Stati Uniti, ma costituiscono quasi il 60% dei detenuti. Il 58% dei detenuti nei carceri giovanili è nero; e sono in aumento anche le donne nere detenute. In Italia, dove la quota di stranieri sulla popolazione residente è attorno al 7%, gli stranieri in carcere sono attorno al 23%.
Nel frattempo la polizia continua a uccidere: nel mese di gennaio 2015, quindi dopo tutto quello che è successo dopo la morte di Michael Brown, le persone uccise dalla polizia – di tutti i colori, in ogni genere di circostanze, sono 58. Nel 2014, i morti per mano della polizia superavano i 600.
Il 28 dicembre 2014 a Jacksonville in Florida David Scott è ucciso da una squadra speciale di polizia. L’ufficio dello sceriffo spiega: “Hanno visto che aveva in mano un oggetto che sembrava una pistola, lo puntava come se fosse una pistola, e gli hanno sparato 21 volte al torso, alle braccia e alle gambe.” L’oggetto che aveva in mano, che ha indotto gli agenti a un panico omicida, era una scatola avvolta in un calzino.
La morte di Amadou Diallo non ha insegnato niente.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-37039102831572172382015-05-23T20:24:00.001+02:002015-05-23T20:24:09.322+02:00La polizia uccideLa serie degli omicidi razziali della polizia americana si allunga: in pochi mesi, Treyvor Martin, Michael Brown, Eric Garner, Antonio Martin, David Scott… In questa settimana, il senza casa dal simbolico soprannome di “Africa” a Los Angeles; e Anthony Robinson, 19 anni, a Madison, Wisconsin, nel giorno simbolico del cinquantenario della manifestazione per i diritti civili a Selma mezzo secolo fa (e della sua violenta repressione da parte della polizia). E non sono tutti: Nel 2014 le persone uccise dalla polizia sono oltre 600, di tutti i colori ma soprattutto nere e latine.
La geografia di questi omicidi compre l’intero territorio degli Stati Uniti: Florida, New York, Missouri, California, Wisconsin, da sud a nord, da est a ovest. Come dire che il problema non è Selma del 1965 ma l’America intera del 2015. Ha ragione Barak Obama: Selma è adesso, ha detto, ed è dappertutto.
Di che è fatto il razzismo che alimenta questa serie di crimini? In primo luogo, il disprezzo: le vite degli afroamericani contano meno (“black lives matter” è stata la parola d’ordine delle proteste negli ultimi mesi). L’impunità e lo spirito di corpo: nessun poliziotto ha perso il posto e tanto meno è andato in carcere per avere ucciso un nero. L’incompetenza: ma è mai possibile che l’unico modo che hanno per controllare persone che reagiscono (o sembra che reagiscano) ai tentativi di arresto sia di ammazzarle? E al tempo stesso, l’addestramento: il racial profiling insegna a vedere in ogni giovane nero un potenziale criminale. Di qui, l,a paura e la paraonoia: in un paese dove tutti sono armati, ci si aspetta che anche i sospettati lo siano, e al primo gesto si risponde, come nel mitico West, sparando per primi – anche ai disarmati. Un tempo dicevamo che l’America è il gendarme del mondo. Nelle periferie di St. Louis e di Madison i gendarmi americani si comportano come il loro paese, intrecciando la paura del terrorismo col senso della propria onnipotenza, si è comportato in Irak e in Afghanistan dopo l’11 settembre (immaginandosi armi di distruzione di massa dove non ce n’erano, come i poliziotti di Harlem e Jacksonville hanno scambiato oggetti innocui per pistole).
Il 28 dicembre 2014 a Jacksonville in Florida David Scott è ucciso da una squadra speciale di polizia. L’ufficio dello sceriffo spiega: “Hanno visto che aveva in mano un oggetto che sembrava una pistola, lo puntava come se fosse una pistola, e gli hanno sparato 21 volte al torso, alle braccia e alle gambe.” L’oggetto che aveva in mano, che ha indotto gli agenti a un panico omicida, era una scatola avvolta in un calzino. Nel 1999, a Harlem, Amadou Diallo è stato crivellato con 41 colpi di pistola perché i poliziotti avevano scambiato il suo portafogli per una pistola.
E poi c’è la politica. E vero che Selma non è mezzo secolo fa, ma oggi. Da una parte, senza Selma non ci sarebbe Obama: sono i diritti civili strappati dopo quella lotta che hanno reso possibile l’elezione di un presidente nero. Ma è proprio l’elezione di un presidente nero che incita la destra a rimettere in discussione quei diritti perché è il segnale che tanti spazi e privilegi riservati ai banchi non sono più protetti come un tempo. Anche perché da Selma e da Obama,gli afroamericani hanno tratto lì incitamento a far valere i loro diritti di cittadini americani, e in questo modo ne trasformano il senso
Diceva Bruce Springsteen: ti possono ammazzare solo perché sei vivo nella tua pelle americana. Altrove ti possono ammazzare perché sei vivo e basta. Ho cominciato elencando i nomi delle vittime afroamericane negli Stati Uniti. Potremmo fare una lista anche noi: Aldrovandi, Cucchi, Magherini, Sandri… Abbiamo una forza politica nazionale in ascesa che invita tutti a proteggersi da neri e immigrati sparando e uccidendo. Stiamoci attenti.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-20651332556796746512015-02-14T10:20:00.004+01:002015-02-14T10:20:56.090+01:00Massimo Rendina partigiano: dall'8 settembre al 25 aprileil manifesto 14.2.2015
Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’appassionata storia e la vivida memoria nel racconto del comandante partigiano Massimo Rendina, uno dei veri protagonisti della Resistenza e dell’Italia democratica, raccolto da Alessandro Portelli in una intervista (parte di una lunga narrazione che va dall’infanzia veneziana all’antifascismo dei nostri giorni) presso la Casa della memoria e della Storia di Roma, di cui Rendina era stato un fondatore
«Ero tornato a Bologna dalla Russia indignato contro il fascismo perché i miei soldati li aveva mandati a morire, senza armi, senza niente, e ripresi a lavorare al Resto del Carlino. L’8 settembre andai a trovare i miei genitori a Torino, ma quel giorno i tedeschi entrarono a Torino. Li vidi entrare, erano molto belli negli impermeabili verdi, mi impressionò la differenza con il nostro esercito scalcinato. E c’erano delle donne che urlavano, uno di loro sparò e credo che abbia colpito qualcuno. Non sono sicuro ma fu determinante per me, fu come una ribellione interiore: gliela faccio pagare. Credo che sia successo a tanti che furono presi da sentimenti diversi, ricordi della prima guerra mondiale, i giuramenti alla patria, io avevo giurato da ufficiale… Per cui non ci fu una base comune ma tante storie individuali che entrarono nella Resistenza.
