22 gennaio 2009

Obama e la ri-fondazione dell'America

il manifesto 22.1.09

All’inizio di Invisible Man, il grande romanzo di Ralph Ellison del 1952, il protagonista – un giovane afroamericano – riceve dal nonno sul letto di morte un ambiguo messaggio: «Voglio che li soffochi a forza di dirgli di sì, che li mitragli di sorrisi, che li porti a morte e distruzione a forza di consensi, che ti lasci ingoiare da loro fino a farli vomitare o scoppiare».. «Overcome them with yesses»: un consenso che distrugge, l’espressione radicale dell’ironia del blues. Ma dire di sì a che cosa, soffocare e far scoppiare, overcome chi, che cosa? Invisible Man si può leggere come la sequenza dei tentativi del protagonista per interpretare e praticare questo messaggio; e la conclusione è che dire di sì ai valori dichiarati dell’America sarà il gesto che distruggerà il dominio di coloro che li hanno traditi: “Forse voleva dire, anzi senz’altro voleva dire, che dovevamo accettare il principio sul quale il paese si fondava … che dovevamo assumerci noi la responsabilità di tutto… . perché eravamo noi gli eredi e … proprio noi, tra tutti, noi più di tutti, dovevamo affermare il principio in nome del quale eravamo stati brutalizzati e sacrificati”.
Sono parole che tornano alla mente nel momento in cui il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti – non direttamente discendente di schiavi ma comunque caricato di quella storia – riecheggia l’idea ellisoniana di “responsabilità” nel suo discorso inaugurale, e rinvia proprio a quei principi fondativi traditi e distrutti da un potere che in loro nome ha seminato morte, distruzione, povertà e ingiustizia. Nei suoi momenti più difficili, afferma Obama, “l’America è andata avanti … perché noi, il popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e ai loro documenti di fondazione”. E adesso si tratta di ricominciare da capo, di “rifare” l’America per realizzare “la promessa che viene da Dio, che tutti sono uguali, tutti sono liberi, e tutti hanno il diritto alla possibilità di cercare la piena misura della loro felicità”.
Sono parole anche consumate, che sono servite a dire e fare il contrario – in nome di queste parole gli afroamericani sono stati, appunto, “brutalizzati e sacrificati”, l’Irak e il Vietnam invasi e bombardati. Ed è per questo, dicono Ellison e Obama, che quando le riprendono in mano proprio gli oppressi, gli emarginati e i loro eredi – quelli che non erano contati come esseri umani, che non erano liberi e che non avevano diritto a sogni di felicità - ridiventano parole, se non rivoluzionarie come due secoli e mezzo fa, certo aperte al cambiamento e alla speranza.
Non mancano momenti di perplessità, ascoltando Obama: per esempio, quando chiama ancora “guerra” la lotta al terrorismo, o quando insieme con la guerra d’indipendenza, la guerra civile, la seconda guerra mondiale aggiunge anche il ben più problematico Vietnam. Quando ribadisce che la promessa democratica della fondazione americana è una promessa di origine divina, può dare fastidio a noi laici. Ma proprio per questo uno dei passi più importanti mi sembra quello in cui dice che l’America è un paese di cristiani e mussulmani, ebrei e indù – e di non credenti. In questo paese dove il presidente che lo ha preceduto parlava direttamente con Dio, affermare in un momento così solenne che anche chi non è crede è un cittadino come gli altri non è uno scherzo.
Ma il discorso di Obama sta dentro una grande tradizione americana: quella per cui il cambiamento si annuncia sempre come una forma di continuità, in cui la critica all’America esistente è fatta in nome di un’America ideale incarnata nelle sue doppie origini – la migrazione puritana e la rivoluzione nazionale democratica. Sono entrambe origini di rottura, che – come ha scritto Sacvan Bercovitch - legittimano il dissenso facendone una forma più alta di consenso (il”sì” sovversivo dell’uomo invisibile di Ellison, il “sogno” di Martin Luther King “profondamente radicato nel sogno americano”…). In un certo senso, la storia americana ha una forma a spirale: a ogni crisi ritorna all’inizio, ma su un piano diverso, riaffermando in nome del cambiamento la missione originaria: è un impulso a recuperare i principi senza metterli in questione, a rivendicare una rivoluzione fondante per dire che un’altra rivoluzione non è necessaria perché l’identità nazionale è comunque un processo continuo di cambiamento.
Una spia di questa modalità è il fatto che nel suo discorso Barack Obama non dice mai (salvo alla fine) “Stati Uniti”, ma sempre America. Come scrive ancora Sacvan Bercovitch, non sono la stessa cosa: gli Stati Uniti sono una realtà empirica, con un territorio, delle istituzioni, dei confini, l’”America” è un’idea che non conosce limiti e che si riempie di contenuti vaghi, incerti e anche contraddittori. A seconda di che vuol dire, “America” può essere un progetto di responsabilità e convivenza democratica, o una minaccia di prevaricazione e dominio, in nome delle stesse parole (“enduring freedom”) e degli stessi valori. E che cosa significherà “America” da ora in avanti dipenderà certo in buona misura da Barack Obama, ma molto anche dal significato che a questa idea attribuiranno i suoi stessi cittadini. E la discussione è cominciata, implicitamente ma in profondità, nel corso stesso del cerimoniale di insediamento.
