29 aprile 2019

Tutto il giorno di ieri sui media rimbalzava una notizia sconvolgente: gli organizzatori del “cosiddetto “Running festival” (ma che razza di nome!) di Trieste avevano deciso, “per il loro bene,” di non invitare atleti africani alla mezza maratona in programma ai primi di maggio e di “prendere soltanto atleti europei”.. Mi era paro un altro terribile segno dei tempi, e avevo mandato qualche riga di sconsolato commento al giornale. All’ultimo momento, dopo un paradossale tira e molla fra istituzioni, forse politiche, federazioni sportive e altri ancora (gli unici di cui non abbiamo sentito la voce sono gli atleti africani, non invitati neanche alla conversazione), gli organizzatori hanno fatto marcia indietro. E’ una cosa buona – l’ipocrisia, diceva Umberto Eco, è un omaggio del vizio alla virtù – ma il fatto che ci si fosse pensato, e le ragioni che erano state addotte, restano comunque un segnale su cui riflettere. Questo è, più o meno, quello che avevo scritto. In questo nostro ipocrita paese, esclusioni e discriminazioni si praticano sempre e soltanto per fare il bene dei i discriminati e degli esclusi: il mancato invito agli atleti africani, che questa gara rischiavano di vincerla, è dovuto alla benevola volontà di impedire “un mercimonio di atleti africani di altissimo valore, che vengono semplicemente sfruttati” da manager cinici e disonesti. E’ sempre lo stesso meccanismo: gli atleti vengono sfruttati, quindi noi li difendiamo non facendoli lavorare; tanti africani soffrono per la povertà e le guerre, quindi “aiutiamoli a casa loro” e intanto chiudiamo i porti e non facciamoli arrivare. L’analogia la conferma il sottosegretario allo sport Giancarlo Giorgetti che, pur prendendo le distanze dalla decisione degli organizzatori triestini, ha confermato che bisogna combattere “quelli che chiamo gli scafisti dello sport”. Gli scafisti, lo sappiamo, sono la foglia di fico di chi dice di voler combattere mediatori e sfruttatori – gli scafisti dei migranti, i manager dei maratoneti – mentre si accanisce sulle loro vittime, lasciando a casa i corridori e lasciando annegare i migranti. In realtà, comunque, la finta protezione agli sfruttati serve a proteggere altri. Spiega l’organizzatore Gianfranco Carini: “manager poco seri sfruttano questi atleti e li propongono a costi bassissimi e questo va a scapito della loro dignità […] di atleti e di esseri umani - ma anche a discapito di atleti italiani ed europei, che non possono essere ingaggiati perché hanno costi di mercato". Rieccoci, allora: i “negri” costano meno e portano via il lavoro ai nativi, come nelle campagne pugliesi e calabre. Proteggere la loro dignità serve a proteggere il valore di mercato degli autoctoni. Che lo sport sia essenzialmente una merce, e che il mercato si regga essenzialmente sullo sfruttamento, non è più né un mistero né, temo, uno scandalo. Lo sfruttamento degli atleti – ma non solo africani! – è una realtà. Ma se gli organizzatori triestini davvero ci tenevano a combattere queste storture e a difendere i diritti degli atleti africani un modo ci sarebbe stato: pagare anche a loro, aggirando i loro sfruttatori, il giusto ingaggio “di mercato” che offrono a tutti gli altri. Così non sarebbero sfruttati (non più degli altri, cioè), e non potrebbero fare concorrenza a ribasso a nessuno. Non mi pare che gli sia venuto in mente.. Eppure, in questo modo, non avrebbero salvato solo la dignità umana e i diritti economici degli africani, ma anche la dignità degli europei, a cui nessuno avrebbe potuto dire, a gara conclusa, che hanno vinto solo perché gli africani non c’erano.
Nel 1950, nel libro La folla solitaria, un testo destinato a diventare un classico, il sociologo americano David Riesman avvertiva che in tempi brevi la favola di Jack AmmazzaGiganti sarebbe stata sostituita dalla fiaba di Jack AmmazzaNani. Invece di ribellarsi contro i potenti, il cittadino della nuova società di massa si sarebbe accanito a schiacciare quelli meno potenti di lui. Aveva ragione: nelle periferie romane, e in tutta Italia, le rivolte popolari non rivendicano diritti ma li negano a chi ne ha ancora meno. Io credo che questo dipenda da un dato su cui abbiamo ragionato poco: queste sono le uniche lotte che gli abitanti delle borgate e delle periferie possono pensare di vincere, e che infatti vincono sempre. A Torre Maura distruggono il pane destinato ai Rom, e i Rom, democraticamente, vengono deportati; alla Magliana non vogliono che il parroco distribuisca pacchi alimentari ai Rom, e il parroco, cristianamente, smette di farlo. Sappiamo che a Torre Maura, come altrove, erano indignati per la condizioni delle case popolari, per i trasporti, per il lavoro, per altri reali disagi. Ma sapevano, senza bisogno di ragionarci sopra, che se avessero fatto i blocchi stradali per rivendicare che almeno gli riscaldassero le case durante l’inverno, non se li sarebbe filati nessuno, al meglio avrebbero avuto vaghe promesse, al peggio la polizia li avrebbe manganellati invece di proteggerli, e probabilmente non sarebbe cambiato niente. Non è che dopo la protesta contro i Rom nelle loro vite sia cambiato concretamente qualcosa; ma sono stati visibili, tutta l’Italia ha parlato di loro, e hanno vinto. Penso alla scena chiave