«Possiamo farlo insieme»
Entrai in un bar vicino alla stazione e c’era gente che diceva bisogna fare qualcosa, basta coi tedeschi, e c’era Corrado Bonfantini, che disse: chi vuole fare qualcosa, possiamo farlo insieme. Mi diede appuntamento il giorno dopo e formammo le squadre, divise fra Partito d’Azione e socialisti. Il nostro compito era informativo, di sabotaggio e anche di eliminazione, simile ai Gap. Io non sapevo che esistessero i Gap se non per sentito dire. Facevamo le stesse cose, ma senza la stessa capacità organizzativa e senza le azioni gloriose fatte dai Gap di Torino che erano comandati da Giovanni Pesce e da Ilio Barontini, che erano stati in Spagna. La prima cosa era procurare le armi per formare squadre che potessero combattere seriamente, e alimentare la guerriglia che si veniva formando in montagna. Comunque abbiamo compiuto varie azioni, abbiamo fatto saltare gli impianti ferroviari, varie cose che si dovevano fare in quei tempi. Io ero abbastanza esperto di esplosivi perché avevo fatto il corso guastatori nell’esercito. Anche eliminazioni: c’era un reparto di polizia addetto contro i partigiani, e io mi ero fatto amico, fingendo di esser fascista, con uno di questi agenti che mi diceva come ricevevano le informazioni – le delazioni sono state moltissime perché erano ben pagate. E io ho partecipato a queste azioni di eliminazione.
I fascisti scoprirono il comando militare, col quale ero in contatto tramite i cattolici. Fu preso in una chiesa, dove avrei dovuto trovarmi anch’io, tutto il comando militare del Cln e furono fucilati al Martinetto. Perché non andai a quell’incontro? Mi aveva mandato Bonfantini; lui disse a me di andare perché si sentiva seguito; ci vedemmo a distanza in piazza Carignano e luI mi fece cenno di stare attento; appena fatto questo cenno gli saltarono addosso due, mi ricordo con impermeabili chiari, gli saltarono addosso. Bonfantini si divincolava e gli spararono alla schiena. Io mi allontanai, ero disarmato, non andai a quell’appuntamento ma capii che la mia vita sarebbe stata in pericolo. Mi disssero di raggiungere un reparto di Giustizia e Libertà nel Monferrato. Però avrei dovuto portarmi dietro dei ragazzi della Barca, una zona vicino a Torino, giovanissimi, avevano costituito un distaccamento e fatto delle azioni, quindi li conoscevo bene. Nel frattempo venni a sapere che un ragazzo che si chiamava Folco Portinari, che poi sarebbe diventato funzionario della Rai e docente, era stato preso dai tedeschi e gli avevano detto, a lui e altri, che se si arruolavano nelle SS italiane avrebbero avuto un trattamento particolare; se no, dovevano andare ai lavori forzati in Germania.
A punta di pistola
A punta di pistola mi feci consegnare un camion dell’azienda del gas, e andai all’appuntamento con questi quaranta in divisa da SS. Salimmo sul camion e andammo a Superga. Decidemmo di dormire lì nel campo, però i ragazzi della Barca sospettarono che queste SS erano vere, e discutevano se uccidermi – poi decisero di aspettare e io ebbi salva la vita, ma per miracolo. Fatto sta che con questo camion che tra l’altro non andava, uno sopra l’altro, raggiungemmo la 19brigata, e lì mi dissero che avrei dovuto comandare questo reparto, che era piuttosto consistente, poi però mi nominarono capo di stato maggiore e passammo nella val di Lanzo.
Lì avemmo delle avventure piuttosto pesanti, dei rastrellamenti feroci. Uno di questi ci portò a disperderci. La nostra tecnica era di prevedere di doverci disperdere e di avere dei punti di raccolta. Il mio punto di raccolta era una conceria, vicino al parco della Mandria, e mentre eravamo lì che ci stavamo riorganizzando arrivò uno che sembrava un contadino a dire che c’era un carrarmato che avevano rimesso a posto, proprio dentro la Mandria, e lui ci avrebbe aperto una certa porticina e avremmo potuto recuperarlo. Andammo, presi una decina di uomini, c’era anche Adolfo, il commissario politico. Io per primo mi presentai davanti a questa porta, e lui ebbe un’intuizione: mi mise il suo mitra sotto il braccio destro, e io avevo la pistola in mano e gli uomini dietro. Aprimmo questa porta — e ci spararono. Io non fui preso dai primi colpi perché quello che mi doveva uccidere fu colpito da questo mitra di Adolfo, ma cadde per terra e sparò una raffica e fui ferito, fui ferito gravemente. Quelli che erano dietro a me mi tirarono indietro e mi salvarono, mentre questo Adolfo rimase in mano loro e fu preso e lo impiccarono.
Mi nascosero nei sotterranei della conceria dove c’erano delle grandi caldaie, faceva un caldo terribile. La ferita mi faceva molto male, sbattevo la testa pensando di ammazzarmi, la pistola non ce l’avevo più, mi intontivo soltanto, finché mi tirarono fuori e mi salvarono, proprio. Poi i nostri reparti si riunirono e ritornammo nel Monferrato, e io mi trovai in una cascina nel Monferrato dove veramente mi salvarono la vita perché ci furono dei rastrellamenti feroci e questi contadini, non sapevo neanche chi fossero, rischiarono la pelle per nascondermi, facevano delle buche col letame perché i tedeschi avevano dei cani che fiutavano, e mi salvarono. Continuai fino alla liberazione a zoppicare.
Noi avevamo dei rapporti straordinari con la gente. Eravamo, se si può dire, molto ricchi, nel senso che una parte della cassa della quarta armata era stata redistribuita alle formazioni partigiane, soldi ci arrivavano anche dalla Fiat, poi anche gli alleati ci mandavano non armi ma soldi. Per cui il rapporto con contadini era buono perché noi pagavamo, non davamo i buoni. Molte volte erano generosi, non volevano essere pagati a volte; noi abbiamo passato un periodo molto buono dal punto di vista dell’alimentazione. Certo le condizioni erano durissime ma l’accoglienza da parte della popolazione fu una cosa straordinaria.
Scendemmo dalle montagne
Quando scendemmo dalle montagne ci ponemmo il problema di che tipo di guerriglia fare. In pianura dovevamo inventare, e io, per carità non pretendo di essere uno stratega, fui uno dei fautori della guerra delle volanti – cioè prendemmo dei camion grossi, li facemmo corazzare, il padre di Sergio Pinin Farina ci fece corazzare dei camion con delle lastre di metallo, e quattro cinque di quei camion diventavano una volante, si facevano della azioni molto veloci soprattutto contro i posti di blocco, e ci si ritirava. Durante i rastrellamenti si nascondevano questi camion, li avevamo anche interrati con delle fatiche spaventose per fare delle buche enormi per questi camion. Facemmo delle azioni, prendemmo anche una piccola città, Chieri, neutralizzando con le volanti i presidi vicini. Per sbaglio nelle prime luci dell’alba io sparai un colpo di bazooka contro il campanile. La presa di Chieri, che prelude a Torino, fu interessante perché queste brigate nere erano gente feroce per cui trovammo nei sotterranei gente moribonda perché avevano messo fra le dita dei piedi del cotone imbevuto di qualcosa che bruciava e gli avevano bruciato i piedi, erano in cancrena… E decidemmo di fucilarli in piazza, e li fucilammo dopo un processo in cui il presidente della corte era un ufficiale dei carabinieri che poi diventò il comandante dei carabinieri a Roma.
I ricordi, anche dolorosi
I ricordi si affastellano, sono anche dolorosi perché ci sono tanti morti. Di quei ragazzi della Barca una metà sono morti. Erano ragazzi di sedici, diciassette anni, e avevano molta fiducia in me. Il rapporto di fiducia col comandante era importante, non perché fosse più valoroso o coraggioso ma perché ti dava un minimo di sicurezza in una guerra così insicura come quella della guerriglia. Io avevo l’esperienza della guerra di Russia ma ho avuto delle paure terribili. Tu non puoi avere paura: devi recitare, di fronte agli altri, perché se no li fai morire; la paura del comandante è la morte dei sottoposti. Tu devi recitare di sapere quello che vuoi, non avere incertezze; se mandi uno in un certo posto è perché sai che dev’essere così, questo l’avevo imparato in guerra in Russia.