Il discorso di Barack Obama termina con la formula “God Bless the United States of America”, Dio benedica gli Stati Uniti d’America, una sia pure rituale rivendicazione del rapporto speciale fra l’America e Dio. Ma il giorno prima, davanti alla statua di Lincoln e alla spianata dei monumenti, Pete Seeger e Bruce Springsteen hanno cantato, e fatto cantare a un milione di persone “This Land is my Land”, la canzone che Woody Guthrie scrisse, negli anni ’40, proprio per esprimere rabbia e dissenso verso i sentimenti patriottardi della canzone “God Bless America” di Irving Berlin. E vale la pena di soffermarsi su questo momento, e sul suo dialogo con il discorso presidenziale del giorno dopo.
Spero abbiamo visto in molti il momento emozionante in cui il vecchio Pete Seeger, che dagli anni ’30 a oggi è stato la voce e l’ispirazione del folk revival democratico e militante, passava il testimone a un rocker come Bruce Springsteen: sta a lui, e alla sua musica, oggi parlare dell’America. Negli anni ’50, Pete Seeger era stato in lista nera per la sua vicinanza al partito comunista: che fosse uno dei perseguitati di allora a sancire il nuovo ciclo alla Casa Bianca (con una canzone scritta da un altro comunista) era commovente. Tanto più che, come abbiamo visto, Pete Seeeger non si è pentito per niente.
A sua volta, fin dall’inizio della sua carriera Bruce Springsteen ha avuto chiaro che il rock, musica giovane del momento presente, del futuro e del nuovo, ha anche un passato, uno spessore di storia e di memoria. Gran parte della sua musica è stata un richiamo ai principi fondatori del rock and roll. Pensiamo alla sua ormai classica “Thunder Road” (1975): Mary esce sul portico con l’abito bianco mosso dal vento, e sullo sfondo c’è Roy Orbison che “canta per chi è solo”, citazione di un disco di 15 anni prima, che per il rock sono ere geologiche; in più, il titolo veniva da un film (e da una canzone) di Robert Mitchum del 1958, ambientato fra i minatori di Harlan. Se Roy Orbison cantava per i “lonely”, fin da allora Bruce Springsteen – come scrisse allora un critico – cantava per tutti i giovani ribelli che avevano smesso di essere giovani ma non di essere ribelli. E figuratevi quanto è vero questo per il quasi novantenne Pete Seeger, sugli scalini del Lincoln Center, a cantare quasi settant’anni dopo una canzone che imparò quando aveva vent’anni.
“This Land Is Your Land”, questa terra è la tua terra, è diventata una specie di inno patriottico, insegnata ai bambini e sfigurata dalla pubblicità, un elogio della vastità e della bellezza di un’America ideale di foreste, campi di grano, cieli e strade aperte. Ma non è tutta qui. Ispirato dal New Deal e infuriato da “God Bless America”, Woody Guthrie popola quest’America ideale con la presenza sofferta degli Stati Uniti reali. Sono strofe dimenticate e censurate (ma Bruce Springsteen le cantò in concerto già nei primi anni ’80), strofe cancellate, che evocavano la crisi degli anni ’30 e che raccontano la crisi di oggi: “nelle piazze delle mie città ho visto la mia gente fare la fila per il sussidio, e mentre loro stavano lì affamati io pensavo, quanto vorrei che questa terra fosse fatta per te e per me”. E che dichiaravano dove stava la causa: “c’era un gran muro che cercava di fermarmi, e sopra c’era scritto proprietà privata – ma dall’altra parte non c’era scritto niente”.
L’altro giorno, a Washington, Pete Seeger e Bruce Springsteen l’hanno cantata, e l’hanno fatta cantare, tutta intera a un milione di persone. Inaugurare un presidente americano con una canzone contro la proprietà privata (che poi diventa pure una metafora della ricchezza di carta con niente dietro che stava all’origine della crisi del ’29 come di quella del 2008) non è uno scherzo. E allora dire “questa terra è la mia terra” non significa solo adesione sentimentale: significa dire che uno può amare il proprio paese, e dire che deve cambiare (e l’aveva già detto, senza farsi capire allora, Bruce Springsteen con “Born in the USA”).
Ma il cambiamento di cui parlano Guthrie, Springsteen e Seeger va oltre le formule dei padri fondatori. Per chi è stata fatta questa terra? Che significa questa bandiera? Chi siamo, “you and me”, chi è il “we” dello “yes we can” e del “we the people”? E questo USA dove siamo nati, questa America benedetta, che cosa è e che cosa vogliamo che sia? Tutta la storia della musica popolare, della canzone di protesta, e del rock and roll, ha posto queste domande al nuovo presidente. Che qualcosa ha detto: ha riconosciuto le difficoltà materiali di tanti americani, in cerca di sussidi come nella canzone di Woody Guthrie; ha preso atto della necessità di dare una regolata al mercato, di ricostruire l’immagine internazionale degli Stati Uniti, di restituire un ruolo alle istituzioni pubbliche. Possono essere passi sulla lunga strada proclamata da Woody Guthrie. Se lo saranno, e quanto si andrà lontano, più che da Barack Obama dipenderà da “you and me”.