di Moby Dick, quando l’ufficiale Starbuck dice al capitano Ahab: ma quanto vale la tua vendetta , in concreto, sul mercato? E Ahab gli risponde: ha un valore grandissimo qui, dentro di me. Quello che hanno vinto questi cittadini non è il riscaldamento invernale, ma la sensazione di essere cittadini e di avere dei diritti. A questo infine serve ammazzare i nani: per sentirsi cittadini con dei diritti bisogna costituire categorie di non-cittadini, di senza-diritti, che siano i Rom o i migranti, tali che ogni minuzia lasciata a loro sembri sottratta a noi, per cui negargliela ci dà la sensazione di ricevere una qualche forma di restituzione, immateriale e illusoria ma non priva di valore nella soggettività. E tutti a festeggiare la vittoria dei (mini)Golia su Davide. Qui forse sta un lato oscuro della nostra stessa modernità. Se il fascismo è la rivendicazione sfacciata del diritto di chi si sente forte di dominare i deboli, anche le grandi democrazie moderne hanno garantito diritti agli inclusi grazie all’esistenza di altri esclusi – grazie alla schiavitù nella democrazia nordamericana, al colonialismo nella democrazia britannica. Forse il cosiddetto sovranismo del nostro tempo è una manifestazione estrema di questa tendenza: la proclamazione dei diritti universali e umani è possibile solo se dall’universalità e dall’umanità qualcuno è escluso. Questo non giustifica niente: anche i bianchi rurali poverissimi e sfruttati dell’Alabama (e i tedeschi della Grande Depressione) avevano disagi reali, ma non per questo abbiamo pensato di relativizzare e attenuare il KuKluxKlan. Ma aiuta a ragionare, e a cercare come sconfiggerlo. Al di là della utile e interessante discussione sulla questione se le tendenze in atto prefigurino o no qualche forme di fascismo, infatti, direi che alla radice di tutto questo stanno, forse non solo ma certo in modo determinante, le trasformazioni della nostra democrazia reale, ed è su questo che dovremo lavorare. I giganti hanno cambiato natura. Da un lato, sembra che si siano materializzati: il potere si incarna nella persona (il corpo monocratico) del leader, che sia Berlusconi o Salvini o magari Renzi. Dall’altro, più si concentra in un idolo visibile, più il potere si smaterializza, si diffonde, si nasconde. Chi comanda davvero nella globalizzazione? “A chi possiamo sparare?” chiedono sia il contadino sfrattato di Furore, sia il disoccupato vagabondo di The New Timer di Bruce Springsteen. I giganti non sono solo potenti ma anche invisibili e irraggiungibili. Con chi se la pigliano i cittadini di Torre Maura – con la Raggi? Col comune (quale dipartimento, quale ufficio?), con l’Istituto case popolari (esiste ancora?), con le banche, col governo, con Soros…? Oltre tutto gli sembra, non senza motivo, che anche quelli che un tempo li aiutavano a organizzarsi per lottare contro i giganti siano diventati giganti essi stessi, magari un po’ meno malevoli, e siano andati a confondersi in mezzo ai loro simili. Più investiamo potere nel Capo, più ce ne spogliamo noi. I seguaci del Duce, del Capitano, del leader non hanno più diritti, ma ricevono solo concessioni (un reddito che si chiama “di cittadinanza” proprio perché ne è la negazione; o magari ottanta euro in busta paga) e gratificazioni emotive. Ma alla soddisfazione soggettiva e vicaria di identificarsi con il potere personalizzato del Capo carismatico si accompagna la sensazione di non essere altro che pedine in un gioco che non controlliamo. E’ una sensazione oscura, informe, non riconosciuta e non elaborata, e quindi incapace di manifestarsi se non in pure esplosioni di rabbia. Il “disagio delle periferie” non è che una forma del disagio generalizzato della cittadinanza, e non basta essere chiamati una volta ogni qualche anno a votare in un’elezione o una primaria per farci sentire che contiamo davvero qualche cosa. Più la democrazia si trasforma da partecipata in governabile, più il potere e la ricchezza si contraggono in mani sempre meno numerose e sempre più distanti, più il popolo sovrano si trasforma in plebe di sudditi governabili in cerca di sovranità residuali e illusorie. Facciamo bene ad andare a Torre Maura a manifestare contro il fascismo. Faremmo ancora meglio ad essere presenti sempre a Torre Maura, Magliana, Casal Bruciato, San Basilio, quando si tratta di garantire per tutti – “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, come dice un testo che dovrebbe esserci caro – i diritti fondamentali: la casa, la salute, il lavoro, la scuola, la partecipazione democratica, da cui gli ammazza nani si sentono, e in gran parte sono, esclusi. Antifascismo oggi è semplicemente questo: far funzionare la democrazia partecipata ed egualitaria prefigurata dalla costituzione che dalla sconfitta e negazione del fascismo nasce e si sostiene. Avviare il lungo e faticoso lavoro di ricostituire (e inventarne di nuovi) quegli strumenti che, stando fra noi ed i giganti, ci permettevano di resistergli e di controllarli. Restituire dignità e funzione al parlamento. Ridare forza ai sindacati. Restituire centralità alla scuola pubblica. Inventare forme nuove di presenza civile organizzata nelle città… Insomma: antifascismo è memoria storica, senza di che non si fa niente; ma è soprattutto difesa del futuro.

