27 aprile 2008

Gianfranco Fini poliziotto dilettante

il manifesto 27 aprile 2008

Così, Gianfranco Fini è andato in giro per bancarelle a Roma, e invece di comprare collanine ha preteso di controllare i documenti e i permessi di soggiorno dei venditori. Non si capisce a che titolo il signor Gianfranco Fini si sia arrogato questo diritto: persino negli anni più bui dell’apartheid razzista in Sudafrica, il compito di verificare i “pass” dei cittadini di pelle nera spettava alla polizia, non a qualunque bianco di passaggio, deputato o meno. Ma è fin dalla sua incursione nel commissariato di Genova che Gianfranco Fini ama giocare al poliziotto dilettante, dandoci prova tangibile di che cosa capisce dei ruoli istituzionali, della democrazia, della legge, dell’ordine pubblico. Altro che il famoso ”senso dello stato” della destra postfascista!
Per di più, il raid è stato anche sfortunato: tutti i venditori ambulanti di cui Fini ha preteso di vedere le carte avevano i documenti in regola. E qui l’onorevole ha superato se stesso. Invece di ammettere che forse il suo allarme sui clandestini è un po’ esagerato e che la maggior parte degli immigrati sono in regola, Fini ha concluso: si vede che i permessi di soggiorno glieli vendono.
Se uno voleva un esempio da manuale di che cosa è il pre-giudizio, eccolo: un’affermazione precostituita (gli immigrati sono tutti clandestini, quindi tutti criminali e tutti stupratori) che rimane incrollabile nonostante le smentite dei fatti. Come nella favola del lupo e dell’agnello, se un argomento non regge, se ne inventa un altro; quello che conta è che la semplice affermazione a priori non venga scalfita dal dubbio e dalla complessità. Il mito è impermeabile all’informazione, e il razzismo non si cura con giacca e cravatta.
Gianfranco Fini è accreditato anche da fonti insospettabili del merito di avere avviato la vecchia destra fascista verso la trasformazione in una destra rispettabile ed europea. Se la destra moderna e perbene è questa, figuriamoci quella per male in svastica e croce celtica. Possibile che ci sia tra noi chi, per far dispetto a un centrosinistra insoddisfacente, sia indifferente all’idea di lasciare Roma nelle mani dei seguaci, continuatori e accoliti di questa gente?

