25 dicembre 2009

La scritta rubata: eccessi di memoria

il manifesto 24.12.2009

Dopo la rimozione della scritta “Arbeit macht frei” dal cancello di Auschwitz, si è detto che si trattava di un attentato contro la memoria, di un tentativo di cancellarla. A me sembra invece che azioni del genere siano il risultato di una vera e propria ossessione per la memoria: un’ossessione che rende insopportabile l’esistenza di certi oggetti e che cerca di placarsi possedendoli e cancellandoli al tempo stesso, e si illude così di controllare e dominare anche la memoria altrui. E’ questo il fondamento emotivo dei revisionismi e dei negazionismi: più si affannano a cancellare, manipolare, nascondere queste memorie, più mostrano di essere dominati da quello che vorrebbero dominare. Solo chi non può dimenticare rimuove.
Di questa ossessione, legata agli stessi eventi della guerra mondiale e della Shoah, fa parte anche il processo di beatificazione di Pio XII per le sue “virtù eroiche”. Io non so se esista una definizione di eroismo nella dottrina teologica o nei codici di diritto canonico; ma so che nel nostro linguaggio ordinario l’eroismo comporta sempre un’assunzione di rischio, un mettersi in gioco, mentre la capacità (o se vogliamo la virtù) mediatrice e diplomatica di Papa Pacelli durante la guerra e la Shoah consistette precisamente nel tenere fuori dal pericolo la sua istituzione e la sua persona, e di compiere a protezione dei perseguitati tutte, e solo, quelle azioni che si potevano compiere senza correre rischi. A rischiare, anche in seno alla Chiesa, furono altri.
Può darsi pure che avesse ragione, e abbia fatto la cosa più saggia ed equilibrata, non sto qui a discuterlo. Ma mi sembra che l’insistenza sulla beatificazione, sua e di altri papi problematici come Pio IX (al di là della banalizzazione indotta dall’inflazione di santi e beati introdotta dal suo predecessore), abbia anch’essa a che fare più con questa ossessione della memoria che con virtù vere o presunte. Voi ricordate ambiguità, criticate silenzi, dubitate sulle esitazioni? E noi proprio per questo beatifichiamo: alla vostra memoria problematica sovrapponiamo una memoria canonica certificata, pacificata e vera per fede.
Ora, la memoria non è né una cosa buona né una cosa cattiva: come la respirazione, è una funzione inevitabile degli esseri umani, in una certa misura è addirittura involontaria – non possiamo decidere di non avere memoria, così come non possiamo decidere di non respirare. Ma proprio per questo, come possiamo impegnarci su come respirare, su che aria vogliamo metterci nei polmoni, anche sulla memoria possiamo lavorare, esercitarci, fare attenzione, essere il più possibile coscienti di come e che cosa ricordiamo. Per questo, la memoria non è un dato stabile ma un terreno di conflitto: se abbassiamo per un attimo la vigilanza, la nostra mente sarà posseduta da cattive memorie, da memorie altrui: siamo come gli eroi cyberpunk di William Gibson, capaci di espandere all’infinito la propria coscienza nel ciberspazio, ma vulnerabili ogni momento dall’invasione del ciberspazio nell’intimo più profondo della propria psiche.
L’ossessione conservatrice e reazionaria per la memoria nasce da qui: all’impossibilità di dimenticare e di far dimenticare incubi del passato si risponde cercando di controllarli e di sostituirli con memorie alternative. La resistenza, certo, sta nell’impedire la cancellazione dei segni e dei simboli, ed è un bene che la scritta di Auschwitz sia tornata al suo posto (a me piacerebbe che i segni della frammentazione a cui è stata sottoposta dai rapitori restassero visibili – segni di una seconda memoria, della memoria della profanazione). Ma la resistenza sta soprattutto dentro di noi, sta anche nella nostra capacità di ricordare senza dipendere troppo dai promemoria e dagli oggetti. In un memorabile racconto di Alice Walker, “Per uso quotidiano”, due sorelle si litigano un quilt, cimelio familiare patchwork in cui sono incorporati il lavoro di una nonna e frammenti dei suoi vestiti. La sorella “colta”, proprio come il committente del furto di Auschwitz, vuole farne un oggetto da collezionista, appeso al muro; la sorella campagnola è pure disposta a lasciarglielo fare, tanto “io sono capace di ricordarmi di nonna Dee anche senza il quilt”. La memoria siamo noi, e se il furto di un oggetto sia pure infinitamente simbolico bastasse a indebolirla vorrebbe dire che abbiamo già cominciato a dimenticare.