05 ottobre 2016

Bruce Springtsteen: Born to Run, l'autobiografia

il manifesto 5 ottobre 2016 “Le parole vorticavano impetuose come una tempesta, schiantandosi l’una contro l’altra senza ritegno”: è Bruce Springsteen che parla del suo primo disco. ma vale anche per questo libro. Springsteen è anche un artista della parola; e la prima cosa che si chiede a un libro è che sia un atto di parola sostenuto, competente e godibile. Questo lo è: non la solita autobiografia di star – anche se a volte rischia di scivolarci dentro – descrizioni di concerti, cene con i VIP… - ma un’autobiografia vera. Da un’autobiografia ci si aspetta in primo luogo che la persona che scrive di sé sia anche rappresentativa, che la sua sia anche la storia di un tempo e di un luogo. La città di Freehold, le case e le mezze case) della famiglia Springsteen le tocchiamo, le sentiamo, le odoriamo, con tutti quelli che ci vivono dentro. La musica è la chiave con cui Springsteen spiega questo mondo, ma questo mondo è anche la chiave che ci fa capire come nasce la musica. L’entusiasmo – la notte, le ragazze, le macchine – di tante canzoni di Springsteen acquista profondità e ambiguità perché sullo sfondo dei luoghi e nel futuro dei personaggi stanno periferie proletarie dove vivere, fuggire, tornare: “Per raccontare la loro vita occorreva un mix tra il romanticismo cupo e violento del doo-wop, il vigoroso realismo del soul e quella vaga promessa di ascesa sociale offerta dalla Motown […] L’atteggiamento alternativo degli Stones e dei loro colleghi negli anni Sessanta non rispecchiava l’esperienza di quei ragazzi. E chi se lo poteva permettere? C’era da lottare, stringere i denti, lavorare, proteggere ciò che era tuo, restare fedele ai tuoi compagni, ai tuoi antenati, alla famiglia, al territorio, ai fratelli e sorelle greaser, alla patria. Erano queste le cose che ti rimanevano quando tutto il resto si sgretolava, quando le mode passavano e mettevi incinta la tua ragazza, quando tuo padre finiva in galera o perdeva il lavoro e toccava a te rimboccarti le maniche”. In secondo luogo, ci aspetta la ricostruzione di un percorso: come l’io narrato diventa l’io narrante. Avevano ragione i suoi genitori, scrive Springsteen: la possibilità che “il quindicenne foruncoloso di Freehold, New Jersey, con la sua chitarra Kent da due soldi” sarebbe stato l’unico a salire un giorno sul palco coi Rolling Stones, suoi idoli adolescenziali (e davanti a centomila romani al Circo Massimo) era “una su un milione”. Come è successo? “Non ero nato genio. Per sopravvivere in quel mondo avrei dovuto metterci tutto me stesso, l’astuzia, le doti musicali, la presenza scenica, l’intelligenza, il cuore e la volontà”. Genio, diceva Thomas Edison, è “uno percento ispirazione, novantanove percento sudore”. “Ho lasciato abbastanza sudore sui palchi di tutto il mondo da riempire almeno uno dei sette mari”, scrive Springsteen. E’ l’etica operaia trasferita nella musica (gli Steel Mill: “musica operaia, fragorosamente chitarristica con sonorità di matrice Southern rock”); ma è “sudore” anche il lavoro mentale, l’intelligenza: “la mia Asbury Park era un’isola di disadattati e colletti blu, intelligenti ma non intellettuali” (il corsivo è mio!). Ma il sudore non è tutto: quell’un percento, che Springsteen chiama “talento” è intangibile e inspiegato. Dice una canzone di Iris Dement: “let the mystery be”, accettiamo il mistero. E un po’ di mistero è bene che rimanga anche qui. Infine, ci si aspetta un percorso di conoscenza di sé, un modo per esplorarsi scrivendo. C’è una parola inattesa che ricorre più volte: “rabbia” – accumulata nell’infanzia cattolica, covata ed esplosa da suo padre nel silenzio e nella birra, interiorizzata e repressa fino a inquinare i rapporti più profondi: un “abisso in cui rabbia, paura, sfiducia, insicurezza e una misoginia di matrice famigliare facevano a pugni con le mie doti migliori”. C’è una felicità, scrive, che è “la sorella allegra della depressione”. Come l’euforia delle canzoni giovanili stava sullo sfondo della violenza di classe, così lo Springsteen atletico e vitalistico che vediamo sul palco è anche l’esorcismo di depressioni ricorrenti e curate con l’analisi e i farmaci, e con il lavoro di scrivere questo libro. “Ho passato la vita a combattere, studiare, suonare e lavorare, perché volevo ascoltare e conoscere tutta la storia, la mia storia […] per potermi liberare dalle sue influenze più deleterie […] Non so se ci sono riuscito, il diavolo è sempre dietro l’angolo, ma so che è quanto mi sono impegnato a fare da giovane, con me stesso e con te”.