E così arrivammo agli ultimi giorni tormentati della presa di Torino. Noi ci attestammo sul Po, arrivò l’ordine dal comando di Torino di entrare in città, però di attestarci prima sul Po per dividere le zone d’attacco. E mentre eravamo lì ricevemmo l’ordine di non entrare a Torino. Il colonnello Stevens della radio inglese aveva avuto informazioni dal comando generale dell’esercito inglese che c’era un raggruppamento di divisioni tedesche che stava puntando su Torino. Stevens diceva che se noi entravamo in Torino, Torino sarebbe stata distrutta, il sangue sarebbe corso in un modo spaventoso. Noi ci fermammo per qualche ora, meditammo – ma la città era insorta, già nelle fabbriche si combatteva. Allora Colaianni, che si chiamava Barbato come nome di battaglia, che era il comandante della zona attestata sul Po, disse: bisogna entrare. E io fui uno dei primi a entrare, coi miei della Barca che passarono il Po. Il comandante si incavolò come una bestia perché lasciai il posto per andare con loro, però rientrai, e entrammo in Torino, mi ricordo con la moto, il sidecar. E furono giorni di combattimenti feroci.
Torino è l’unica città dove si è veramente combattuto tanto, e ci sono degli episodi che non sono stati forse raccontati. La cosa terribile di Torino è che c’erano i franchi tiratori, i quali non sparavano contro i partigiani: sparavano contro chiunque, era un’azione terroristica. E chi li organizzava era questo Solaro che fu poi impiccato allo stesso albero di Ignazio Vian che era un eroico partigiano nostro impiccato dai fascisti. Solaro fu preso non so come, e cominciò a dire che era un uomo di sinistra, che aveva aderito al partito fascista perché voleva che diventasse comunista… Il tribunale militare ne ordinò la m+orte. Mi ordinò di farlo impiccare. Fu incaricato un gruppo della 19ma, però andai anch’io. Ed è una cosa spaventosa, questo uomo distrutto che sa di essere ammazzato; per quanto tu possa essere preso dal livore e dall’amore di giustizia, ti fa sempre male vedere un uomo morire in quelle condizioni. Io ero contrario alle impiccagioni, tanto è vero che ho chiesto se potevamo fucilarlo, mi dissero no; qualcuno tirò fuori il codice inglese, ma la verità è che volevano restituire alla popolazione questa visione del colpevole, l’ organizzatore dei franchi tiratori. E si ruppe la corda, lui cascò, io andai per salvarlo, mi sembrava che fosse il mio dovere, e a quel punto la popolazione sopraffece lo schieramento di questi uomini della 19ma, lo impiccarono e impiccato lo portarono in giro per Torino fin quando lo buttarono nel fiume»Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-39043378386117512122015-02-10T21:16:00.001+01:002015-02-10T21:16:55.518+01:00Gualtiero Bertelli: Venezia e una fisarmonica
il manifesto 10.2.2015
“Mia mamma diceva sempre che ero nato roverso, che fassevo tuto el contrario de quelo che dovevo far. Eccomi qua”.
Gualtiero Bertelli racconta come canta e come parla: con naturalezza, con semplicità e con profondità. Il suo libro, Venezia e una fisarmonica. Storie di un cantastorie (Nuova Dimensione, 2014, pp. 251, 15 euro) intreccia lingua e dialetto come le sue canzoni, per raccontarci di un’infanzia e adolescenza dentro una Venezia operaia di cui oggi resta poco o niente, di una storia musicale che comincia con una fisarmonica strimpellata e passa per l’epopea del Nuovo Canzoniere Italiano, di una scuola pubblica dove un maestro intelligente e creativo può fare tante cose importanti.
La canzone più famosa di Gualtiero Bertelli è “Nina”, probabilmente la più bella di tutto il nostro canone della canzone politica e di protesta, proprio perché la politica non è sbandierata ma incarnata nei suoi effetti sulle vite, i sentimenti, i rapporti dei protagonisti. Anche questo è un libro politico, che racconta senza fare prediche tante stagioni di lotte e stagioni di crisi, con uno sguardo al tempo stesso partecipe e disincantato, con l’ironia e il senso dell’umorismo di chi, attraverso cambiamenti ed evoluzioni, crede ancora alle cose fondamentali che lo hanno formato. E anche per questo il libro si legge con un piacere non superficiale. Fra l’altro, non mancano momenti divertenti – per esempio, l’incontro con un timido e sconosciuto Fabrizio De André all’esame di compositore per la SIAE; o le irresistibili canzoni anticlericali scritte con Mario Isnenghi.
Le protagoniste, come dice il titolo, sono due: la città e la musica. Giustamente, il libro comincia prima della nascita del protagonista, con la nascita delle case e dei quartieri: “All’inizio degli anni ’30 il governo fascista pensò di affrontare il problema devastante dei senzatetto con un piano nazionale di costruzione di case che, per pudore, definì ‘minime’”. Il ragazzo che ci è vissuto canterà poi: ci vuole un bel coraggio a chiamarle case, una stanza di quattro metri con un gabinetto alla turca; “I le ciama case quei disgrassai che ga vissuo per ani da bestie, che ga ciamà case le sofite, i magaseni, i sotoscala”. Ci vorrà un sindaco comunista negli anni ’50 per costruire le case popolari alla Giudecca – “Campomarte, più o meno cinque ettari pullulanti di gente, uomini, donne, giovani, anziani e un numero infinto di bambini riversati da mattina a sera, d’estate come d’inverno, per le strade”.
Da queste strade comincia la musica di Gualtiero Bertelli, figlio e nipote di operai che qualche strumento lo suonavano e che alla nascita sentenziano: “Gualtiero farà il musicista” e lo spediscono a lezione di fisarmonica all’età di cinque anni: “Metite in testa che la fisarmonica ti ga da impararla, parché chi che sa un strumento no mor de fame”. Gualtiero debutterà suonano l’Ave Maria di Schubert con la fisarmonica alla festa dell’Unità di Campomarte.
La storia di Gualtiero Bertelli musicista, militante politico, autore di canzoni indimenticabili (“rimo agosto Mestre sessantotto”, “Stucky…”) è parte della storia della cultura di opposizione da almeno mezzo secolo;: l’incontro con Luisa Ronchini, la ricerca sulla canzone popolare a Venezia, l’incontro con Gianni Bosio, i concerti in giro per l’Italia… Ma Gualtiero non appartiene solo agli anni ’60: a dieci anni di distanza, darà un seguito a “Nina” raccontandone disillusioni e rimpianti; all’inizio del terzo millennio fa squadra con Gianantonio Stella cantando il racconto dell’emigrazione italiana anche per ammonirci sulla xenofobia e il razzismo che prendono piede in Italia e nel suo stesso Nordest; e più tardi ancora riscopre le figure dei cantastorie antichi e canta ballate nuove su storie del Novecento veneto e italiano, sconosciute, marginali e necessarie.
In mezzo, c’è l suo vero mestiere: quello di maestro elementare , che sceglie, negli anni di fermento nella scuola, del Movimento di Cooperazione Educativa, di andare a insegnare nella roccaforte operaia di Mira e scandalizza il provveditorato presentandosi in jeans e maglietta, e fa i conti con i doppi turni, con il travaglio della scuola media unica, con la difficoltà di dare la parola a bambini che non ci sono stati abituati… “L’altro giorno Luciano non aveva la penna e il quaderno…” racconta una sua canzone: e lui è il maestro capace di accorgersi che non è per negligenza ma perché suo padre è operaio alla Mira, sono in sciopero, non hanno quasi da mangiare.
