22 giugno 2014

Hebron: terrore e routine

il manifesto 20.6.2014 (per motivi di spazio il testo uscito sul giornale era un po' ridotto. Questo è il testo completo) Tre ragazzi israeliani scomparsi – quasi certamente rapiti – nei pressi di Hebron, nella Palestina occupata. Letteralmente, non ci dormo la notte. Magari con meno immediatezza, ma la qualità dell’ansia e degli incubi mi ricorda quello che provavo ai tempi del rapimento Moro. A Hebron c’ero stato meno di una settimana prima del fatto, e quello che ho visto fa rabbrividire. Qui l’occupazione israeliana non si è limitata a edificare un insediamento coloniale (Kiryat Arba, sulla collina di fronte a Hebron), ma ha preso direttamente possesso di una parte della città stessa. Hebron è dove si dice sia sepolto Abramo e dove David sarebbe stato proclamato re. Con questa motivazione, poche centinaia di estremisti religiosi israeliani si sono insediati dentro la città, e adesso il venti percento del territorio urbano è direttamente sotto controllo israeliano, occupato da settecento coloni religiosi e altrettanti a soldati. I ventimila arabi che abitavano in questa parte di Hebron sono andati via o sono diventati invisibili. Non possono nemmeno passare per le strade principali, riservate esclusivamente ai coloni (le chiamano “strade sterilizzate”). I vecchi mercati sono macerie abbandonate, le strade laterali sono chiuse da muri, i negozi sono sbarrati, le porte delle case che danno sulla strada sono sigillate per impedire ai loro abitanti di calpestare le strade proibite (se vogliono uscire di casa, devono passare dal tetto e scendere con la scala sul retro), quei pochi che restano sono frequentemente aggrediti, insultati, sputati dai coloni protetti dai militari. Per strada vedo solo plotoni di soldati accompagnati dai coloni. E’ una città fantasma segregata. Mi accompagna un esponente di Breaking the Silence, l’organizzazione dei soldati israeliani che hanno deciso di rendere pubbliche le violenze, gli abusi e i crimini commessi dalle forze di occupazione. Si definisce ebreo ortodosso, e dice di non essere un pacifista. Di Hebron occupata conosce ogni sasso, ogni porta. Mi decifra alcune delle scritte che vediamo sulle porte e sui muri – quella che più mi impressiona dice “arabi al gas”. Recentemente, racconta, un gruppo di giovani palestinesi ha cercato forme di protesta non violente. Si sono messi d’accordo con un’organizzazione di donne ebree di Gerusalemme che in solidarietà sono venute a Hebron, si sono cambiate in abiti tradizionali palestinesi e così vestite si sono incamminate per una strada “sterilizzata”. Le hanno arrestate immediatamente. E poi, qualcuno rapisce quei tre ragazzi ed è logico che si scateni l’inferno. Mentre scrivo sono a New York e mi capita per mano il Wall Street Journal, uno dei migliori esempi di giornalismo anglosassone. Centoventi righe ben documentate e precise sulle azioni e le dichiarazioni di Netanyahu e del governo israeliano in risposta alla crisi. Nel mezzo dell’articolo, una frase: “Gli arresti hanno provocato scontri e dimostrazioni nella West Bank, che hanno lasciato almeno un palestinese morto”. Non una sillaba di più. Chi era, in che modo è stato “lasciato morto”, che diavolo significa – per un giornalismo così attento alla precisione e ai fatti – “almeno” un morto? Mi viene in mente un fulminante dialogo delle Avventure di Huckleberry Finn. “Si è fatto male qualcuno?” “Nossignora; è morto un negro”. Il rapimento di tre ragazzi israeliani – su questo non ci piove – è un atto terroristico e un delitto. Ammazzare “almeno” un arabo è routine. L’atto terroristico è una notizia, ha conseguenze immediate, gravi e clamorose. La routine non è una notizia, non merita titoli e approfondimenti. Ma la routine scava profondo, e nel tempo gli effetti possono essere terribili per tutti. A Kiryat Arba – spaziosa, bianca di pietra e verde di alberi – c’è un giardino. In cima al giardino, un tempo c’era un monumento e un sacrario. Sono stati rimossi, ma rimane una tomba. E’ la sepoltura di Baruch Goldstein, che il 25 febbraio 1994 irruppe nella parte musulmana della Tomba di Abramo e ammazzò ventinove palestinesi prima di essere sopraffatto. La scritta sulla tomba recita: “Al santo Baruch Goldstein, che ha dato la vita per il popolo ebraico, per la Torah e per la nazione di Israele”. Sulla tomba sono deposti dei sassi, segno tradizionale di pietoso e devoto omaggio. Dei tre ragazzi, purtroppo, nessuna notizia.