09 luglio 2016

La scheda, il fucile e Dallas

Io non credo che possiamo essere contenti di quello che sta succedendo a Dallas in queste ore. In primo luogo, perché ci sono dei morti, e questo non è mai fonte di gioia. In secondo luogo perché sul piano della lotta armata, a vincere saranno inevitabilmente gli altri, difficilmente vinceremo, e ci saranno altri morti. Non è questione di retorica della non-violenza: le sue vittorie il movimento di liberazione afroamericano le ha conquistate con altri mezzi, con la mobilitazione di massa, e non è chiaro quali saranno gli effetti della strage di Dallas su questo piano. Ma credo che, come sempre accade, dobbiamo leggere gesti estremi e disperati come questo come sintomo e segno di qualcosa di più ampio, più profondo, e più nostro. Diceva Langston Hughes, il grande poeta afroamericano: “Che ne è di un sogno differito? Si inacidisce come un acino d’uva al sole, o s’infetta come una piaga e marcisce?... Forse si affloscia come un grosso peso. Oppure esplode?” In questa America che ti permette di ricercare e inseguire la felicità ma ti impedisce di raggiungerla, il fuggiasco sogno afroamericano dell’uguaglianza diventa sempre più differito e frustrante quando sembra più vicino. Malcolm X diceva: “the ballot or the bullet”, la scheda o il fucile. Gli afroamericani la scheda l’hanno usata, e hanno eletto Barak Obama. Il sogno sembrava a portata di mano, abbiamo letto editoriali sulla fine del razzismo, e invece è stato solo un nuovo inizio: l’abisso che per quattro secoli ha separato bianchi e neri, il vuoto su cui si strutturava l’America, è parso per un attimo ridursi, ma avvicinamento non ha creato armonia, bensì attrito, e l’attrito sanguina. Sanguina anche perché dall’altra parte – dalla parte di istituzioni intrise la vittoria afroamericana con la scheda ha subito additato a un’opinione pubblica spaventata e a istituzioni intrise di razzismo la strada del fucile. E le pallottole hanno continuato a volare, come fanno da secoli di schiavitù, linciaggi, segregazione, razzismo. Il sogno sembrava a portata di mano, ed è sfuggito di nuovo. Che cosa è allora questa promessa sempre rinnovata e sempre mancata? E’ una menzogna, che inacidisce e marcisce il sogno e produce disincanto, sfiducia, crisi della partecipazione e della democrazia? O una maledizione, che produce rabbia e paura e infine, in gesti come quello di ieri a Dallas, esplode? Direi che l’uno è il segno dell’altro: l’esplosione minoritaria e disperata è lo specchio della delusione e della rabbia impotente della maggioranza in una democrazia che ha fallito il suo compito.

08 luglio 2016

ILouisiana, Minnesota: il delirio dell'onnipotenza

il manifesto 8.7.2016 Chissà se in uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà “Devils and Dust”: “ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di sopravvivere – la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere….”E’ la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle crossoads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto intorno… E’ l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati). Era “visibilmente nervoso” e spaventato il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro. Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso – condonato, se non sotterraneamente condiviso, nella cultura delle istituzioni - che le persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling in a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo). E infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico” compreso) che chiamare “orango” una donna nera (l’ex ministro Cécile Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere. Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica. E se il marito della donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chi9ssà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è mano marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza. In Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di ricordarci che “Black lives matter”, le vita nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità – fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere.