“Ho sempre amato la storia”, scrive verso la fine. “Le canzoni l’accompagnano e la documentano, con continuità e con rappresentatività. Si sono cantati fatti, speranze, desideri, ma anche contrasti, dolori, inganni… Non c’è fase della nostra storia che non sia stata accompagnata da canzoni che ancora oggi la fanno ricordare, amare, rifiutare o temere”. E conclude: “Non ho mai smesso di dare concerti per raccontare storie con parole e canti. Storie che avete letto, o che forse leggerete domani”.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-65644827986647431672015-02-10T21:12:00.002+01:002015-02-10T21:12:20.664+01:00La passione indomabile del comandante Max
il manifesto 10.2.2015
Massimo Rendina, comandante partigiano, non c’è più. Aveva 95 anni (era nato a Venezia nel 1920), forse era nell’ordine delle cose, ma è difficile pensare a quello che resta dell’antifascismo senza di lui.
È stato una figura carismatica, un grande cuore e una straordinaria intelligenza, capace di appassionare gli studenti in tante scuole di Roma con la sua eloquenza antica e coinvolgente, con la tangibile passione per la libertà e la giustizia che lo animavano.
Presidente dell’Anpi regionale del Lazio, era stata la sua ostinazione a ottenere da Veltroni la creazione della Casa della Memoria a Roma. Ne era stato a lungo il principale animatore e la vera ispirazione: aveva la visione di un punto di riferimento internazionale, e con la sua competenza di uomo della comunicazione si adoperava (purtroppo con successo limitato) affinché disponesse delle più avanzate tecnologie per collegarsi con il mondo intero.
Ogni conversazione con lui era intessuta di ricordi dei suoi rapporti con figure importanti della storia, da Aldo Moro a papa Wojtyla, sempre raccontati con una prospettiva insolita, piena di rispetto ma mai subalterna.
La storia della sua vita è un filo che attraversa la storia d’Italia (una lunga intervista che facemmo alla Casa della Memoria bastò solo a raccontarne una metà; ne pubblicheremo una parte sul «manifesto» nei prossimi giorni).
Giornalista prima della guerra, poi ufficiale dei bersaglieri in Russia, ne torna ferito e aderisce subito dopo l’8 settembre alla Resistenza, nelle brigate Garibaldi con cui entrerà a Torino liberata il 25 aprile. Nel dopoguerra, lavora a «l’Unità», poi entra alla Rai, dirige il telegiornale, viene cacciato da Tambroni perché reo di antifascismo, e reintegrato da Moro. Continuerà a scrivere su giornali e riviste, e sarà autore di due libri utilissimi: Italia 1943–45. Guerra civile o Resistenza? (Newton, 1995) e il prezioso Dizionario della Resistenza italiana (Editori Riuniti, 1995).
Claudio Costa ha curato nel 2011 un film che porta il suo nome di battaglia, «Comandante Max», in cui Massimo Rendina racconta i suoi anni di guerra, in Russia e nella Resistenza.
Quando finalmente ci mettemmo seduti per un’intervista vera e propria, parlammo a lungo dei rapporti fra cristianesimo e comunismo. Era un cattolico convinto, restato sempre schierato a sinistra, in modo indipendente, critico, e proprio per questo incrollabile.
Per tutta la vita, ha continuato ad aderire non ai partiti, ma ai principi.
Me lo ricordo dopo un 25 aprile particolarmente difficile, a Porta San Paolo, quando Renata Polverini, allora presidente della Regione Lazio, ebbe la sfacciataggine di salire sul palco e alcuni dei partecipanti pensarono di punirla tirandole uova o qualcosa del genere – e colpirono Massimo invece. Lui questo gesto lo disapprovava e diceva: è quasi un fatto simbolico, certe forme di protesta, invece di colpire il bersaglio reazionario, finiscono per fare male a noi. Forse aveva ragione, forse no; ma ci stava male.Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-46343411730806246732014-08-16T13:11:00.001+02:002014-08-16T13:11:15.018+02:00La Plata: città di memoria
il manifesto 14.8.2014
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Il bar dell’università di La Plata, Argentina, un pomeriggio di agosto. Musica, voci. Di colpo, la musica si ferma, le voci si abbassano, tutte le facce si girano con gli occhi alzati verso la TV. “Come al Mundial”, commenta qualcuno. Ma non è il mundial. Trasmettono in diretta, per intero, senza interruzioni pubblicitarie, la conferenza stampa di Estela Carlotto, presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, e di Guido, suo nipote appena recuperato. E’ impossibile descrivere l’impatto emotivo per tutta l’Argentina. In un Paese dove gli scomparsi e la dittatura sono ancora memoria aperta e ferita viva, la tenerezza personale verso una anziana signora coi capelli bianchi che ritrova un nipote perduto e cercato da 35 anni si intreccia con il sollievo pubblico di sentire, in tempi difficili, che l’ostinazione, la passione, la lotta ci trasformano da vittime in protagonisti, e non sono sempre invano. Forse è davvero un po’ come il mundial, un’emozione che unisce tutto un paese. Ma è un’emozione di altra profondità e spessore. Certe volte si può sconfiggere il passato.
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A La Plata tutto questo è ancora più intenso. Ci vengo da un po’ di anni, e mi vado convincendo che – si parva licet – questa città un po’ anonima dove le strade non hanno nome ma numeri, perpendicolari e diagonali, è un poco come Roma: non puoi fare un passo senza sentire la storia sotto i piedi. Qui, una storia recente che sanguina ancora.
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L’università si è appena trasferita da un francamente orribile edificio nel centro (“un panoptico”, dice uno studente) in questo campus nel verde di edifici immacolati e spaziosi appena restaurati. Volevano farci un supermercato, l’opinione pubblica glielo ha impedito. In passato, era la sede di un reggimento militare, e in questi edifici si praticarono detenzioni e torture. Anni fa, feci un corso in un centro di documentazione che era l’ex sede della polizia politica, con tutti gli schedari ancora lì; molta gente cambiava ancora marciapiedi passandoci davanti, come da noi a via Tasso.. Rovesciare il senso di questi luoghi è un modo di ricordare che cosa sono stati per proclamare che non lo saranno mai più.
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Laura Carlotto, la figlia assassinata di Estela e madre di Guido, era studentessa di questa università, come anche il suo compagno desaparecido, Oscar Montoya. Fuori del bar, una placca sul muro bianco elenca almeno 150 studenti, docenti, dipendenti dell’università uccisi, desaparecidos, torturati. Il nome di Laura Carlotto è poco sotto quello di Maria Brugnone de Bonafini. Sia Estela Carlotto sia Hebe Bonafini, leader delle Madres, sono di La Plata. Le radici delle Abuelas e delle Madres de Plaza de Mayo stanno qui, in questa città studentesca colpita dalla repressione più di ogni altra, circondata di realtà operaie – praticamente attaccata c’è Berisso, con gli antichi stabilimenti abbandonati dell’esportazione della carne, collorata da murales che ricordano le lotte operaie.
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Sto ancora leggendo la placca e passa una ragazza. Me la presentano: è la nipote di un comunista che, ancora studente, fu ammazzato dentro l’università dalla destra, negli anni ’60.