14 gennaio 2009

Intervista con Giacomettta Limentani e Pupa Garribba

il manifesto 15.1.2009

Giacometta Limentani, scrittrice, 81 anni, e Pupa Garribba, 74 anni, giornalista, due voci della cultura ebraica, sono donne di sensibilità e di pace. Le ho cercate perché in questi giorni in cui il rumore delle armi e il rifiuto di riconoscere l’altro fanno sentire anche me ridotto al silenzio, mi pare importante non tanto convincersi o convincere, quanto almeno ascoltare – partendo dall’ambito dei sentimenti, dello star male condiviso.

Giacometta Limentani. E’ l’ambito dei sentimenti che mi ferisce di più. Sono le espressioni delle persone, l’aggressività delle parole. E’ ovvio che sono ferita a morte, i morti mi terrorizzano, le crudeltà da una parte e dall’altra mi stravolgono; ho vissuto troppo da vicino cose simili per non essere sconvolta. Però ci sono cose in Israele, di un’importanza assoluta: l’associazione dei genitori che hanno perso i figli, israeliani e palestinesi; scuole dove bambini e genitori ebrei israeliani e palestinesi studiano insieme. Io credo che i palestinesi a Gaza stiano vivendo un momento tremendo; però non è che gli israeliani stanno nel paradiso terrestre, hanno anche loro i loro guai. Sere fa alla radio una critica cinematografica parlava del film “Il Giardino dei Limoni” [del regista israeliano Eran Riklis]. E diceva che si potrà cominciare a parlare di dialogo quando anche i palestinesi faranno un film simile sulle sofferenze degli israeliani.
Pupa Garribba. Io vivo più dall’interno le vicende israeliane perché ci vado spesso, ho una figlia che vive in Israele e dei nipoti che crescono in Israele. Negli ultimi tempi stanno verificandosi situazioni diverse. Mia figlia vive in un kibbutz pacifista, lei e i suoi amici sono quelli che riempivano le piazze per protestare contro le guerre ingiuste. E non mi sono stupita del fatto che a Tel Aviv ci sono state soltanto mille persone a manifestare. Perché non ce la fanno più. Sono assolutamente esausti. E’ impossibile continuare la vita con chi non ti riconosce e ti dice che non ti riconoscerà mai il diritto di avere uno stato. Io ho vissuto a Gerusalemme, tra il ’67 e il ’69; passavo molto tempo nei caffé di Gerusalemme Est con i palestinesi. Ci raccontavamo le rispettive storie, sembrava tutto possibile. Gli sbagli che hanno fatto i governi di Israele sono stati terribili, e gli sbagli che ha fatto l’autorità palestinese altrettanto. Però a questo punto la cosa che più mi preoccupa - ho un nipote di nove anni, bellissimo, delicatissimo, gli piace disegnare, gli piace la musica. Io penso che fra nove anni vestirà la divisa. E’ una cosa che mi tormenta. E mi domando come arriverà mio nipote a vestire la divisa, con quali traumi crescerà. Ho visto “Valzer con Bashir” e sono rimasta sconvolta, perché questi traumi li conosco bene. I ragazzi che hanno fatto le guerre del Libano o che sono stati a Gaza hanno dei traumi imperituri, non li cancelleranno mai. Mandano allo sbaraglio ragazzi di diciotto anni che rimangono segnati per il resto della vita, contro giovani di uguale età che rimarranno segnati per il resto della vita, e mi domando che razza di società ci sarà fra dieci anni, fra venti. Però mentre noi l’autoanalisi la facciamo, mi domando quanti cristiani maroniti, quelli che hanno sgozzato i tremila palestinesi di Sabra e Chatila, hanno dei sensi di colpa. E quanti palestinesi cercano di vedere dentro di sé e arrivare a un momento in cui finalmente ci si guarda negli occhi e si parla.
Voi dite: perché Israele dovrebbe fare quello che gli altri non sono disposti a fare? Però, proprio perché Israele ha uno spessore democratico – con tutti i limiti, come l’esclusione almeno per il momento dei partiti arabi dalle elezioni - io da Israele come da tutte le democrazie anche imperfette mi aspetto di più.
Limentani. C’è sempre l’ idea che l’ebreo non è come gli altri, e gli ebrei sono sempre ammazzati perché non sono come gli altri. Prendi Shylock [nel Mercante di Venezia ]: se un ebreo è ferito, non sanguina come gli altri? Siamo esseri umani, con le stesse pulsioni, le stesse necessità, vogliamo vivere in pace, vogliamo che i nostri figli siano considerati figli con diritto di vita. E lo stato d’Israele è fatto da ebrei, ebrei con delle storie agghiaccianti.