05 giugno 2014

La Liberazione non è finita.

il manifesto 5.6.2014 La testimonianza più drammatica della liberazione di Roma, il 4 giugno del 1944, ce l’ho davanti casa: la stele che, dove da via Cassia si diparte una stradina un tempo di campagna e oggi di quartiere dormitorio, elenca i nomi dei prigionieri politici uccisi a sangue freddo dai nazisti (affiancati da collaboratori italiani) dopo che si era bloccato il camion che li trasportava a Nord mentre da Sud entravano in Roma le truppe alleate. Un a quindicina di anni fa, era appena cominciato il processo Priebke, uscendo di casa trovai che qualcuno aveva dipinto sul cippo un’enorme svastica nera. Pochi minuti dopo, attorno al cippo c’era un capannello di gente che discuteva come fare a cancellare quell’insulto. Ognuno proponeva gli strumenti del proprio mestiere: il carrozziere offriva una mola (“ma no, così rovini il marmo!”), il commerciante del ferramenta proponeva un solvente… E io, che facevo un altro mestiere, mi domandavo: e io, che strumenti ho per cancellare quella svastica? Materialmente, adesso la svastica è scomparsa dalla pietra. Ma non è stata cancellata dalle nostre menti e dalla nostra cultura. Quelli di noi che lavorano nella cultura, nella comunicazione, nella scuola devono cercare nel proprio mestiere gli strumenti per continuare il lavoro di quel ferramenta e di quel carrozziere e cancellare la svastica anche dalle coscienze. Finché le svastiche continueranno ad apparire sui nostri muri, e proprio in vicinanza dei luoghi della resistenza (dalla Storta a via Tasso) e nelle ricorrenze (il 25 aprile, il giorno della memoria…), la liberazione di Roma non si potrà dire compiuta. La storia non finisce lì. D’altronde, quel 4 di giugno in cui i nazisti lasciarono Roma e gli alleati vi furono accolti in festa non fu una fine, ma un nuovo inizio. C’è una canzone partigiana che ho sentito cantare nei Castelli Romani che dice: “Or che è liberata Roma / il mondo intero insorgerà”. Da un lato, la canzone sottolinea il ruolo simbolico dell’evento: la liberazione di Roma, simbolo universale, cambia di segno alla storia del mondo, è una luce sul futuro. Dall’altro, però, dice che la battaglia continua, la guerra non è finita. E centinaia di partigiani delle zone liberate dell’Italia centrale continueranno la lotta nei gruppi di combattimento a fianco delle forze alleate e di quel che restava dell’esercito italiano. Il paradosso, naturalmente, è che forse “il mondo intero insorgerà”, ma che forze potenti – dalla Chiesa ai militari monarchici – si erano attivate per impedire che insorgesse Roma. Forse avevano anche delle buone ragioni; ma forse la scelta di fare di Roma l’oggetto e no il pieno soggetto della propria liberazione è una delle ragioni per cui, sette decenni dopo, le svastiche continuano ancora a infestare la nostra memoria.