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I dottorandi in storia mi hanno portato a conoscere un altro luogo di memoria: la casa Mariani-Teruggi. Era la sede della tipografia clandestina dei Montoneros; nel 1976, l’intero isolato fu circondato da unità di tutte le forze armate e di polizia e la casa fu letteralmente sfondata cannonate coi carri armati e bombardata con bombe incendiarie. Si vedono ancora i buchi e le pareti crollate, la macchina nel garage crivellata di colpi. Morirono Diana Teruggi, trent’anni, e altri quattro compagni. Suo marito Daniel in quel momento si trovava a Buenos Aires; fu catturato e desaparecido poco tempo dopo.
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L’ano scorso, il mio ultimo giorno era il 16 settembre, l’anniversari di quella che chiamano “la notte delle matite spezzate”. Sotto una pioggia battente seguii il corteo degli studenti che sfilavano per ricordare i sei studenti medi assassinati qui a La Plata nel 1976, e per protestare contro i tagli governativi all’istruzione pubblica. I ragazzi erano colpevoli di avere appartenuto all’unione degli studenti medi, che aveva manifestato chiedendo il “Boleto Estudiantil”, uno sconto sui libri e i trasporti per gli studenti. Sovversivi da sopprimere. Entrando oggi in facoltà trovo un cartello: vogliamo il Boleto Estudiantil.
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Carlos Esteban Alaye Dematti era stato un leader dell’unione degli studenti medi. Fu catturato e ammazzato nel maggio 1977.
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Parlo a lungo con sua madre, Adelina Dematti Alaye, 87 anni, con le Madres fin dall’inizio. Mi racconta la storia della sua famiglia, a partire dai nonni emigrati intorno al 1870. ED ppoi, racconta di come, cercando le tracce di suo figlio, scoprì che il cimitero di La Plata è pieno di fosse dove la polizia seppelliva senza nome alcune delle sue vittime. Glielo hanno rivelato i falegnami e gli ebanisti a cui la polizia ordinava bare più in fretta di quanto riuscissero a fabbricarle.
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In TV, Guido Carlotto dice: l’incontro fra me e mia nonna significa che dobbiamo continuare a cercare ancora., Hanno ritrovato 114 figli e nipoti rapiti, ne mancano ancora quasi 300. Anahì Mariani, figlia di Diana e Daniel, due mesi, fu portata via dalle macerie della sua casa, dagli assassini dei suoi genitori. Non è stata ancora ritrovata.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-25741550477800109472014-08-16T13:08:00.000+02:002014-08-16T13:11:55.172+02:00Ho le prove che Clara Anahí è viva: intervista con Chicha MarianiIntervista con Chicha Mariani
La Plata 12.8.2014
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il manifesto 14.8.2014
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Oggi, 12 agosto, è un giorno speciale. In questo giorno, 38 anni fa, nasceva una bambina a cui misero nome Clara Anahì. Tre mesi dopo, il 24 novembre 1976, fu rubata dai militari che avevano bombardato e distrutto la sua casa e ucciso sua madre Diana Teruggi e altri quattro compagni. Suo padre Daniel Mariani fu ammazzato sei mesi dopo. I suoi genitori erano montoneros e tenevano in casa la tipografia clandestina del movimento; la copertura era un allevamento di conigli. Clara Anahì nessuno l’ha più vista. Sua nonna Chicha Mariani ha novant’anni e continua a cercarla. E racconta.
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Alla casa, da sola, ci sono stata solo una volta, che loro erano in viaggio e dovevo dare da mangiare e cambiare l’acqua ai conigli. Non so perché, mi prese un senso di terrore inspiegabile. Non sapevo della tipografia, ma tornai via portandomi dentro questa paura.
Il giorno del mio compleanno vennero mio figlio, Diana e la bambina. Entrarono ridendo, dicevano che mi avevano fatto il regalo di compleanno. Avevano la machina piena fino al soffitto di biscotti. Dico, che ci faccio con tutti questi biscotti? Dice, non sono per te: sono per regalarli a tuo nome alla gente del quartiere. È questo il tuo regalo di compleanno. E lo fecero, li andarono a regalare in un quartiere operaio, in periferia. Era il 19 novembre. Il 24 successe tutto. Fu l’ultima volta che le ho viste.
Era mercoledì, tenevo la bambina tutti i mercoledì e i sabati e avevo preparato il bagnetto, il mangiare; me la lasciavano tutta la sera, lei mi guardava con quegli occhi grandi… Mi ricordo che una volta ero arrivata a casa loro, lei piangeva e quando sentì la mia voce si mise a ridere contenta.
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Quel mercoledì 24 novembre, uscii di corsa da scuola, presi un taxi per arrivare a casa prima che Diana mi portasse la bambina. E non arrivava, non arrivava, e dopo un po’ comincio a sentire bombe e spari, bombe a spari, e avevo paura che Diana stesse in strada con la bambina e ci andasse di mezzo. Passata un’ora e non arrivava, disperata, vado da un’amica che abitava lì vicino. Vedevo gli elicotteri che girava e giravano, camion di soldati per la strada, la mia amica dice vengo con te, e tornammo qui aspettando, aspettando, aspettando. Continuavano gli spari, le bombe, i camion, e Diana non arrivava. Mi fa molto male raccontarlo.
A me non mi uccisero perché mentre ero lì con la mia amica mi telefonò mia madre che mio padre s’era ammalato, e voleva che andassi da loro. Dico non posso, non posso, aspetto i ragazzi, non ho notizie… Mia madre insiste, e ci andai. Lasciai un biglietto sul camino – ragazzi, vado dai nonni, torno domani. La mattina dopo prendo l’autobus per tornare a casa. Non mi immaginavo che quella notte avevano attaccato anche casa mia. Trovai tutto distrutto, mi lasciarono senza niente. C’erano tutti i vicini ammassati davanti alla mia porta, pensavano che ero lì dentro morta. I soldati, avevano sparato, sfasciato, saccheggiato, si erano portati via pure il sacchetto di carbone per l’asado. Una rapina orribile, vergognosa. Un caos, avevano rovesciato tutte le bottiglie, l’olio, tutto versato sopra le carte, i vestiti, i mobili. L’unica cosa intatta era il seggiolone di Clara, la mia assicurazione sulla vita, e il nastro del Requiem di Verdi diretto da mio marito.
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Credevamo tutti che Clara Anahì era morta. Stavo dai miei genitori perché a casa mia non potevo stare, per la polvere, l’odore della polvere da sparo, che ancora adesso non lo sopporto. Piangevamo disperati, e venne una signora e ci disse non piangete, la bambina è viva, mia nonna ha visto che la portavano via. A noi avevano detto che era morta anche lei. “No, mia nonna l’ha vista, è viva”. Io quella donna non l’ho più vista, non ho mai saputo chi era. Poi avemmo altre prove che era viva.
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Pochi giorni dopo tornai a pulire la casa, a sistemarla, ero sola, riempivo scatoloni e scatoloni di roba rotta e sporca e li mettevo sul marciapiedi. E un giorno, ero ancora a casa quando passarono gli spazzini, e successe una cosa emozionante– sollevavano gli scatoloni con la nostra roba come se fossero stati qualcosa di sacro. Li vedevo da dietro le tendine della finestra, e mi commosse, in quel momento non so che cosa mi successe in quel momento, però dentro di me mi fece bene. Ne parlai poi con Edoardo Galeano, ne parla nel suo libro, Memorias del fuego.