Garribba. Non si può chiedere una dose doppia di umanità ai cittadini israeliani; vorrebbe dire che i palestinesi sono umanamente inferiori, e questo non lo sopporto. Quando è scoppiata la guerra nel Libano i miei nipoti sono stati per sei giorni nei rifugi, poi dopo li hanno evacuati e per quarantasei giorni sono stati nel centro d’Israele lontano dai bombardamenti. Io mi sarei aspettata che i palestinesi di Gaza avessero preso i loro bambini e li avessero ammassati vicino alle frontiere, chiedendo alla Giordania e all’Egitto di prenderseli. Io questo mi sarei aspettata, perché io da loro mi aspetto molto.
Parlate dei traumi dei ragazzi israeliani; ma, avessero ragione o torto, non ne possono più neanche quelli della Cisgiordania, non solo Gaza.
Garribba. Completamente d’accordo.
Allora forse non ne possono più neanche loro, e mandano quattro missili.
Limentani. Il fatto che siano gli israeliani a sparare mi colpisce molto di più che se fosse chiunque altro. Lo sento fortissimo e credo che lo sentiamo tutti. Però non trovo giusto dire che siccome sparano sono nazisti. Come sopportare, che gli tirano i missili, continuamente, senza un attimo di pace – oggi c’è un’azione bellica, orrenda; però come ti viene in mente di mandare un kamikaze dentro un bar dove stanno facendo una festa di nozze? Questa non è politica, questo è orrore. E’ di questo che gli israeliani non ce la fanno più. Non ce la fai più, e reagisci.
Però non c’è proporzione, c’è un dislivello enorme di forze.
Limentani. Ma la forza materiale alla lunga non funziona, si ritorce contro chiunque la usi.
Garribba. Io ho vissuto la guerra del Kippur in un kibbutz a venti chilometri da Gaza, in un rifugio, con due bambine piccolissime, quindi ne ho un ricordo spaventoso. Visto che le due nazioni sono così strettamente intricate, se per otto anni tu mandi i missili – hanno calcolato 9300 missili in otto anni – quanto tempo pensi che possa andare avanti quella situazione? Fra l’altro, le città del Sud di Israele sono la parte più diseredata, città di sviluppo che non si sono mai sviluppate, dove la gente ha difficoltà a trovare lavoro, non ha soldi, e pensa che la colpa sia di questa guerra perenne per cui le risorse vanno agli armamenti invece che a loro, e quindi sono portati verso il nazionalismo, verso l’estremismo. I miei amici sono quelli che hanno provato orrore per la costruzione del muro, sono i miei amici; adesso mi dicono: da quando c’è il muro però gli attentati sono finiti. Io rispondo, se il muro fosse stato costruito sulla linea verde anch’io non avrei avuto niente da dire; ma non è stato costruito lì. E loro: forse non sarebbe bastato. E credimi, se mia figlia, che è una pacifista ad oltranza, che è andata in Israele partendo dai centri sociali, frequentava il centro sociale al Trullo, e in Israele ha trovato un kibbutz di sinistra dove esprimere il suo desiderio di uguaglianza – se mia figlia mi dice “non ce la facciamo più”, vuol dire che siamo a un punto di non ritorno. Sono rimasta sconvolta quando mia figlia mi ha detto questo. E’ una sconfitta terribile. Ma non possiamo dare la colpa soltanto a una parte dei contendenti. Finché Hamas non riconoscerà lo stato di Israele, ci sarà una tensione permanente, quelli spareranno da una parte, gli altri risponderanno dall’altra, e non ci sarà futuro. Io credo che l’unica maniera saggia sia quella di cercare di parlare con la Siria, che forse è pronta per un dialogo.
La questione dei territori, come la vivete voi?
Limentani. Io? Io restituisco tutto.
Garribba. Io pure restituisco tutto. Io sono andata volontaria in Israele per la guerra dei sei giorni, e mi hanno mandata a raccogliere mele in un kibbutz sotto il Golan, che allora era siriano e adesso è occupato: se da quelle alture butti un sasso, colpisci i tetti del kibbutz. Quindi mi sono resa conto di come hanno vissuto. Ma sarei prontissima a dare cinquemila Golan se ci fosse la pace con la Siria. Ma finché c’è questo rifiuto folle di riconoscere lo stato di Israele sarà sempre una ferita purulenta, che non riesce mai a guarire. Stamattina a “Prima Pagina” sentivo una signora, che non aveva un cognome ebraico, e diceva: sono sconvolta se penso a quando gli israeliani che si ritirano da Gaza trascinandosi dietro i coloni, e i palestinesi di Gaza che distruggono tutte le infrastrutture che hanno lasciato gli isreaelini. Restituiamo, gli diamo tutto, ce ne andiamo: ma che uso ne faranno? La sfiducia, lo sconvolgimento è totale. C’è un sacco di gente che continua a dire Hamas vincerà; io credo che più passa il tempo e più Israele si irrigidisce.
