19 marzo 2012

Materia fuori posto: Killer di razza a Tolosa

il manifesto 20.3.2012

E’ successo in Francia, è successo in Afghanistan, è successo in Norvegia, ed è successo in Italia: la paranoia della guerra e la paranoia della crisi armano mani omicide che vanno a colpire capri espiatori immaginari e innocenti – bambini (e un adulto) ebrei, donne e bambini afgani, ragazzi socialisti norvegesi, ambulanti senegalesi. E la mano che ha ucciso il rabbino e i tre bambini a Tolosa è probabilmente la stessa – forse quella di un ex militare neonazista - che ha ucciso in questi stessi giorni tre soldati, neri e musulmani colpevoli di indossare e quindi contaminare la preziosa uniforme della patria francese.
La paranoia razzista è ossessionata dall’idea della purezza, dell’identità immutabile e assoluta. L’antropologa Mary Douglas parlava dell’ossessione dell’”impurità” come “materia fuori posto”, e materia fuori posto sembrano oggi i migranti in Europa, e da sempre gli ebrei. Aggiungerei che agli occhi degli armati occidentali in Afghanistan e in Irak (e anche il reparto da cui era stato espulso il probabile assassino degli ebrei e dei neri di Tolosa era stato laggiù) sono materia fuori posto i civili, materia d’intralcio colpevole di essere lì, di non amarli, e di ingombrare le operazioni militari (come erano materia fuori posto gli abitanti di Civitella Val di Chiana o di Caiazzo o del Padule di Fucecchio, massacrati dai nazisti per farsi intorno terra bruciata).
In Furore di Steinbeck – romanzo di un’altra crisi – un contadino espropriato dalle banche cerca di capire chi è stato a portargli via la terra, e si accorge che sono poteri impersonali, senza volto. “A chi possiamo sparare?” si chiede, desolato. I razzisti, gli antisemiti, i neonazisti di oggi a chi sparare lo sanno benissimo – non alle banche senza nome, ma a persone in carne e ossa, che inquinano la purezza etnica e religiosa e che oggi ancor più di sempre sono additate come la causa di tutti i mali – il “complotto ebraico”, i migranti che “portano via il lavoro”, i rom che “sono nomadi, e allora continuino a migrare e vadano via di qui” – e nell’onda ormai lunga dei femminicidi nostrani, ci metterei le donne che non vogliono stare “al loro posto”.
Nel caso di Tolosa, l’identità dei tre militari uccisi – neri e musulmani – era parsa irrilevante e non ne aveva parlato quasi nessuno. E’ solo con la strage antisemita venuta dopo che si è colta la dimensione razzista di quegli omicidi: prima i musulmani poi gli ebrei, a conferma del fatto che l’odio verso gli ebrei è infine la sintesi di tutte queste paranoie, di tutte queste ossessioni, e che non c’è razzismo che non finisca per diventare antisemitismo. Per questo, il rabbino e i tre bambini ebrei di Tolosa sono in primo luogo vittime che appartengono a un popolo, a una storia, a una religione e una discendenza specifiche e molte volte ferite; ma sono poi anche la sintesi di un orrore universale, scatenato e legittimato da opportunismi colpevoli e ormai, a quanto pare, fuori controllo.