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Pulivo e mettevo a posto, piangendo disperata, pensavo che li avevano uccisi tutti. Invece mio figlio quando successo tutto era Buenos Aires al lavoro. Entrò in clandestinità, non volle lasciare il paese. Ci incontrammo, con lui e mio marito, in campagna, un posto terribile, lo implorammo che se ne andasse, mio marito gli aveva già comprato una casa a Roma, perché se ne andassero lì. Lo implorò piangendo, in quel campo. “Ti prego, vai via”. “No, non me ne vado. Hanno ucciso Diana, non me ne posso andare, per i miei compagni non me ne posso andare, e devo aiutare a cercare Clara Anahì”. Così ci lasciammo, e lo uccisero il 1 agosto del ’77.
Fu un’epoca terribile, io cercavo da sola, non mi immaginavo che ci fossero altri figli spariti. Sempre sola. Non lo dicevo neanche ai miei genitori. Andavo dappertutto, mi poteva succedere qualunque cosa. Mi ricevevano con disprezzo, sgarbati, mi lasciavano sulla porta, non mi facevano entrare. Ma all’ufficio minorenni una funzionaria mi disse che c’era un’altra donna che cercava sola. Feci un salto, corsi a cercarla, le dissi di lavorare insieme, perché in due ci avrebbero dato più ascolto. Disse, sì, però io conosco altre, che avevano le figlie incinte e non le trovano. Ci riunimmo con loro.
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Doveva venire Cyrus Vance, inviato di Jimmy Carter, a vedere che cosa succedeva in Argentina. Lo aspettammo in plaza San Martìn. Andai senza sapere niente, senza conoscere nessuno. Era pieno di soldati, militari, cani, da tutte le parti. Mi avevano detto che ciascuna avrebbe scritto la sua testimonianza e l’avrebbe consegnata a Cyrus Vance; io avevo preparato la mia, passa Cyrus Vance, circondato dai soldati, dai cani poliziotto, e le Madres tutte nello stesso momento si mettono il fazzoletto in testa e cominciano a gridare i nomi dei loro figli. Io restai pietrificata, e non glielo diedi. Venne una signora correndo, era Azucena, la madre di un desaparecido, dice gliel’hai data la tua testimonianza? No, non so come fare. Me lo strappò di mano, gli corse dietro e glielo consegnò. Poi seppi che l’avevano desaparecida un mese dopo.
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Restammo lì sul marciapiedi, e vennero le dieci Madres che erano rimaste, e sorridevano. Io ero tutta una lacrima, non capivo perché. Mi stavano accogliendo, come sempre hanno e abbiamo fatto, tutte con un sorriso, senza parlare ciascuna del suo dramma, se no non saremmo riuscite a lavorare. Quello fu il primo incontro delle Abuelas, il 21 novembre 1977. Ci organizzammo per vederci di nascosto, e la mia lotta diventò parte di quella di tutte. Mi fecero segretaria esecutiva.
Per prima cosa scrivemmo al papa. La scrissi io perché ero l’unica che sapeva scrivere a macchina, con un dito. Il papa non ci rispose. Non ci rispose mai. Andammo a Roma, chiedemmo di essere ricevute e quelli vestiti di nero ci dissero che non riceveva, ma di andare tutte in piazza quando passava, con un cartello con scritto Nonne di Plaza de Mayo. E facemmo così. Ci fecero mettere dove passava il papa, emozionatissime, il papa polacco – era dello stesso paese di mio padre – insomma si avvicina il papa, saluta la gente che fa ala sul suo percorso, si avvicina uno di quelli vestiti di nero e gli dice qualcosa all’orecchio – noi stavamo lì, con lo striscione – il papa legge lo striscione, si volta dall'altra parte, ci passa davanti senza guardarci. Uno dei colpi più duri che mi ha dato la Chiesa, questo disprezzo, questo orrore.
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Ho le prove che Clara Anahì l’hanno portata via viva. L’ho cercata in tutto il mondo. Cercandola, abbiamo formato le Abuelas de Plaza de Mayo. E’ stato un lavoro di molti anni, di molto andare, di molta fatica. E la cerco ancora, Clara Anahì. Un giorno dopo l’altro.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-46067293516523289832014-08-16T13:04:00.002+02:002014-08-16T13:05:03.995+02:00Ho ritrovato mio nipote rapito dai militari: intervista con Estela CarlottoIl manifesto 14.8.2014
Buenos Aires, 12.8.2014
Ho ricevuto una delle gioie più grandi della mia vita: ritrovare un nipote che mi rubò la dittatura civico-militare, quando mia figlia Laura, la più grande, lo diede alla luce in un campo di concentramento. L’ho cercato per più di trentasei anni – trentasette, perché quando l’hanno presa già sapevo che aspettava un bambino e cominciai a cercarlo, a reclamarlo alla giustizia di allora, che era la giustizia militare, una giustizia che non esisteva. Trentasette anni di cammino per tutto il paese, per tutto il mondo, cercando tutti i nipoti, perché questa delle Abuelas è un’istituzione collettiva – non si cerca il nipote di ciascuna, ma tutti i nipoti. E’ un lavoro duro, una lotta di donne che si sono ribellate, e ci riusciamo quando vengono loro a cercarci ora che sono adulti, come ha fatto mio nipote, o quando noi troviamo dati sufficienti per presentarli ai tribunali.
Io vedevo che passavano gli anni senza notizie, avevo già fatto 84 anni e la mia preghiera era: non voglio morire senza riabbracciare mio nipote. Anche quando ho dovuto testimoniare al procedimento che è in corso contro gli assassini, gli chiesi che si mettessero una mano sul cuore, ci dicessero quello che sanno perché possiamo trovare i nipoti che sono desaparecidos vivi.
Comunque non so come è arrivato il giorno in cui nei dati della nostra Banca dei dati genetici risultò che avevano identificato mio nipote Guido – perché per me, per la mia famiglia, si chiama così [lui è vissuto finora col nome di Ignacio e ancora si trova più suo agio così]. Il 5 agosto. Un miracolo, una cosa che mi ha riempito di luce, dicono che sembro rigiovanita di colpo. La gioia trasforma tutto. [Le compagne dell’università di La Plata che sono con me confermano: lo scorso aprile venne a La Plata a inaugurare la lapide all’università, e camminava col bastone, piegata, il volto scavato. Stasera entra senza aiuto, agile ed elegante come se avesse un quarto di secolo di meno]. Quello che sento da allora è una soddisfazione enorme non solo mia e della mia famiglia: penso a sua madre, a suo padre. E mio marito Guido. Perché la madre lo tenne nel ventre e lo partorì in un luogo orrendo, malnutrita, torturata, ma Guido, il suo bambino, nacque; e nacque bene. Era una coppia sfortunata, avevano già perso due bambini; ma si vede che in questa solitudine del carcere si afferrò a questo figlio. Da dove ci vede, sarà felice anche lei. E il padre, che pochi giorni dopo lo sequestrarono – assassinato.
Trovammo i suoi resti, continuavamo a cercare, e c’erano delle corrispondenze con una famiglia del Sud. I ricercatori ci parlarono, gli dissero che c’era la possibilità che loro figlio desaparecido fosse stato il compagno di Laura e anche loro potevano essere i nonni, e accettarono di dare il sangue per la Banca. Così che quando si presenta qui mio nipote, subito si trova la sua identità perché c’era tutto il sangue, paterno e materno. Lo stesso giorno, ci incontrammo per conoscerci, a casa di mia figlia. Io andai per abbracciarlo forte – e lui disse, “piano – piano. facciamo le cose un po’ per volta”.