26 maggio 2016

https://www.youtube.com/watch?v=KwYE2d0h170: semiknario su "On the ethics of Resistance", Harvard university, ottobre 2015

27 gennaio 2016

L'Europa del genocidio respinge i migranti

A undici anni dalla sua istituzione, la Giornata della Memoria suscita valutazioni e commenti ambivalenti. Non sono poche, né poco autorevoli, le voci che lamentano un rischio, senz’altro reale, di saturazione, di ritualità burocratica e ripetitiva, un ricordo di un giorno per non pensarci più per tutto l’anno. D’altra parte, quando da fonti autorevoli sentiamo dire che l’idea della Shoah è stata suggerita a Hitler dai palestinesi, mentre l’Iran continua a non prendere le distanze dal negazionismo e neonazisti e affini di tutta Europa scelgono l’Italia per i loro raduni, ci rendiamo conto di quanto pervasivi possano essere il razzismo, il revisionismo opportunista e il negazionismo strumentale. Il problema, come sempre, non è tanto se ricordare o no, ma che cosa ricordare e come. Dovremmo cominciare col distinguere la memoria in senso lato di conoscenza storica del passato, dalla memoria in senso proprio di consapevolezza critica delle esperienze sociali e personali vissute. La giornata della memoria acquisterebbe una dimensione ulteriore di senso se, insieme agli eventi ricordati, aprisse anche una riflessione sulla presenza, il ruolo, la crisi della memoria stessa. Altrimenti, la necessarissima conoscenza storica e sentita commemorazione della Shoah, della Resistenza (e anche delle foibe e del gulag) non compensa la smemoratezza intenzionale di una società in cui politici e media possono dire una settimana il contrario di quello che avevano detto la settimana prima senza che nessuno se lo ricordi e glielo ricordi. Più ancora della conoscenza storica, la memoria impone una relazione vissuta fra il passato ricordato e il presente che ricorda. La commemorazione smette di essere un rituale e diventa memoria vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve a orientare il nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe servire anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge i migranti è la stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il genocidio organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra cultura che ha prodotto e produce tutto questo. Proprio perché la Shoah è un crimine specificamente europeo, non possiamo fare del suo ricordo una memoria etnocentrica. E invece, fra le tante memorie che giustamente vengono evocate in giornate come questa, non trova posto la memoria del colonialismo, specialmente del colonialismo italiano e dei suoi crimini. Di che memoria sono portatori gli abitanti della Libia, ex colonia italiana, dove ci prepariamo di nuovo a “intervenire” (dopo il 1912 e il 2012), che memoria arriva in Italia con i migranti che arrivano (quando ci riescono) dall’ex colonia italiana dell’Eritrea? Che cosa ricordiamo dei trent’anni di resistenza libica all’occupazione, della resistenza etiope all’aggressione italiana, nel paese che erige sacrari alla memoria di un massacratore di libici e di etiopi come Rodolfo Graziani? Possiamo parlarne, o no, nella cosiddetta giornata della memoria? Con tanti problemi e domande, però vorrei aggiungere un esempio positivo. Il 23 gennaio, nel liceo che porta il suo nome, si è svolta un’emozionante “notte di Primo Levi”. E’ stata emozionante per il modo in cui Edith Bruck, Sami Modiano, Giacoma Limentani – testimoni diretti degli eventi – hanno fatto capire a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie fino a che punto le tragedie di allora sono ferite ancora aperte nell’anima di persone che ci sono vicine;farli vivere a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie; per come tutto è stato reso più profondo e coinvolgente dalla musica dei MishMash e del coro Musica Nova, e dagli spettacoli e letture creati dagli studenti stessi; per la creazione di un senso di comunità e condivisione attorno alle tavole cariche di buone cose portate dai ragazzi e dai genitori stessi; per la consapevolezza diffusa che, come in tutte le grandi culture tradizionali, fare festa è un modo serio di ricordare. Ma è stato bellissimo soprattutto perché gli studenti e le loro famiglie non hanno partecipato come destinatari più o meno coinvolti di discorsi calati dall’alto, ma hanno retto tutto l’evento con il lavoro, le voci e le idee loro e dei loro insegnanti. Questo è un modo non solo di prendere coscienza del passato, ma di costruire memoria per il futuro: perché imparando da narratori come Edith, Sami, Giacometta i ragazzi di oggi si rendono conto che la memoria futura del nostro tempo dipende dalla loro partecipazione attiva in esso: se non ricordiamo,noln saremo ricordati. Per un volta, insomma, si è vista in azione la vera e autentica “buona scuola”.