12 dicembre 2009

Dennis Lehane: Quello era l'anno

il manifesto 12.12.2009

Dennis Lehane è affascinato dalle possibilità narrative del caos. Nel suo romanzo migliore, Shutter Island, è il caos degli elementi – la tempesta, il mare infuriato – e delle identità. Nel più recente e più ambizioso Quello era l’anno (Piemme Edizioni, 2009, traduzione di Gianna Lonza), è il caos sociale scatenato dallo storico sciopero dei poliziotti di Boston nel 1919 – una città stravolta da criminalità, pregiudizi e rivalità razziali e nazionali, gang, terrorismi, conflitti di classe, corruzione e incapacità delle classi dirigenti, abbandonata agli impulsi più sanguinari e incontrollati tanto del suo underworld quanto dei suoi governanti: “Scollay Square… si era trasformata in uno zoo senza gabbie. Erano tutti ubriachi fradici, urlavano alla pioggia. Le ragazze dello spettacolo di varietà, stordite, senza più nappine e fiocchetti, andavano in giro a petto nudo. Sul marciapiede macchine rovesciate e falò. Lapidi divelte dal camposanto appoggiate contro i muri e le staccionate. Una coppia che scopava sopra una macchina, capovolta. Due uomini impegnati a pugni nudi in un incontro di pugilato nel mezzo di Tremont Street e, in cerchio intorno a loro, gli scommettitori. Il sangue e la pioggia rigavano i vetri rotti sotto i loro piedi.”
Il 1919 è un anno mirabile nella storia dei conflitti sociali negli Stati Uniti – grandiosi scioperi di minatori e di siderurgici, lo sciopero generale che mise per qualche giorno Seattle sotto il governo dei soviet di operai e marinai, segnano l’avvento del protagonismo dell’operaio massa che culminerà nella stagione di lotte degli anni ’30. La guerra era finita ma, con la scusa che il trattato di pace non era ancora stato firmato, il governo rifiutava di sospendere le norme eccezionali del periodo bellico e di riaprire la normale dialettica sindacale e politica – e anzi rispondeva con attacchi alle libertà civili, repressioni, arresti, deportazioni di massa al fermento sociale e agli attentati messi in atto da gruppi estremisti. Riprendeva vigore il Ku Klux Klan, accanendosi contro gli immigrati e linciando i reduci afroamericani colpevoli di indossare sulla pelle nera l’uniforme dell’esercito degli Stati Uniti. E attorno a tutto questo il grande spavento per l’epidemia dell’influenza spagnola e il disorientamento culturale indotto dal grande, incomprensibile disastro della guerra mondiale. Non c’è da stupirsi perciò se quegli anni hanno un posto così importante nella letteratura americana – dal Grande Gatsby di Scott Fitzgerald a 42mo parallelo di Dos Passos, dalla Enormous Room di e.e.cummings a Jazz di Toni Morrison o, a suo modo, Fiesta di Hemingway.
Lehane entra in questa storia con grandi ambizioni: non a caso, una delle citazioni promozionali riportate sulla quarta di copertina suggerisce che l’obiettivo è nientemeno che “the great American novel,” quel “grande romanzo americano” di cui si favoleggia a vuoto da almeno due secoli. Non c’è dubbio che l’attacco del libro suggerisca una dimensione del genere. Come Underworld di Don DeLillo, altro “grande romanzo americano”, infatti, si apre sul grande simbolo dell’americanità: il b baseball. Racconta lo straordinario incontro fra Babe Ruth (l’indimenticato Maradona del baseball USA) e un gruppo di dilttanti neri dell’Ohio, che stracciano lui e i suoi compagni di squadra in una partita improvvisata – salvo vedersi rubare il risultato perché i bianchi hanno sempre ragione e vogliono vincere sempre. Babe Ruth e il baseball ritornano in altri due intermezzi, a ribadirne la funzione simbolica e l’intenzione di rappresentare in qualche modo l’America intera (non sarà un caso che The Great American Novel già esiste – l’ha scritto Philip Roth, e usa proprio il baseball come luogo deputato del mito e dell’epica – basta pensare che uno dei protagonisti si chiama Gill Gamesh, come l’eroe del grande poema epico babilonese del duemila avanti Cristo…).
Luther Laurence, l’imprendibile giocatore afroamericano che sconfigge e affascina Babe Ruth, sarà uno dei due protagonisti del resto del libro. Lo seguiamo mentre si trasferisce con sua moglie a Tulsa, Oklahoma. E finora sembra che Quella era l’anno voglia avere anche il respiro geografico del grande romanzo americano: Ohio, Boston, Oklahoma, Missouri, ancora Boston… Poi però, dopo che Luther deve scappare e rifugiarsi a Boston per aver ucciso un gangster con cui si era infognato a causa delle cattive compagnia, la geografia del romanzo si viene sempre più stringendo e focalizzando su Boston, anzi sul North End, il quartiere degli immigrati italiani, delle gang, degli anarchici bombaroli.