E davvero sto vivendo un sogno. Perché io non sapevo che cosa avrei trovato. Chi lo aveva allevato, come lo avevano trattato, se era stato abusato, se lo avevano inquadrato per farlo diventare uguale agli assassini. Invece trovai un ragazzo puro. E’ cresciuto in campagna, con una famiglia di contadini che magari non ha tutte le sottigliezze della cultura ma lo hanno cresciuto bene. Non non credo che questa coppia di gente semplice, contadini, siano colpevoli, hanno agito in buona fede, in campagna si può credere che davvero una famiglia dia via un figlio che non può allevare. So che è un crimine contro l’umanità, perché era un piano preciso della dittatura; ma spero che non abbiano conseguenze troppo gravi. Non si capisce come è andato a finire con loro, è tutta una catena, l’ultimo che glielo ha consegnato è un latifondista, il padrone della terra che adesso è morto. Glielo ha consegnato e gli ha detto: non ditegli mai che non siete i suoi veri genitori. Guido è ancora in contatto con loro. Nessuno impedisce ai nipoti di farlo; solo col tempo, un po’ per volta,si allontanano.
Però, dice, “c’era qualcosa in me, come un suono, che mi diceva: sono differente da loro. Mi piaceva la musica, e anche se ho studiato e mi sono diplomato, direttore di cantiere, che è un mestiere dove si guadagna bene, però volevo studiare musica”. Lo disse alla famiglia, loro gli dissero di no, ma lui ha insistito e adesso dirige una scuola di musica, ha una band – è una ragazzo buono, sano puro. Sentiva da sempre un’inclinazione verso i diritti umani, e ha partecipato anche a un nostro progetto, Musica per l’identità. Fra i musicisti c’erano alcuni dei nipoti ritrovati, e parlò con loro. Quando si decise a venire diceva ironicamente, perché è un ragazzo allegro, gli piace scherzare, diceva alla sua compagna: se esce che davvero sono figlio di desaparecidos voglio che mia nonna sia come minimo Estela perché è il massimo. Dice che aveva visto foto mie e che gli pareva che mi somigliava.
Ma non è solo una cosa familiare. L’impatto sociale di questa notizia è stato condiviso a tutti livelli sociali. Mi ha scritto il papa, i presidenti di tutta l’America latina, l’Unesco. L’autobus 114 invece del numero girava col nome di Guido, perché lui è il nipote ritrovato numero 114. C’erano cartelli nelle strade, dai fruttivendoli. Tutti hanno reagito con gioia. Perché? Perché se ci possiamo unire nella gioia di questo incontro che è la liberazione di una persona e il sogno realizzato di un’altra che ha lottato tanto, c’è qualcosa che possiamo festeggiare in comune, qualcosa che ci appartiene a tutti. Ne avevamo bisogno? Credo di sì. Questo paese ne aveva bisogno, in questo momento, con il problema del debito e dei fondi avvoltoio, con le parole vuote della politica, con queste guerre in tutto il mondo – che poi è quello che predichiamo noi Abuelas: unità. Se tutti siamo abitanti di questo pianeta Terra, non possiamo essere nemici. Saremo diversi ma non nemici; e cerchiamo quello che abbiamo in comune. Bisogna dare un senso a questa gioia collettiva. Mi arrivano fiori da tutto il mondo, dalla Svizzera, dal Belgio; dall’Italia mi ha telefonato il sindaco di Arzignano,il paese da cui sono emigrati i miei, mi hanno telefonato dalla Fondazione Basso, anche politici, Massimo D’Alema... Dobbiamo condividere questo momento di amore collettivo.
E già eravamo uniti nella ricerca. Alla campagna per invitare chi ha dubbi sulla sua identità a venire da noi hanno partecipato perfino i giocatori della nazionale di calcio. Perché parliamo di gente che adesso ha 35 anni, e fin dall’inizio abbiamo cominciato a domandarci che cosa potevamo fare per ciascuna età dei nostri nipoti. Abbiamo sempre lanciato messaggi adeguati all’età che potevano avere. Nell’adolescenza cercammo di raggiungerli attraverso il teatro perché sapevamo che c’erano ragazzi che facevano teatro; poi abbiamo fatto Musica per l’identità, Tango per l’identità… E siamo andate alle partite di calcio, coi cartelli. E poi è successa questa cosa di Messi. E Messi con molto piacere [insieme con Lavezzi, Mascherano, Aguero] è andato in televisione con il cartello delle Abuelas che invitai ragazzi a venire da noi. Adesso farà qualcosa anche Maradona. Si sono saturati i telefoni. Ci sono arrivati undici milioni di messaggi – come dire che almeno un quarto della popolazione argentina ci ha cercato. Adesso abbiamo un’affluenza incredibile di ragazzi che vengono; a quelli che hanno l’età giusta facciamo il test. Sanno che qui li aspetta rispetto, ascolto e – se sono nipoti di desaparecidos – la liberazione.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-57683655606231778512014-06-22T03:53:00.001+02:002014-06-22T03:53:17.902+02:00Hebron: terrore e routineil manifesto 20.6.2014
(per motivi di spazio il testo uscito sul giornale era un po' ridotto. Questo è il testo completo)
Tre ragazzi israeliani scomparsi – quasi certamente rapiti – nei pressi di Hebron, nella Palestina occupata. Letteralmente, non ci dormo la notte. Magari con meno immediatezza, ma la qualità dell’ansia e degli incubi mi ricorda quello che provavo ai tempi del rapimento Moro.
A Hebron c’ero stato meno di una settimana prima del fatto, e quello che ho visto fa rabbrividire. Qui l’occupazione israeliana non si è limitata a edificare un insediamento coloniale (Kiryat Arba, sulla collina di fronte a Hebron), ma ha preso direttamente possesso di una parte della città stessa. Hebron è dove si dice sia sepolto Abramo e dove David sarebbe stato proclamato re. Con questa motivazione, poche centinaia di estremisti religiosi israeliani si sono insediati dentro la città, e adesso il venti percento del territorio urbano è direttamente sotto controllo israeliano, occupato da settecento coloni religiosi e altrettanti a soldati. I ventimila arabi che abitavano in questa parte di Hebron sono andati via o sono diventati invisibili. Non possono nemmeno passare per le strade principali, riservate esclusivamente ai coloni (le chiamano “strade sterilizzate”). I vecchi mercati sono macerie abbandonate, le strade laterali sono chiuse da muri, i negozi sono sbarrati, le porte delle case che danno sulla strada sono sigillate per impedire ai loro abitanti di calpestare le strade proibite (se vogliono uscire di casa, devono passare dal tetto e scendere con la scala sul retro), quei pochi che restano sono frequentemente aggrediti, insultati, sputati dai coloni protetti dai militari. Per strada vedo solo plotoni di soldati accompagnati dai coloni. E’ una città fantasma segregata.
Mi accompagna un esponente di Breaking the Silence, l’organizzazione dei soldati israeliani che hanno deciso di rendere pubbliche le violenze, gli abusi e i crimini commessi dalle forze di occupazione. Si definisce ebreo ortodosso, e dice di non essere un pacifista. Di Hebron occupata conosce ogni sasso, ogni porta. Mi decifra alcune delle scritte che vediamo sulle porte e sui muri – quella che più mi impressiona dice “arabi al gas”.