30 dicembre 2015

Joe Hill: 1915-2015

Era la fine del 1915, cent’anni fa. A Salt Lake City, Utah, i tribunali e lo stato uccisero Joe Hill, militante e bardo del sindacato rivoluzionario degli Industrial Workers of the World (IWW). Dal carcere, aveva scritto: “So che molti ribelli importanti dicono che la satira e la canzone sono fuori luogo in un’organizzazione di lavoratori, e ammetto che le canzoni non sono indispensabili alla causa; ma ogni volta che mi viene, continuerò a scrivere queste mie sciocchezze cantate, anche se so bene che la lotta di classe è una cosa seria.” Scrive Tom Morello, musicista ribelle di oggi: “Senza Joe Hill, non ci sarebbero Woody Guthrie, Bob Dylan, Bruce Springsteen, i Clash, i Public Enemy, Minor Threat, System of a Down, Rage against the Machine.” Joe Hill spiegava: “Un opuscolo, per buono che sia, lo leggi una volta e basta, ma una canzone la impari a memoria e la canti e la canti; se prendi un po’ di nudi fatti e di senso comune, li rivesti con un po’ di umorismo per renderli meno aridi, e li metti in una canzone puoi raggiungere tanti lavoratori troppo poco istruiti o troppo indifferenti per leggere un opuscolo o un editoriale.” La base degli IWW erano lavoratori migranti e stagionali, e niente è più leggero, resistente e trasportabile di una canzone; come poi il movimento dei diritti civili, gli IWW saranno un singing movement , i cui militanti girano l’America portandosi in tasca due cose: la tessera che li fa riconoscere come compagni dovunque vanno, e il canzoniere rosso, The little red songbook, il cui fine dichiarato era di “fan the flames”, alimentare le fiamme della rivolta. Joe Hill era un genio della parodia. Prendeva canzonette di successo, canti popolari, brani gospel, e rovesciava il senso mantenendo il suono. Prende una canzone popolare, la storia dell’eroico ferroviere Casey Jones, e lo trasforma in Casey Jones il crumiro, che si ammazza per far corere i treni durante uno sciopero, arriva in paradiso dove gli angeli sono in lotta, fa il crumiro anche lì e finisce a spalare zolfo all’inferno. Dalle canzoni di chiesa riprende la capacità di creare comunità, di cantare e improvvisare tutti insieme, e le trasforma in inni all’unità operaia. “There is power in the blood of the lamb,” c’è potere nel sangue dell’Agnello, diventa “there is power in a band of working man,” c’è potere in una schiera di lavoratori, quando sono uniti, mano nella mano. A forza di sentire le bande dell’Esercito della Salvezza annunciare la beatitudine futura nella dolcezza del cielo (“in the sweet bye and bye”), si inventa una frase diventata familiare anche da noi: “mangia e prega, campa di niente, e avrai la torta in cielo (“pie in the sky”)”. Senza Joe Hill, anche un po’ di Gianni Rodari (La torta in cielo, 1966) non ci sarebbe. Scrive Tom Morello: “Joe Hill non si limitava a scrivere canzoni contro l’ingiustizia. Era in prima linea, a rischio della vita, per creare un mondo migliore e più giusto. Per questo il potere aveva paura di lui. Per questo l’hanno ucciso”. Le sue canzoni hanno avuto un impatto così straordinario e duraturo perché nascono da dentro il proletariato ribelle, intrise del linguaggio che Joe Hill, immigrato proletario, aveva assorbito sui moli del porto di San Diego, fra i boscaioli dell’Oregon, nelle miniere di rame, nei saloon della Bowery, in tutti i posti dove aveva lavorato e lottato. Joe Hill rimane un’icona della sinistra (c’è anche un film di Bo Widerberg, Joe Hill, 1971. Peccato che nella versione italiana le canzoni siano cantate in pedestri traduzioni italiane) sia per le sue canzoni, sia per l’ ingiustizia simbolica della sua morte. L’accusa di omicidio per rapina fu sostenuta solo da vaghi indizi; i testimoni cambiarono versione in vista del processo; gli atti del processo scomparvero dagli archivi; il governo dello Utah rifiutò di ascoltare le proteste di tutto il mondo e il messaggio del presidente Wilson che chiedeva una revisione del processo. Ogni somiglianza con la storia di Sacco e Vanzetti è storicamente fondata. Nel 1938, Alfred Hayes ed Earl Robinson lo ricordavano in una canzone subito resa classica dall’interpretazione di Paul Robeson: “Ho sognato di vedere Joe Hill stanotte, vivo come e te. Gli dissi, ma Joe, sei morto da anni; e lui: non sono morto mai. Dovunque i lavoratori sono in sciopero, in ogni fabbrica e miniera, dove i lavoratori lottano per i loro diritti, è lì che troverai Joe Hill.” C’è traccia di questa canzone nel discorso di Tom Joad in Furore di Steinbeck (e nel film John Ford): “Dove si lotta per dar da mangiare a chi fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì…” Dal romanzo e dal film, queste parole arrivano a Woody Guthrie e poi a Bruce Springsteen: “Dove c’è un poliziotto che picchia qualcuno, dove c’è una lotta contro il sangue e l’odio nell’aria, cercami e sarò lì…” “Il mio testamento,” scrisse Joe Hill il giorno prima dell’esecuzione, “è facile da fare: non c’è niente da spartirsi, perché il muschio non si attacca a una pietra che rotola”( già: a rolling stone). Se potessi decidere, vorrei che Il mio corpo fosse fatto cenere e la cenere sparsa al vento, che la porterà dove crescono i fiori, e forse aiuterà un fiore appassito a rinascere.” Al suo funerale, marciarono in 30.000. Ma forse avevano ragione Hayes e Robinson: Joe Hill non è morto, il suo fantasma è qui insieme a quello di Tom Joad. Chissà che ricordarlo e cantarlo non aiuti a far rifiorire quel movimento operaio per cui è vissuto ed è stato ucciso cento anni fa.