Limentani. Piazza Duomo mi ha terrorizzato. Loro possono pregare dove gli pare, però una piazza Duomo coperta di musulmani che pregano così e ogni tanto bruciano una bandiera, ero esterrefatta.
Garribba. Io ho mandato a tutti la lettera di Manuela Cartosio che è uscita sul manifesto. Sono andata alla manifestazione di Roma: se è una manifestazione equidistante, non è giusto che ci fosse gente con la kefia; se veniva qualcuno con un foulard con la stella di David l’avrebbero considerata una provocazione. Vendevano le sciarpe multicolori della pace; ero disposta a comprarle io e a darle perché si mettessero nella borsa la kefia e si mettessero la sciarpa della pace. E non c’è stato un solo slogan, un solo manifesto per la popolazione. Era tutto Hamas. Credimi, io non ho accettato l’idea che non abbiano portati via i bambini dalle zone di guerra.
Il problema non sono solo i bambini – oggi il fatto è che non esistono i crimini di guerra:da quando esistono i bombardamenti, non c’è più guerra che non sia un crimine in sé.
Limentani. E’ vero.
Garribba. Però io credo che l’opinione pubblica mondiale invece di parteggiare per l’uno o per l’altro dovrebbe dire basta, non ne possiamo più, la dovete smettere.
Come vedete le posizioni della comunità ebraica?
Garribba. Mi ha colpito che avessero stanziato trecentomila euro di medicinali da dare due terzi ai bambini di Gaza e un terzo ai bambini di Sderoth – ne hanno bisogno anche loro, perché queste cittadine di sviluppo sono poverissime. Una parte della comunità ebraica l’ha vista come un cedimento nei confronti dei palestinesi; io l’ho considerata un fatto molto rilevante. Ma adesso nella comunità c’è paura. Quando senti certe cose sui negozi degli ebrei di Roma, vengono alla mente dei ricordi terribili. La paura sta montando. Hai voglia di dire che sono frange – sono frange di destra e di sinistra che si stanno alleando. E’ come se ti sentissi in una tenaglia. Questo è quello che prova la gente che ha avuto queste esperienze. Le liste di proscrizione sono una cosa terribile, ci stanno riportando indietro di settant’anni. Come facciamo a rimanere insensibili a queste cose? E come fa mia figlia a rimanere insensibile, a non cedere alla tensione, all’angoscia, alla stanchezza? Lei ha organizzato l’esodo dei bambini del kibbutz per 46 giorni. Durante i week end li riportavano in kibbutz perché vedessero i papà e non perdessero i contatti. Mio nipote, dopo la seconda volta, non ci voleva più andare; aveva il terrore delle cannonate. Lui ha sentito le cannonate per qualche giorno; pensa ai bambini palestinesi. Allora dico: se noi che abbiamo la possibilità di fare dei ragionamenti a freddo perché le cannonate le sentiamo a distanza, parteggiamo per uno o per l’altro, vuol dire che non siamo più degli esseri umani.
Ma questo ti posso dire: in Israele è come se ogni soldato che è ferito o che muore, è come se lo conoscessi personalmente, perché con sette milioni di abitanti, magari è il figlio o il nipote di qualcuno che conosco, e quindi per me è una cosa terribile. E ogni soldato che viene mandato al fronte è uno strazio per tutti. Io non so se Israele ha usato o no le bombe al fosforo; oggi che hanno mandati i riservisti, vuol dire che lo stesso Israele non sa più che cosa fare.
Limentani. Le avete viste le facce dei soldatini israeliani, sconvolti, terrorizzati, fuori di sé?
Io da uno che è sconvolto, terrorizzato, fuori di sé io mi aspetto qualunque cosa.
Garribba. Ma questo è il rischio. All’inizio del “Valzer con Bashir”, c’è una muta di cani, ferocissimi, che sembra che ti vengano a sbranare. E’ un sogno ricorrente di un compagno d’armi del regista, che una notte va a casa sua e gli racconta, aveva 18 anni, era un soldato di leva, e il suo compito era entrare nei villaggi arabi di notte e ammazzare i cani che potevano abbaiare e svegliare i combattenti. Ne ha ammazzati ventisei, e tutte le notti gli venivano contro. Questi sono i risultati delle guerra. Da una parte e dall’altra. Io non ci dormo la notte.