Recentemente, racconta, un gruppo di giovani palestinesi ha cercato forme di protesta non violente. Si sono messi d’accordo con un’organizzazione di donne ebree di Gerusalemme che in solidarietà sono venute a Hebron, si sono cambiate in abiti tradizionali palestinesi e così vestite si sono incamminate per una strada “sterilizzata”. Le hanno arrestate immediatamente.
E poi, qualcuno rapisce quei tre ragazzi ed è logico che si scateni l’inferno.
Mentre scrivo sono a New York e mi capita per mano il Wall Street Journal, uno dei migliori esempi di giornalismo anglosassone. Centoventi righe ben documentate e precise sulle azioni e le dichiarazioni di Netanyahu e del governo israeliano in risposta alla crisi. Nel mezzo dell’articolo, una frase: “Gli arresti hanno provocato scontri e dimostrazioni nella West Bank, che hanno lasciato almeno un palestinese morto”. Non una sillaba di più. Chi era, in che modo è stato “lasciato morto”, che diavolo significa – per un giornalismo così attento alla precisione e ai fatti – “almeno” un morto?
Mi viene in mente un fulminante dialogo delle Avventure di Huckleberry Finn. “Si è fatto male qualcuno?” “Nossignora; è morto un negro”.
Il rapimento di tre ragazzi israeliani – su questo non ci piove – è un atto terroristico e un delitto. Ammazzare “almeno” un arabo è routine. L’atto terroristico è una notizia, ha conseguenze immediate, gravi e clamorose. La routine non è una notizia, non merita titoli e approfondimenti. Ma la routine scava profondo, e nel tempo gli effetti possono essere terribili per tutti.
A Kiryat Arba – spaziosa, bianca di pietra e verde di alberi – c’è un giardino. In cima al giardino, un tempo c’era un monumento e un sacrario. Sono stati rimossi, ma rimane una tomba. E’ la sepoltura di Baruch Goldstein, che il 25 febbraio 1994 irruppe nella parte musulmana della Tomba di Abramo e ammazzò ventinove palestinesi prima di essere sopraffatto. La scritta sulla tomba recita: “Al santo Baruch Goldstein, che ha dato la vita per il popolo ebraico, per la Torah e per la nazione di Israele”. Sulla tomba sono deposti dei sassi, segno tradizionale di pietoso e devoto omaggio.
Dei tre ragazzi, purtroppo, nessuna notizia.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-10288909980371694782014-06-05T15:05:00.001+02:002014-06-05T15:05:10.884+02:00La Liberazione non è finita.il manifesto 5.6.2014
La testimonianza più drammatica della liberazione di Roma, il 4 giugno del 1944, ce l’ho davanti casa: la stele che, dove da via Cassia si diparte una stradina un tempo di campagna e oggi di quartiere dormitorio, elenca i nomi dei prigionieri politici uccisi a sangue freddo dai nazisti (affiancati da collaboratori italiani) dopo che si era bloccato il camion che li trasportava a Nord mentre da Sud entravano in Roma le truppe alleate.
Un a quindicina di anni fa, era appena cominciato il processo Priebke, uscendo di casa trovai che qualcuno aveva dipinto sul cippo un’enorme svastica nera. Pochi minuti dopo, attorno al cippo c’era un capannello di gente che discuteva come fare a cancellare quell’insulto. Ognuno proponeva gli strumenti del proprio mestiere: il carrozziere offriva una mola (“ma no, così rovini il marmo!”), il commerciante del ferramenta proponeva un solvente… E io, che facevo un altro mestiere, mi domandavo: e io, che strumenti ho per cancellare quella svastica?
Materialmente, adesso la svastica è scomparsa dalla pietra. Ma non è stata cancellata dalle nostre menti e dalla nostra cultura. Quelli di noi che lavorano nella cultura, nella comunicazione, nella scuola devono cercare nel proprio mestiere gli strumenti per continuare il lavoro di quel ferramenta e di quel carrozziere e cancellare la svastica anche dalle coscienze. Finché le svastiche continueranno ad apparire sui nostri muri, e proprio in vicinanza dei luoghi della resistenza (dalla Storta a via Tasso) e nelle ricorrenze (il 25 aprile, il giorno della memoria…), la liberazione di Roma non si potrà dire compiuta. La storia non finisce lì.
D’altronde, quel 4 di giugno in cui i nazisti lasciarono Roma e gli alleati vi furono accolti in festa non fu una fine, ma un nuovo inizio. C’è una canzone partigiana che ho sentito cantare nei Castelli Romani che dice: “Or che è liberata Roma / il mondo intero insorgerà”. Da un lato, la canzone sottolinea il ruolo simbolico dell’evento: la liberazione di Roma, simbolo universale, cambia di segno alla storia del mondo, è una luce sul futuro. Dall’altro, però, dice che la battaglia continua, la guerra non è finita. E centinaia di partigiani delle zone liberate dell’Italia centrale continueranno la lotta nei gruppi di combattimento a fianco delle forze alleate e di quel che restava dell’esercito italiano.
Il paradosso, naturalmente, è che forse “il mondo intero insorgerà”, ma che forze potenti – dalla Chiesa ai militari monarchici – si erano attivate per impedire che insorgesse Roma. Forse avevano anche delle buone ragioni; ma forse la scelta di fare di Roma l’oggetto e no il pieno soggetto della propria liberazione è una delle ragioni per cui, sette decenni dopo, le svastiche continuano ancora a infestare la nostra memoria.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27510956.post-78534646143074424652014-05-15T22:36:00.001+02:002014-06-05T15:06:53.451+02:00Un pizzino per Peppino Impastato
Quando Timisoara Pinto e Andrea Satta mi hanno chiesto di essere na delle cento persone che accettavano di scrivere, in memoria dei “cento passi” un “pizzino” di cento parole su Peppino Impastato, ucciso dalla mafia e dalle coperture e depistaggi delle istituzioni, ho pensato subito a un delitto con molti colpevoli. E mi è venuta in mente una popolarissima filastrocca infantile inglese – Who killed Cock Robin? Chi ha ucciso il Pettirosso? "Io, disse il passero, con l’arco e le frecce… chi l’ha visto morire? Chi ha raccolto il sangue?" E così via. Il poeta americano Norman Rosten ne fece una poesia sulla morte di Marilyn Monroe – Who killed Norma Jean? Io, disse la città, come un dovere civico… io, disse la notte… io disse il fan… Pete Seeger l’ha messa in musica e ne ha fatto una canzone indimenticabile – che forse ha contribuito a ispirare Bob Dylan quando ha scritto, sulla morte di un pugile ucciso sul ring, Who killed Davey Moore? Non io, disse l’arbitro… non io, disse la folla, non io, disse il manager… Così, mi sono chiesto:
Chi ha ucciso Peppino Impastato?
Io, disse la Mafia, padrona della paura
e del silenzio.
Chi ha ucciso Peppino Impastato?
Io, disse il Paese, voltandosi per non vedere,
non sentire, non parlare
Chi ha ucciso Peppino Impastato?
Io, dissero i Preti, regalando santini
cantando novene per gli uccisi e per gli assassini
Chi ha ucciso Peppino Impastato?
Io, disse lo Stato, falsando le prove
inventando attentati, insabbiando processi
spargendo menzogne
Chi ha ucciso Peppino Impastato?
Io, dissero i Media, che voci libere
non sopportano e ignorano
Dov'è adesso Peppino Impastato?
Nel vuoto che resta, nel dolore che non finisce.
Alesandro Portelihttp://www.blogger.com/profile/11954918384051664913noreply@blogger.com0