19 dicembre 2015

"Adua" di Igiaba Scego - il manifesto 15.12.2015

Erano appena i primi anni ’90, e alcuni di noi si posero una domanda: ma queste persone che arrivano ora da tante altre parti del mondo, stanno raccontando, stanno inventando, stanno scrivendo? C’era stato qualche incontro, qualche segnale, e ci domandammo se, con modalità paragonabili ma con tempi molto più rapidi, come negli Stati Uniti era nata una letteratura afroamericana, non stesse nascendo qualcosa che per mancanza di un altro termine, chiamammo provvisoriamente “letteratura afroitaliana”: persone non nate in Italia, o da famiglie non native italiane, che tuttavia scrivevano in italiano e pubblicavano in Italia. Ricordo un po’ di scetticismo. Gli italianisti dell’università che rifiutarono di accettare questi scritti come letteratura italiana (al massimo, “letterature comparate”); l’industria editoriale che da questi scrittori – come per quasi un secolo era successo agli afroamericani - si aspettava solo documentazione (autobiografia) o sentimenti (poesia), ma non gli riconosceva il diritto all’immaginazione (romanzo) e la capacità di metterla in parole. Inutile ripetere che il tempo ha dimostrato che questa scrittura non solo esiste, ma cresce e ormai è arrivata a piena maturità, a solida coscienza di sé, e occupa uno spazio tutt’altro che trascurabile nella cultura dell’Italia contemporanea. Sottolineo Italia: perché quella che con un termine non necessariamente soddisfacente oggi chiamiamo “letteratura migrante” è un’espressione imprescindibile di quello che è oggi il nostro condiviso e molteplice paese. Se la storia dell’Italia, se le radici dell’Europa sono in gran parte il colonialismo e le guerre portate nel resto del mondo, allora le memorie degli eritrei o dei curdi che oggi abitano l’Italia diventano a pieno titolo memoria di tutti. Per esempio, è memoria dell’Italia quella dà il titolo e il nome della protagonista ad Adua, il recente romanzo di Igiaba Scego: la prima sconfitta militare subita da un paese europeo (1896) per mano delle forze africane. Come ha mostrato la stessa Igiaba Scego in un altro utilissimo libro (Roma negata, Ediesse 2014), basterebbe guardarsi intorno per ritrovare nelle strade, sui muri, nei monumenti della capitale d’Italia i segni del passato coloniale italiano – glorificato dal nazionalismo e dal fascismo, trascurato e quindi tollerato dall’Italia democratica, e almeno in parte costruito proprio attorno alla non dichiarata intenzione di cancellare la memoria di quell’umiliazione originaria. Solo che adesso Adua è presente nelle stesse strade e negli stessi quartieri anche con un’altra connotazione e un altro punto di vista: quello degli italiani e dei migranti per i quali è una memoria (peraltro, come mostra il romanzo, ambigua e complessa) di dignità e orgoglio. Forse l’unico modo per elaborare davvero Adua è fare nostra Adua: riconoscerci in una memoria che, proprio perché è una memoria di guerra, non può essere che divisa nel momento in cui la accogliamo come condivisa. Come altri testi recenti (penso a Il comandante del fiume di Cristina Ali Farah, a Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi), Adua è il prodotto di questa stagione di maturità autoconsapevolezza di questa nuova letteratura italiana. E’ un romanzo ambizioso. Leggendolo, mi è venuta in mente la categoria di “opera mondo” elaborata da Franco Moretti a proposito di opere canoniche della letteratura “occidentale”, dal Faust a Cent’anni di solitudine: opere che cercano l’impossibile impresa di fare entrare in mondo intero in un solo testo, che naturalmente falliscono, ma che proprio nelle loro imperfezioni recano il segno della loro grandezza. Adua non si misura con il mondo intero, ma certamente ha il coraggio di cercare di mettere in un solo testo tutta la storia di un pezzo di mondo, quella di un’Italia della cui storia fanno parte l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia e le loro memorie. La protagonista la racconta all’unico interlocutore in grado, anche grazie alle sue grandi orecchie, di ascoltarla: l’elefantino del Bernini in piazza della Minerva, altra presenza africana nel centro dell’Italia. La storia di Adua va da un’infanzia rimpianta nella Somalia rurale alla scoperta del cinema nelle città colonizzate dagli italiani, dall’infibulazione allo sfruttamento sessuale in certo cinema italiano erotico-esotico degli anni ’70 (con un’appendice scopertamente berlusconica