L'autobiogafia di Olaudah Equiano: alle origini della letteratura africana

il manifesto 13.1.2009

L’incredibile storia di Ouladah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’Africano, pubblicata in Inghilterra nel 1789, è un libro a cui mettono mano tre continenti: l’Africa in cui nasce il protagonista e da cui viene deportato come schiavo; i Caraibi e il Nord America, dove vive il tempo della sua servitù (e dove tornerà, liberato, come marinaio e come commerciante); l’Inghilterra, dove vive i suoi primi anni di schiavo e dove si stabilisce negli ultimi anni della sua vita di uomo libero e attivista della causa antischiavista. Se uno cercava un soggetto della globalizzazione ante litteram, ce l’avevamo sotto mano da due secoli e mezzo, ma, come spesso accade ai grandi libri non canonici, è stato a lungo dimenticato e, in Italia, viene tradotto solo oggi (peraltro, accuratamente e affettuosamente), per merito di Giuliana Schiavi, delle edizioni Epoché, e del progetto Slave Route dell’Unesco (solo un paio di capitoli erano stati pubblicati in italiano nel 1999 anni fa, in Libri parlanti. Scritture afro-atlantiche, a cura di un gruppo di studio dell’università La Sapienza).
Il protagonista del libro nasce in Africa, viene catturato ancora bambino nell’ambito di una guerra locale e venduto schiavo a una nave negriera inglese. Il percorso dal suo luogo di nascita nell’interno fino alla costa è l’inizio di uno sradicamento linguistico e culturale, in cui la schiavitù africana come forma di servitù domestica familiare si trasforma gradualmente nella schiavitù euro-americana come riduzione della vittima a uno stato di umanità negata. L’arrivo sulla costa è uno di quei momenti narrativi che dovrebbero far parte del bagaglio di tutti noi: è la prima narrazione scritta in cui noi “bianchi” europei veniamo guardati con lo stupore e il terrore dell’africano prigioniero. Equiano bambino si sente trasportato in ”un mondo di spiriti maligni” e si domanda “se non saremmo stati mangiati da quegli uomini bianchi dall’aspetto terrificante, con la faccia rossa e i capelli sciolti”. Non è solo il rovesciamento dell’etnocentrismo – sono gli europei a sembrare mostruosi e cannibali – ma anche la fondazione di tutta una tradizione afro-americana in cui noi bianchi, con la nostra pelle diafana, appariamo come spiriti e fantasmi (fino agli “uomini senza pelle” della nave negriera di Amatissima di Toni Morrison, che questo libro lo conosce bene).
Stupore e terrore sono le tonalità del viaggio di Equiano sulla nave negriera – da un lato, gli orrori del trasporto, l’ammassamento nella stiva, il fetore, le frustate, i morti gettati in mare. Dall’altro, le domande sulla “magia” europea che fa muovere la nave, lo spettacolo dei pesci e degli uccelli sconosciuti che accendono la fantasia feconda dell’involontario viaggiatore. In Inghilterra, Equiano, in omaggio a un sarcastico uso di dare agli schiavi nomi altisonanti di grandi uomini )e cancellare il loro nome africano), gli viene imposto il nome del re guerriero di Svezia, Gustavus Vassa. A seguito del suo padrone si imbarca sulle navi che combattono le guerre anglo-francesi, e a mano a mano si familiarizza con questo nuovo mondo, scopre che gli europei non sono maghi ma esseri umani con conoscenze che la sua società d’origine non possiede, e comincia a considerarsi “quasi” un inglese. Ovviamente, tutto sta in quel “quasi”: è ancora schiavo, non è bianco, e non ha ancora accesso a quelle conoscenze (e d’altronde, lo dice fin dal titolo, dove l’attributo The African figura accanto al suo nome, e dalla prima pagina: “se mi ritenessi un europeo potrei affermare che i miei patimenti furono grandi”, ma nonostante tutto non lo è diventato del tutto, e allora rispetto a tanti altri suoi connazionali le cui voci non sentiremo mai può dirsi fortunato).
Un paio di episodi sono destinati a restare canonici in tutta la narrativa afroamericana e afroeuropea. Il primo è quando Equiano si accorge che la faccia di una bambina sua coetanea, lavandola, diventa rosea; si affanna a cercare di fare lo stesso ma il nero della sua pelle non va via (un episodio analogo apre, per esempio, l’autobiografia afro-franco-italiana di Nassera Chohra (Volevo diventare bianca, 1993). Il secondo è quando si accorge che i libri “parlano” al suo padrone; cerca di farli parlare anche a sé, o di metterci dentro la sua voce, ma il libro non gli risponde. Per il critico afroamericamo Henry Louis Gates, Jr., questa è la metafora fondante di tutta la letteratura afroamericana, che ritroviamo in tutte le autobiografie di ex schiavi della stessa epoca: l’incontro non paritario fra la voce della cultura orale africana e la scrittura della cultura europea (e la storia rinvia ancora più indietro, all’incontro fra Pizarro e l’Inca Atahualpa: quando questi getta a terra la Bibbia, dicendo che il libro “non gli dice niente”, gli spagnoli approfittano del “sacrilegio” per saltargli addosso e farlo prigioniero, dando inizio così alla colonizzazione dell’America meridionale).
La figura del “libro parlante” sta alla base di tutto questo libro: non a caso, il titolo originale comprende anche la clausola Written by Himself, scritta da se stesso. Come tutte le grandi autobiografie afroamericane, questa è anche la storia delle condizioni della sua stessa scrittura: come il deportato ha saputo africano impadronirsi degli strumenti culturali dei suoi padroni fino a prendere lui stesso la parola in-scrivendosi in quell’universo delle lettere da cui (come ricorda Gates) i grandi filosofi dell’illuminismo – da Hume a Kant a Hegel – sostenevano che gli africani fossero ontologicamente incapaci di accedere. Ed è anche l’inizio di un processo di liberazione e trasformazione in cui Equiano mette insieme quanto basta a comprarsi la libertà, torna in Inghilterra, si battezza nella chiesa metodista, studia matematica e musica, lavora in navi mercantili (anche, brevemente, commerciando schiavi), impianta una piantagione in Nicaragua, si impegna nella causa dell’abolizione del commercio degli schiavi – e scrive questo memorabile libro.