Il 25 aprile a Roma tutto l'anno

il manifesto 25 aprile 2008

Il 26 giugno 1946, la partigiana Maria Teresa Regard scriveva a suo marito Franco Calamandrei: ”Dunque Roma è asfissiante malgrado che noi abbiamo avuto 89 mila voti. Si ha la netta impressione che siano i monarchici a dominare dato il coraggio che hanno nel professare la loro idea e di girare ancora con il nastro sabaudo e la corona. Molti manifesti ancora delle elezioni che sbiadiscono sotto questo meraviglioso sole. Ci sono di nuovo i filobus e in generale c’è molto movimento. Dappertutto reclames di Tabarin e di sale da giuoco”.
Potrebbe essere benissimo un ritratto anticipato della città che rischiamo di ritrovarci a Roma dopo il 28 aprile del 2008 – coi fascisti che sbandierano svastiche e croci celtiche, col meraviglioso sole e i manifesti sbiaditi, e con l’equivalente televisivo dei tabarin e delle sale da gioco. E pensare che allora almeno il referendum l’aveva vinto la repubblica, mentre adesso il quadro nazionale è ancora più plumbeo di quello romano.
Per adesso, dunque, Roma sta in apnea, aspettando di vedere che aria respireremo, se respireremo, da qui a qualche giorno. I brutti segnali ci sono tutti – l’aggressione al Circolo Mario Mieli, le minacce ai centri sociali e agli spazi di socialità alternativa, le mani già tese a prendersi anche le istituzioni della cultura. Negli anni dei passati governi di destra, Roma di centrosinistra, non senza limiti e contraddizioni venuti al pettine negli ultimi tempi, era comunque una specie di cuneo infilato dentro una catena di comando che andava dal governo alla regione alla provincia. Era uno spazio non ideale dove un poco di respiro c’è stato. Lasciarla assimilare al disastroso quadro nazionale significa davvero compattare tutto nelle mani di Berlusconi, Bossi, Fini e dei loro alleati (apparentamento o no, se vince Alemanno trionferà anche Storace, e pretenderà le scuse della comunità ebraica) – in un paese dove, come da più parti si è scritto, in parlamento non ci sono più comunisti e socialisti (e femministe e pacifisti) , ma dove – come pochi hanno scritto – da Ciarrapico a Mussolini i fascisti ci sono ancora, unica “ideologia del novecento” viva e vegeta nel terzo millennio.
Perciò è assolutamente autolesionista pensare che le critiche e le delusioni largamente giustificate nei confronti della sinistra, di Rutelli, di Veltroni, possano renderci indifferenti e farci astenere da un voto che invece è cruciale. Neanche Obama è l’ideale, ma non è McCain; e Rutelli, come che sia, non è Alemanno. Che lui si meriti o meno il nostro voto, la cosa importante è che noi non ci meritiamo Alemanno in Campidoglio e i suoi uomini (di cui ho ben misurato la volgarità, la demagogia, l’insipienza nel mio breve periodo in consiglio comunale) con le mani sul governo della città, delle periferie, della cultura, del controllo del territorio.
Qui non si tratta di astrazioni, di idealità, di futuri possibili. Qui si tratta di cose concrete della vita quotidiana: di un restringersi degli spazi di pratica alternativa (e di un allargarsi degli spazi “non conformi” alla Casa Pound); di un rischio crescente di incolumità per chi non è fascista in una città che di aggressioni fasciste ne ha già viste fin troppe; di un’idea di sicurezza basata su repressione e deportazioni, di un governo fondato sulla paura; di un modello di città centrato su un progetto di secondo raccordo anulare che raddoppierebbe la cintura di cemento e di benzina che già ci soffoca e ci avvelena. Alemanno a celebrare l’anniversario della strage delle Fosse Ardeatine, e il 25 aprile cancellato dal calendario.
E quindi torniamo all’aria, letterale e metaforica. Non si tratta di cantare o meno Bella Ciao, quello possiamo farlo pure di nascosto o a casa nostra. Si tratta di continuare a dire che l’Italia uscita dalla guerra e dalla resistenza, anche se faticosamente e con le contraddizioni descritte da Maria Teresa Regard, comunque si avviava a costruirsi come una democrazia di cittadinanza attiva, consapevole, partecipante. Questo era il modello della nostra Costituzione, che è ancora in vigore ufficialmente ma è già tramontata persino nelle teste di tanti nostri amici affascinati dalla governabilità.
Perciò andare a Porta San Paolo a Roma (come ci andò volontaria Maria Teresa Regard l’8 settembre 1943) e nei luoghi della Resistenza in tutta Italia significa riconoscerci nella storia di una generazione che era stata trattata come sudditi capaci solo di obbedire e di credere e ridiventano cittadini capaci di interrogarsi, di scegliere e di decidere per proprio conto se, come, per chi e per che cosa combattere.
Allora, cantiamo Bella Ciao ad Alghero dove l’hanno proibita, cantiamo magari la Brigata Garibaldi o Fischia il vento per ricordarci di quando pensavamo di avere un futuro, e chissà che a Roma non ci scappi pure di cantare “Su comunisti della capitale”: “Vent’anni e più di tirannia fascista, col carcere il confino ed il bastone, non hanno menomato al comunista / la convinzione.” Possibile mai che a menomarci la convinzione – la convinzione democratica, antifascista, anticapitalista – e a renderci passivi e indifferenti riescano,dove non sono riusciti vent’anni di fascismo, quindici anni di berlusconi, vent’anni di revisionismo storico, trent’anni di TV commerciale, e troppi di cedimenti e compromessi ideali? Un anziano compagno di Tivoli diceva, non tanto tempo fa: il 25 aprile è la festa mia. Bene, è la festa nostra: uno per uno, e tutti insieme. E’ la festa nostra oggi, perché in un paese libero dovrebbe essere 25 aprile tutto l’anno.