un po’ tirata per i capelli ma utile a portare la storia fino a noi), all’affetto e conflitto anche generazionale fra la prima diaspora postcoloniale e l'immigrazione recente (rispettivamente e spietatamente, nei relativi gerghi, “vecchie lire” e “Titanic"). Questa storia si intreccia con quelle del padre della protagonista, Zoppe, e del padre di lui: il contrasto campagna-città, le relazioni generazionali (le “paternali”, i monologhi in discorso indiretto libero del padre alla figlia sono le pagine meglio riuscite godibili del libro), ma soprattutto le complicazioni di un rapporto fra colonizzati e colonizzatori in cui la rabbia e il risentimento dell’oppresso si intrecciano con la subalternità e magari anche con l’opportunismo della sopravvivenza, in cui dai a tua figlia il nome di una vittoriosa battaglia anticoloniale ma poi coi colonizzatori (e quindi con la tua coscienza) sei per forza costretto convivere, adattarti e servire. Il padre di Adua nel romanzo si chiama Zoppe. Anche nella forma “Zoope”, è un nome abbastanza diffuso in Somalia. Ma una volta che entra nel discorso italiano, le connotazioni diventano altre, e a me suggerisce irresistibilmente il più famoso zoppo della cultura euro-africo-asiatica – Edipo. Come ha mostrato Carlo Ginzburg in Storia notturna, da Edipo a Cenerentola la zoppia - rottura della simmetria costitutiva del corpo umano – è il segno di uno squilibrio profondo, di un disordine cosmico; ma proprio per questo è anche il segno di una posizione intermedia fra mondi diversi e in comunicanti (sono zoppi il coyote e la iena, mediatori fra mondo dei vivi e mondo dei morti in molte mitologie native americane). Ora, Zoppe è appunto questo: come Edipo, è indovino, mediatore fra mondi visibili e invisibili, capace di evocare persone lontane e pre-vedere tempi futuri (cosa che aiuta Scego a far entrare nel libro anche tempi che sarebbero fuori del suo orizzonte cronologico); e di mestiere fa il traduttore, la più complicata di tutte le figure di mediatore in un mondo in cui le lingue non si capiscono fra loro. Traduttore traditore, dice il proverbio: Zoppe dà ai colonizzatori accesso alle parole dei colonizzati, e in gran parte rinuncia alla propria – non racconterà mai a nessuno la sua storia, e il silenzio lo avvelena (grazia alla sua capacità visionaria, e all’incontro con una bambina e una famiglia ebrea, Zoppe pre-vede anche la Shoah: anche qui, un po’ forzato, ma utile a ricordarci che antisemitismo fascista e razzismo coloniale sono legati a doppio filo; e funzionale all’ambizione di opera-mondo del libro). Il romanzo ci conclude in piazza dei Cinquecento. Nessuno ci pensa o lo sa: è un’altra memoria ambigua un po’ vergognosa e un po’ dimenticata. Proprio Igiaba Scego ci ha ricordato che prende il nome dei “cinquecento” italiani periti in un altro disastro coloniale, la battaglia di Dogali in Eritrea, nel 1897. Se uno la guarda su Wikipedia, ci trova un racconto “eroico” dei prodi italiani che soccombono a soverchianti forze africane – armate peraltro, sempre stando a Wikipedia, solo di lance. Se uno la pensa dentro la memoria di quelli che difendevano il loro paese da un’arrogante invasione straniera, è impossibile non stare dalla loro parte, contro una parte di “noi italiani” stessi. Se non la ricordiamo, è perché è vergognosa da due lati: da quello eroico-guerresco, perché è una sconfitta; e da quello civile, perché è parte di un’incivile storia di aggressione coloniale. In questo luogo simbolico, Adua si separa da Ahmed, il giovane immigrato con cui ha scambiato protezione, calore e affetto al di là delle differenze di età. Per la prima volta, lei si toglie lo “strano turbante” fatto con la stoffa blu ereditata da suo padre, e scopre che può liberarsi del peso e del marchio della sua memoria. Come dono d’addio Ahmed le regala una cinepresa: dopo essere stata filmata come oggetto da sfruttare, adesso finalmente potrà dare forma all’immagine che ha di se stessa. Per chi si libera dell’oppressivo turbante blu di una storia che ti grava addosso, piazza dei Cinquecento a Roma è soltanto la piazza della stazione: luogo multiculturale di incontri, di arrivi, di partenze, e di nuovi inizi.

05 novembre 2015

Link a una pr esentazione del mio libro su Bruce Springsteen ("Badlands. Springsteen e l'America: il lavoro e i sogni", Donzelli, settembre 2015) a PPristina, Kosovo! http://oralhistorykosovo.org/portelli-on-springsteen/#prettyPhoto[pp_gal]/0/