Ma questa non è solo un’avventurosa storia di liberazione personale – non a caso, e a differenza da quasi tutte le altre autobiografie di ex schiavi, il libro non finisce con l’emancipazione ma continua con la sua storia da uomo libero. Scritto fra la rivoluzione americana e la rivoluzione francese, nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, il libro di Equiano – merce che si fa mercante - è anche un sorprendente documento delle grandi rivoluzioni borghesi del diciottesimo secolo. Addetto ai commerci del suo padrone, Equiano può fare piccoli traffici per conto suo, che gli permetteranno di accumulare la somma necessaria a comprarsi la libertà. Ma in più di un’occasione si accorge che la sua condizione di schiavo interferisce col commercio: come altri suoi contemporanei (per tutti, Venture Smith, che scrive in Nord America qualche anno prima), si accorge che i bianchi possono costringerlo ad accettare moneta falsa, rubargli la merce, non rispettare i patti, senza che lui abbia strumenti legali per difendersi. La mancanza di eguaglianza giuridica fra i contraenti, insomma, interferisce sulla certezza dei contratti: è un vero e proprio apologo che spiega che cosa veramente significa l’odierno vangelo liberista della relazione fra capitalismo e democrazia.
La grande trasgressione di Equiano infatti consiste nel fatto che questo schiavo non pensa come vuole il padrone, ma pensa come il padrone, e in questo modo afferma, rivendica e cerca la propria parità di diritti. Se uno legge i capitoli iniziali in cui Equiano descrive i costumi del suo paese d’origine in parallelo con certi passi dell’autobiografia di Benjamin Franklin, si accorge che le virtù che Equiano attribuisce agli africani sono sostanzialmente le stesse virtù di sobrietà, moderazione, castità, risparmio che Franklin cerca di interiorizzare per costruirsi come soggetto rivoluzionario borghese. Equiano non poteva conoscere il libro di Franklin che fu sì stato scritto negli stessi anni di Equiano, ma non sarà pubblicato che dopo il 1860; quindi la somiglianza fra questi due self-made men è un segno straordinario dello spirito del loro tempo e della costruzione della nuova identità morale rivoluzionaria borghese.
Equiano conclude con uno straordinario passo che anticipa il passaggio dalla schiavitù al neocolonialismo, e intuisce certe idee pre-keynesiane sull’economia dell’offerta. La fine del commercio di schiavi, suggerisce, converrà ai grandi interessi industriali della nostra Inghilterra. Quando si accorgeranno che invece di usare l’Africa come cava di manodopera si guadagnerà di più vestendo gli ignudi africani (all’uopo “civilizzati” e cristianizzati) con i prodotti dell’industria tessile di Manchester, il turpe mercato avrà fine. Certo, aggiunge con un sarcasmo degno del suo contemporaneo Jonathan Swift, alcuni settori dell’economia saranno danneggiati: in particolare, i fabbricanti di “gioghi, collari, catene, manette, ceppi, ruote, schiacciapollici, museruole di ferro e bare, sferze, staffili e altri strumenti di tortura usati nel commercio degli schiavi”.
Ho una sola perplessità rispetto a questa benvenuta e ben fatta traduzione. La curatrice scrive nella breve postfazione che un apparato critico lo avrebbe ridotto a un “reperto letterario” e “museale”, mentre leggerlo senza alcun corredo “restituisce voce e attualità” a questo “frammento della nostra storia umana”. Anche se la traduzione arriva solo adesso, tuttavia su Equiano, non solo in Inghilterra, Stati Uniti e Africa, ma anche in Italia, esistono almeno trent’anni di studi tutt’altro che museali. Farci in qualche modo i conti avrebbe potuto aiutare. Per esempio, in questa edizione si dà per scontato che la vita di Equiano sia andata esattamente come lui ce la racconta. Ma sulle autobiografia è sempre bene stare in guardia. Un documentatissimo libro di Peter Carretta (Equiano, the African: Biography of a Self-Made Man, 2005) sostiene, per esempio, che Equiano non era affatto nato in Africa: esistono registri in cui c’è scritto che era nato in South Carolina, in Maryland; e praticamente tutto quello che lui dice sull’Africa era desumibile dalle pubblicazioni coeve degli esploratori europei. Io su questa tesi ho ancora dei dubbi, ma certo non la possiamo ignorare. Perché se così fosse, allora non si tratterebbe solo di una “testimonianza”, livello a cui viene sistematicamente ridotto il lavoro narrativo dei subalterni (anche un paio dei primi romanzi scritti da immigrati in Italia sono stati pubblicati come autobiografie: ai subalterni non si riconosce il diritto a immaginare), ma di un’opera in cui esperienza, ricerca, immaginazione si intrecciano, anticipando sotterraneamente anche la nascita di quel romanzo afro-americano-europeo che non sarebbe emersa prima di un altro mezzo secolo. Insomma: il titolo originale era The Interesting Narrative; la traduzione si intitola L’incredibile storia. Con i sinceri e dovuti ringraziamenti a chi l’ha fatta e a chi l’ha resa possibile, credo che offrire un po’ di strumenti ulteriori di lettura forse avrebbe aiutato il lettore a trovare questa storia meno incredibile, e ancora più interessante.