06 marzo 2012

Bruce Springsteen: Wrecking Ball

Nei suoi momenti migliori, Bruce Springsteen ha saputo esprimere lo spirito radicale dei tempi. The Rising dava voce ai sentimenti del dopo-11 settembre; Wrecking Ball è il disco della Grande Crisi del terzo millennio, la crisi che ha distrutto le città e i rapporti sociali senza bisogno di bombe e cannoni, semplicemente con le armi della speculazione d’azzardo e del capitale finanziario: “Ci hanno distrutto le famiglie, le fabbriche, e ci hanno preso la casa; hanno abbandonato i nostri corpi sulla pianura, gli avvoltoi ci hanno beccato le ossa” (Death Comes to My Town).
La metafora portante, introdotta dalla prima canzone, We Take Care of Our Own, è New Orleans e l’uragano Katrina: la crisi attuale è come il momento terribile in cui i rifugiati dall’uragano erano ammassati del Superdome (il grande palazzo dello sport di New Orleans), lasciati a se stessi, senza soccorsi. Ci sono state violenza e morti, ma alla fine per sopravvivere hanno dovuto trovare un modo di stare insieme e di cavarsela da soli (non è semplice tradurre we take care of our own. Ce la caviamo da soli, ci aiutiamo fra noi, insieme ce la faremo… ). Come a New Orleans nell’uragano, è inutile aspettare che venga qualcuno a salvarci – non c’è nessun “arrivano i nostri”: “la cavalleria è rimasta a casa, non si sentono squilli di trombe”. Non dobbiamo contare che sulle nostre forze.
“Certe volte il domani arriva intriso di tesoro e di sangue; siamo sopravvissuti alla siccità, adesso soprivveremo all’alluvione; so fare tutti i mestieri, ce la caveremo” (Jack of All Trades). La capacità di risollevarsi dalle crisi e dalle catastrofi contando sulle proprie forze è un grande tema americano che affonda nella letteratura, nel cinema, nella letteratura degli anni ’30 e della Grande Depressione. Da Furore di Steinbeck e John Ford alle Dustbowl Ballads di Woody Guthrie (Springsteen ha dedicato un disco a Tom Joad, protagonista di Furore; e Jack of All Trades è intrisa di riferimenti a Guthrie) fino a Via col Vento di Margaret Mitchell e Victor Fleming, le tempeste di polvere, le alluvioni, persino la Guerra Civile sono tutte metafore di catastrofi che sfidano la nostra sopravvivenza. E’ un immaginario condiviso, a sinistra in termini di solidarietà (Steinbeck, Guthrie) come a destra in termini di egoismo (“dovessi rubare o uccidere, non avrò fame mai più: Scarlet O’Hara in Via col Vento). Ma proprio questa ambiguità permette a chi lo evoca di parlare a tutti, non solo a chi è già d’accordo, e magari di spostare qualche sensibilità, proporre altri significati.
Negli Stati Uniti infatti il conflitto culturale e politico non avviene fra sistemi simbolici contrapposti, ma sul significato di simboli condivisi – chi decide che cosa significano la patria, la religione, la bandiera, la libertà, e a chi appartengono? Bruce Springsteen questo lo ha capito fin da Born in the USA , e qui lo sviluppa dando a questa narrativa condivisa e contesa una declinazione democratica, progressista, direi anche di classe: quello che ci permetterà di uscire dalla crisi di oggi non sarà la guerra di tutti contro tutti (come nei primi momenti del Superdome) ma la capacità di riconoscerci come simili, la solidarietà, la visione del futuro. La bandiera, pure subito evocata, non è il simbolo che ci separa dagli altri, ma quello che ci unisce fra noi – e infatti sta insieme ad altri simboli: il lavoro, la pala piantata nella terra (“la figlia della libertà è una camicia sudata”); la memoria, la catena che legava fra loro gli schiavi e i forzati, che li opprimeva e li univa (Shackled and Drawn); la socialità proletaria del baseball e della birra (Wrecking Ball).
La risorsa su cui contare dunque è una cultura operaia fatta di lavoro, di comunità, di fede e di affetti – altri simboli condivisi e contesi in un’ambiguità tutta da sciogliere. Nella contorta America degli ultimi quarant’anni, certi simboli proletari hanno preso un giro di destra, contrapponendo la virtù della laboriosità operaia alla presunta fannullaggine degli hippies, dei neri e degli immigrati, che vivrebbero di sussidi e di welfare (e guarda caso, il lavoro è uno degli immensi silenzi della controcultura e di quasi tutto il rock). Persino la frase chiave – we take care of our own – si potrebbe leggere in questo modo: ci occupiamo noi della gente nostra, e gli altri vadano al diavolo.
