Prendiamo O Mary Don’t You Weep, il classico spiritual che Bruce Springsteen canta nel suo ultimo disco, We Shall Overcome. The Seeger Sessions. Comincia così: “If I could, I surely would \ stand on the rock where Moses stood”: se potessi, vorrei salire anch’io sulla roccia dove salì Mosè. E’ un riferimento alla storia dell’Esodo, tradizionale metafora di liberazione per gli schiavi afroamericani e poi per il movimento dei diritti civili che ritroviamo in tutto il repertorio dello spiritual e del gospel (il ritornello dice, “Maria non piangere, l’esercito del Faraone è annegato, non piangere Maria”).
Andiamo avanti, alla terza strofa. “One of these nights about
Però, in bocca a Bruce Springsteen, quella parola assume un altro significato ancora: rock\roccia, rock\scuotersi, e, naturalmente e inaspettatamente, rock\and roll (in molte varianti di”O Mary don’t you weep”, infatti si canta “this world is gonna reel and rock”, oscillerà e tremerà): una di queste sere, insomma, il vecchio mondo di scuoterà di dosso la vecchiaia e ballerà il rock and roll e sarà libero.
Certo, i creatori afroamericani di questo canto nell’800 non avevano ancora in mente il rock and roll, ma anche loro si scuotevano e tremavano nella passione estatica e musicale del rito – e infatti il rock and roll viene direttamente dalla loro cultura e dalla loro storia, dalle chiese pentecostali ed evangeliche del profondo Sud. Bruce Springsteen questo lo ha capito perfettamente, e non è un caso che già nel disco e concerto newyorkese di qualche anno fa si fosse rivolto al pubblico con lo stile oratorio dei grandi predicatori evangelici, annunciando un “battesimo rock and roll, un bar mitzvah rock and roll”, appropriando al rock and roll non la teologia delle chiese popolari bianche e nere ma il fervore ed entusiasmo di una ritualità liberatoria, partecipata, e cantata.
Noi siamo abituati a pensare al rock and roll come a una rottura epocale, e c’è molta verità in questo(specie nel nostro contesto culturale italiano). Ma questa rottura si innesta anche su una continuità profonda. Dopo tutto, all’inizio della discografia di Elvis Presley stanno una “cover” di un brano rhtyhm and blues (“That’s All Right Mama” di Arthur Big Boy Crudup) e una reinterpretazione di un classico bluegrass (“Blue Moon of Kentucky” di Bill Monroe). E allora, se risaliamo la corrente della storia musicale d’America, dal rock and roll, passando per ryhtm and blues e gospel, e per country e bluegrass, risaliamo senza interruzioni fino all’Africa da una parte e alla Scozia e all’Irlanda dall’altra. Nelle Seeger Sessions di Springsteen, anche per questo, ritroviamo gli spiritual afroamericani, e una grande canzone antimilitarista irlandese, Mrs. McGrath. Anche per questo, senza elucubrazioni e fisiche puristiche, tuttavia le versioni di queste canzoni che ci offre Springsteen a me sembrano anche “filologicamente” giuste:non ha fatto altro che prendere coscienza delle fonti stesse della propria voce. Rock come liberazione, insomma, e rock come storia: una musica che scuote il mondo, e una musica che ha dentro la memoria implicita di migrazioni, guerre, schiavitù, liberazioni.
Certo, non è questa la versione che ce ne ha fornito l’industria musicale, attentissima a disinnescare ogni riferimento che non fosse puramente adolescenziale e sentimentale. C’erano due grandi tabù nella prima generazione del rock and roll: il lavoro e la storia (“Don’t know much about history”, cantava Chuck Berry, non so molto di storia; e Eddie Cochran inveiva contro i lavoretti estivi che gli servivano a comprarsi la benzina). Anche per questo, il rock and roll classico ha subito una specie di eclissi negli anni dei movimenti, prima a favore del folk revival impegnato, poi – dal Dylan elettrico e dai Beatles in poi – a favore di una musica che ha lasciato cadere il “roll” e ha continuato a chiamarsi aggressivamente rock e basta.
Ma, anche per la composizione sociale dei movimenti, questa eclissi ha facilitato un ritorno del rock and roll al mondo blue-collar, del lavoro, delle periferie. Bob Seger, per esempio, è direttamente legato al mondo industriale di Detroit. E Bruce Springsteen irrompe sulla scena con la storia di un ragazzo che lavora in un garage, di un padre che si ammazza entrando e uscendo dalla fabbrica; e trionfa, in The River, con la storia di un operaio edile disoccupato. Per di più, Bruce Springsteen si accorge anche di un’altra cosa: gli adolescenti che hanno imparato più cose da tre minuti di disco che da anni di scuola adesso sono diventati adulti ma non hanno dimenticato da dove vengono. A decenni di distanza, anche il rock and roll ha una storia: la voce di Roy Orbison che canta Only the Lonely (uno dei primissimi dischi che mi sono comprato, correva l’anno 1960) serve a collocare nel tempo un’altra visione di memoria, il momento in un cui un’altra Mary esce sulla veranda per salire in macchina col vestito che ondeggia nel vento.
Negli Stati Uniti, come esistono associazioni accademiche di studi su Herman Melville o Henry James, esiste una rispettabile associazione di studi su Bruce Springsteen radicata anche nelle università. Questo non significa affatto che per prendere sul serio Bruce Springsteen dobbiamo assimilarlo al canone letterario (anche se non mancano libri che lo rileggono alla luce di Whitman ed Emerson; e anche a me è venuto in mente Mark Twain sentendo The River). Bruce Springsteen sa benissimo di essere un’altra cosa; come Elvis Presley, come i Beatles o come Bob Dylan, va conosciuto e ascoltato nei suoi stessi termini, non come un poeta ma come un rocker. Perché nella storia della cultura americana, molto prima e più vigorosamente che da noi, i significati profondi, i problemi cruciali, i conflitti radicali si sono espressi anche nella cultura che i colti disprezzavano, nella cultura orale e nella popular culture. Perciò, se anche noi cerchiamo di imparare qualcosa da tre minuti di disco di Bruce Springsteen, non facciamo altro che il nostro dovere.
Rock come liberazione, e rock fra storia e storie è il tema di una giornata di studio e di musica dedicata a Bruce Springsteen, organizzata dal Circolo Gianni Bosio e dalla Presidenza del Consiglio Provinciale di Roma: “My Hometown. L’America di Bruce Springsteen” (7 ottobre, TeatroColosseo, via Capo d’Africa 7. Roma).
Si comincia la mattina alle 10 con una tavola rotonda su “Bruce Springsteen: il rock come liberazione”, con Adriano Labbucci, Gino Castaldo, Marco Conidi, Antonella D’Amore, Samuele Pardini”; segue alle 16 “Bruce Springsteen fra storia e storie”, con Daniel Cavicchi, Alberto Crespi, Marco Lodoli e Alessandro Portelli. In serata, alle 21, concerto: “Cover Me”, con Marco Conidi, The Backstreets, e le Sesson Voices, un gruppo gospel che debutta per l'occasione.
Ma già da giovedì 4 ottobre si apre (al Circolo Gianni Bosio, via di Sant’Ambrogio 4) la mostra “Bruce Springsteen: il corpo, i luoghi, la memoria”, con fotografie di Giovanni Canitano e Francesco Virlinzi. La mostra sarà aperta (a ingresso libero) fino al 20 ottobre, dal martedì al venerdì, dalle 17 alle 20.
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