06 gennaio 2009

Caso Morucci e 300 piccoli criminali

il manifesto, 6.1.2008

Così, la Sapienza, la maggiore università italiana, “è ostaggio di trecento piccoli criminali”: lo annuncia con tutta la sua autorità il sindaco di Roma Alemanno, e lo diffonde, con le necessarie virgolette, in prima pagina e titolo a sei colonne all’interno, il più autorevole giornale di centrosinistra; gli fanno eco giornali radio e servizievoli rassegne stampa suscitando il giusto allarme nella pubblica opinione, telefonate scandalizzate di ascoltatori e interventi preoccupati in forum sulla rete. Il tutto a seguito del peraltro non avvenuto incontro fra l’ex brigatista Morucci e un gruppo di studenti del dipartimento di anglistica della mia facoltà sponsorizzato dal mio collega e compagno di stanza Giorgio Mariani.
Ho seguito la cosa fin dall’inizio, quindi vorrei intanto raccontare per diretta conoscenza come sono andate le cose. Mariani è stato avvicinato da un funzionario dell’antiterrorismo (di cui è disponibile e a conoscenza delle autorità nome, cognome e funzione), che nell’ambito delle sue responsabilità gli ha chiesto di far incontrare Morucci con alcuni studenti della facoltà. Mariani ha commesso l’errore di fidarsi. Stava tenendo un corso sul tema del rapporto fra violenza e memoria, quindi la testimonianza di un brigatista pentito poteva avere senso; ha sottoposto la cosa agli studenti del corso che si sono detti interessati. Quando me ne parlò la cosa era già decisa; mi parve problematica e discutibile (anche dato il personaggio in questione); tuttavia fui d’accordo che la fonte da cui veniva la richiesta, la presenza prevista di esponenti delle forze dell’ordine, il fatto che si sarebbe trattato solo di un incontro informale con un gruppo ristretto di studenti e dottorandi (e non di una “lezione” e tanto meno di una “conferenza” pubblica, come hanno disinformato i giornali) e che non ne sarebbe stata data notizia al di fuori dei diretti partecipanti, potevano renderla indolore. D’altra parte, Morucci aveva già parlato molto più pubblicamente, accompagnato dalla polizia nonché da Antonello Venditti e da Giulio Andreotti, in diverse situazioni, tra cui recentemente il liceo Giulio Cesare, e non era successo niente né alcuno aveva menato scandalo.
Poi Mariani ha ritenuto corretto informarne comunque il dipartimento, e qualcuno dei colleghi ha preso la palla al balzo e ha passato tutto, compresi i messaggi e mail interni, alla stampa – che a sua volta reagisce pavlovianamente alla figura del “brigatista in cattedra” e non ritiene necessario fare il proprio mestiere, informandosi prima di sparare titolacci. Così un evento destinato a restare fra quattro mura e chiudersi in due ore si è trasformato in un caso nazionale e una saga di cui non si vede la fine. Il rettore Frati ne ha approfittato per tirare in ballo la storia della visita del Papa e fare i conti con quella parte dei docenti che non hanno votato per lui (ricordiamocelo: nessuno ha “impedito al Papa di parlare”, è stato lui a rinunciare quando ha saputo che non tutti erano d’accordo che aprisse lui l’anno accademico). E Alemanno ne approfitta per proclamare che la Sapienza è peggio del clan dei casalesi e annunciare che “dobbiamo liberarci” dei “piccoli criminali” e che “ci sono dei cambiamenti culturali da fare” – cioè: bisogna ripulire l’università dei docenti non di destra e garantire che l’insegnamento sia conforme all’ordine vigente.
Lo scandalo Morucci, con tutte le sue ambiguità e gli errori, ha molto poco a che fare con l’ostracismo ai brigatisti e con il rispetto delle vittime. E’ solo una scusa per attaccare ben altri obbiettivi. Il primo, naturalmente, sono la sinistra e i laici, rei di stare in minoranza, di non inginocchiarsi davanti a questo Papa, di non venerare il libero mercato e magari di sentirsi ancora antifascisti. Il secondo è il movimento degli studenti: di tutto si parla meno che delle questioni che il movimento sta sollevando, in modo da non dover dare risposte a una domanda sociale che cresce (ricordiamo come la stessa figura del “brigatista in cattedra” fu usata, allo stesso modo disinformato e strumentale, contro la Pantera?). Il terzo è l’università pubblica nel suo complesso: anche per questo nessuno ha fiatato quando Morucci è andato al Giulio Cesare o in altre situazioni pubbliche, e lo scandalo scoppia adesso all’Università.
Oggi, e non solo da destra, l’università pubblica è rappresentata solo come corruzione, nepotismo, degrado, spreco, fallimento e brigatisti in cattedra: tutte armi in mano a un governo che la sta distruggendo a favore di improbabili fondazioni e di alternative private. Ora, uno si aspetterebbe da questa istituzione uno scatto di orgoglio; e non basta l’ammirevole e solitario intervento di Umberto Eco qualche giorno fa sul manifesto. Il problema è che corruzione e nepotismo non saranno la regola assoluta, ma certo sono deviazioni sempre più diffuse, sfacciate, e dilaganti: basta ricordare quello che proprio Repubblica scrisse, mai smentita, il giorno prima che il nostro corpo docente eleggesse a grande maggioranza Frati rettore. Quelli che dovrebbero condurre il ripulisti e i “cambiamenti culturali” auspicati da Alemanno sono proprio i responsabili e i profittatori di questa situazione. Infatti all’università una parte sana c’è, e sospetto che sia rappresentata in buona parte proprio da quei trecento “piccoli criminali” di cui ci dovremmo sbarazzare. Parafrasando Amleto: l’università è fuori sesto; possibile che spetti proprio a noi refrattari il compito di rimetterla a posto?