E invece Bruce Springsteen spiega che tutte queste cose significano esattamente il contrario. Uno dei brani più sorprendenti, We Are Alive, ha anch'esso ha a che fare con New Orleans, luogo per eccellenza del gotico, dei vampiri e del voodoo (dal Bacio della pantera a Intervista col Vampiro). Springsteen sguazza in questa tradizione, per capovolgerne il senso: quelli che dalle tombe nel gotico cimitero notturno ci gridano “siamo vivi” non sono vampiri, ma sono gli spiriti e le anime dei migranti morti abbandonati nel deserto dell’Arizona, delle bambine nere uccise da una bomba razzista a Birmingham, Alabama nel 1963, e degli operai che nel 1877 diedero vita al primo sciopero generale della storia americana. I primi due sono riferimenti abbastanza canonici; ma il terzo è sorprendente: la storia del movimento operaio, il grande sciopero insurrezionale del 1877, sono cancellati dai libri di scuola e dal discorso pubblico. Per saperne qualcosa bisogna aver letto, se non Sciopero di Jeremy Brecher, almeno Storia del popolo americano di Howard Zinn.
Ora, quello che continua a stupire in Bruce Springsteen, arrivato ormai a sessant’anni, è la sua inesauribile capacità di imparare. Mi ricordo il modo in cui spiegava This Land Is Your Land – “ho letto un libro…” Quanti sono i rocchettari che parlano di libri dal palco dei concerti? Metà di The Ghost of Tom Joad viene da un altro libro, e l’altra metà viene da un film tratto da un libro. In questo disco, Springsteen intreccia la conoscenza della storia sociale con quella di tutta la tradizione musicale americana. Per Rocky Ground si ispira a un brano del Sacred Harp (una forma arcaica di polifonia sacra ancora diffusa nel Sud), e lo campiona da una registrazione sul campo di Alan Lomax negli anni ’50; usa i suoni delle canzoni antimilitariste irlandesi per denunciare la guerra senz’armi e pure mortale di speculatori e banchieri; richiama continuamente Woody Guthrie (“i giocatori d’azzardo ingrassano, i lavoratori sono sempre più smunti” è una citazione diretta; in American Land, la figura dei migranti morti nelle fabbriche e nei campi e dei loro nomi perduti viene da Deportee, una canzone di Guthrie che anche lui ha inciso). Land of Hopes and Dreams (recuperata anche in omaggio al sax dell'insostituibile Clarence Clemmons) riscrive e rovescia una canzone gospel amata da Guthrie come da Big Bill Broonzy – this train… Loro dicevano: “questo treno non porta giocatori d’azzardo, non porta puttane…” E lui invece: “questo treno porta puttane, porta giocatori, porta vincitori e perdenti”. Sul treno di Bruce c’è posto per tutti. Questa è la sua gente, our own.
Soprattutto, American Land (bonus track nell’edizione speciale). Anche qui, si passa per le Seeger Sessions: è una canzone di immigrazione slovacca di inizio secolo, che Pete Seeger ha tradotto e inciso mezzo secolo fa. Springsteen riprende la prima strofa – “che cos’è quest’America, perché tutti ci vanno? Ci andrò anch’io finché sono giovane, ci ritroveremo laggiù nella terra americana”. La canzone tradizionale finiva in tragedia – quando lei finalmente lo raggiunge, trova che è morto in fabbrica e nella terra americana lo possono solo seppellire. Springsteen allarga il discorso: gli immigrati immaginano un terra coi diamanti nelle strade e la birra che esce dai rubinetti, ma dopo che si sono ammazzati per costruirla con le loro mani l'America continua a reprimerli e ignorarli. Questa gente ha cognomi greci, irlandesi, slavi, italiani – e il cognome italiano che cita è Zerilli, il cognome di sua madre. Ecco chi è our own per Bruce Springsteen: i migranti come i suoi nonni, gli operai come suo padre. La storia che continua a imparare è la sua.
Questo però non è un saggio storico o politico – è rock and roll. Ma fino dagli inizi della sua carriera, Springsteen ha trattato il rock and roll come musica tradizionale, folk music del nostro tempo, eredità culturale della sua generazione e della sua classe. Anche per questo -, come sempre è avvenuto nella storia del rock and roll, ibvrido di blues, gospel, country, bluegrass, pop – è capace di integrarci dentro tutta la storia in musica del popolo americano, dal Sacred Harp a Woody Gutrhrie, dal blues e gospel alle canzoni dei migranti. We take care of our own significa anche questo: non ci dimentichiamo di quello che è nostro, perché è grazie a questo che we are alive, siamo vivi nonostante tutto.