Qui incontriamo l’altro protagonista, Danny Coughlin, agente di polizia, figlio di un mitico capitano della polizia bostoniana con cui intrattiene un rapporto ambivalente di ammirazione e risentimento. Mentre attraverso Luther assistiamo alla crescita delle organizzazioni per i diritti degli afroamericani, attraverso Danny vediamo le condizioni sempre più insopportabili in cui lavorano per paghe sempre più miserevoli i tutori dell’ordine di Boston, e i primi fermenti sindacali che li porteranno alla sciopero. I due finiranno per incontrarsi e stringere una insolita amicizia interrazziale quando Luther va a servizio presso la famiglia del padre di Danny. E alla fine il centro della storia sarà il rapporto fra loro, la burrascosa relazione fra Danny e suo padre, la contrastata storia d’amore di Danny con la domestica irlandese Nora, il sogno di Luther di tornare a Tulsa per vedere il suo bambino mentre intorno a loro monta la tempesta.
Questo movimento centripeto del libro lascia alcuni fili curiosamente sospesi. Per esempio, perché proprio Tulsa? Lehane avrebbe potuto scegliere qualunque altra città, ma mandare un afroamericano a Tulsa nel 1919 è un po’ come mandare una persona a Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema nel 1942 e non fare alcun cenno di quello che stava per succedere: nel 1921 infatti Tulsa sarebbe stata teatro del più sanguinoso massacro razziale della storia americana, in cui morirono intorno a trecento afroamericani e una decina di bianchi. Nel “lieto fine” del libro, Luther (dopo aver salvato la vita a Denny lanciando un mattone con la forza e l’accuratezza del suo braccio da baseball – ma non sarà anche una citazione da Krazy Kat?) si prepara a tornare a Tulsa per riprendere il suo ruolo di marito e di padre. Ma un lettore con un minimo di conoscenza della storia americana non può non chiedersi che cosa sarà di lui e della sua famiglia nella strage di lì a due anni. Che Lehane abbia voluto giocare proprio su questo, lasciando ai lettori ingenui il piacere del lieto fine e suggerendo a quelli informati, con un’immensa litote, che la storia e le tragedie non finiscono lì - che il buon Luther si illude se crede di andare incontro a una vita normale? Può darsi – anche se i lettori informati rischiano di essere molto pochi, dato che la strage di Tulsa è stata quasi completamente cancellata dalla memoria storia nazionale e locale (ma Toni Morrison vi dedica poche indimenticabili pagine in Jazz). Come tanti romanzi americani, insomma, un libro che si conclude con una partenza sembra sia chiudere una storia, sia insieme suggerire che se ne apre un’altra che possiamo e dobbiamo solo immaginare.
Che si possa trattare di un’allusiva strizzata d’occhio al pubblico informato lo suggerisce anche un altro filo sospeso: la scena in cui Babe Ruth assiste in un bar a una sospetta e incomprensibile conversazione fra i suoi manager e certi loschi figuri. Lehane non spiga niente e non ci torna più; ma qui l’allusione è più a portata del pubblico più vasto di lettori: si può non sapere che cosa è successo a Tulsa nel 1921 ma è impossibile non essere a conoscenza del più grande scandalo della storia sportiva americana, le World Series truccate del 1919 (lo nomina anche Fitzgerald nel Great Gatsby, e c’è un notevole film di John Sayles, Eight Men Out, del 1988). Se Tulsa evoca la violenza di strada, lo scandalo del baseball evoca la corruzione dell’anima nazionale. Che sono poi i due temi “storici” del libro. Ma magari due righe di nota avrebbero aiutato il lettore italiano a orientarsi.
Per il resto, il romanzo procede con buon ritmo, senza grandi sorprese ma con grande talento visivo – un po’ Gangs of New York e un po’ Sacco e Vanzetti (ma senza arrivarci) - verso il cataclisma finale. Fra ossessione del terrorismo e aggressione alle libertà civili, Lehane non si lascia sfuggire un paio di rinvii all’attualità, all’odierna politica di guerra in tempo di pace: il poliziotto cattivo che prepara retate di tutti gli iscritti ai sindacati e alle associazioni per i diritti civili dando per scontato che sono complici del terrorismo (“Dobbiamo aspettare che ci facciano saltare in aria prima che ci decidiamo a prenderli su serio?” dice, come anticipando il discorso di Rumsfeld sulla “pistola fumante”), o quando in odio ai tedeschi il wurstel fu ribattezzato “salsicciotto della libertà” (anticipando le “French fries” ribattezzate “freedom fries” durante la seconda guerra del Golfo). Forse i personaggi e le loro storie possono essere abbastanza prevedibili (specie i cattivissimi cattivi), ma la scrittura è competente, la traduzione funziona, il quadro dell’epoca e della città è vivido - un buio notturno con squarci di luce che però possono essere anche bagliori di bombe. E se non lo leggiamo tanto come quel buon romanzo storico che comunque è, quanto come una metafora di tutto quello che nella nostra civiltà si agita sotto la superficie dell’ordine e della ragione – lo sciopero dei poliziotti come rimozione del super-Io? – può diventare anche abbastanza disturbante.