16 settembre 2011

Controcanto a fumetti alla storia americana

il manifesto 16.9.2011

La Storia popolare dell’impero americano di Howad Zinn, Mik Konopacki, Paul Buhle (Hazard Edizioni – il manifesto, 2011, 285 pagg., 10 euro) è un libro di storia con tutti i crismi – bibliografia, indice analitico, riferimenti alle fonti, eccetera. E’ anche la biografia intellettuale e morale di una grande figura di intellettuale militante come Howard Zinn, la cui storia personale e le cui riflessioni sul rapporto fra storia e contemporaneità si intrecciano lungo tutto il libro alla ricostruzione degli eventi storici. E poi, è un libro a fumetti: cioè, con tutti i suoi requisiti “accademici” a posto, tuttavia questa storia la racconta ai non specialisti, la fa uscire fuori del recinto autoreferenziale in cui spesso si rinchiude il discorso storiografico, anche a sinistra.
Non c’è bisogno ormai di insistere che un libro a fumetti non è meno serio di qualunque altra cosa. Se ce ne fosse stato bisogno, questo è un esempio straordinario: aggiunge all’informazione fattuale, alle notizie e al commento storico-politico, la forza di un’immaginazione visuale che intreccia immagini\simbolo stilizzate (il grasso capitalista col cappello a cilindro, lo zio Sam a stelle e strisce) con la precisa ricostruzione delle fisionomie dei protagonisti ed è al suo meglio nelle immagini di sfondo, nel contesto spaziale in cui le persone e gli eventi si svolgono; recupera la grande tradizione della grafica rivoluzionaria e militante del movimento operaio americano, compresa la funzione centrale dell’umorismo. Non a caso, fra gli autori\curatori figura uno storico come Paul Buhle, che da sempre lavora proprio sull’uso dell’umorismo, della grafica, dell’ironia nella storia dei movimenti di opposizione americani; e che la grafica di Mike Kopacki riprende (per esempio, con le immagini stereotipe tradizionali del grasso capitalista col cappello a cilindro e dello zio Sam a stelle e strisce) arricchendola con una tecnica di collage che intreccia i pannelli dei cartoon con fotografie, ritagli di giornale, immagini d’epoca: in questo modo, la funzione documentaria e l’effetto grafico si rinforzano a vicenda.
Il libro parte e finisce con una riflessione di Zinn sull’11 settembre, il che ne rende particolarmente tempestiva la pubblicazione. La prima immagine mostra lo storico al suo tavolo di lavoro si copre il viso con le mani per la disperazione, sullo sfondo dell’immagine dell’aereo che punta le torri: “Possiamo provare una terribile rabbia verso coloro che, nell’insana idea di aiutare con ciò la propria causa, hanno ucciso migliaia di persone innocenti. Ma cosa ce ne facciamo di questa rabbia? Come dobbiamo reagire? Ci facciamo prendere dal panico e colpiamo violentemente alla cieca, per dimostrare quanto siamo duri?” Zinn risponde facendo il suo mestiere, di ricercatore e di insegnante, e torna indietro mettendo in fila per i suoi ascoltatori\lettori la storia di tutti quei momenti in cui gli interessi del capitale hanno indotto gli Stati Uniti a massacrare e reprimere la resistenza e l’opposizione interna, dagli indiani ai pacifisti, o ad espandere senza scrupoli il proprio potere globale – “cent’anni di terrorismo e antiterrorismo, di violenza che chiama violenza, in un ciclo senza fine di stupidità” che culmina con l’Afganistan e l’Irak. Da Wounded Knee al colpo di stato in Iran nel 1952, dai grandi scioperi ferroviari di fine ‘800, dalle imprese coloniali a Cuba e nelle Filippine, nate con la pretesa di esportare la democrazia, alla repressione violenta dell’opposizione alla prima guerra mondiale, da Hiroshima al Vietnam, Zinn, Konopacki e Buhle tracciano le origini di una politica di potenza al servizio diretto del capitale, in spregio ad ogni forma di legalità interna e internazionale, che fonda le disastrose pretese del “nuovo ordine mondiale” di fine ‘900. Ma non dimentica di ricordare che tutto questo non avviene negli Stati uniti senza un’opposizione – dal movimento operaio (e spero che il libro serva a far conoscere a tanti di noi la figura stupenda di Eugene Debs) alle lotte per il suffragio delle donne, alle lotte per i diritti civili, alla cultura nera e chicana dello zoot suit e del be-bop, all’opposizione alla guerra del Vietnam (e anche qui, alla dimensione collettiva intreccia figure di protagonisti memorabili, come Phil Berrigan e Daniel Ellsberg). E tutto si accompagna con la storia della formazione di una coscienza di classe rivoluzionaria: è decisivo l’orrore provato quando nella seconda guerra mondiale partecipa all’inutile bombardamento col napalm di un villaggio francese, in cui furono uccisi centinaia di civili insieme coi militari tedeschi che vi si erano accampati in attesa della fine della guerra. Ma il “mai più” che il soldato Zinn scrive dopo questo episodio si innesta su una formazione familiare e sociale in una famiglia proletaria di Brooklyn (“quale bambino che è amato sa di essere povero?”): le immagini delle strade e del paesaggio urbano del quartiere sono secondo me le più belle ed efficaci del libro.
Ovviamente, un libro come questo ha bisogno di qualche istruzione per l’uso. In primo luogo (e questo vale anche per la sua fonte, la Storia del popolo americano), scrivendo negli Stati Uniti Zinn si rivolgeva a lettori che conoscevano almeno una versione dei contesti generali, della storia ufficiale e della storia istituzionale del loro paese, se non altro perché gliel’avevano fatta imparare a scuola, e quindi lo capivano come controcanto alle narrazioni dominanti (non a caso, si presenta come una lezione\conferenza di Zinn a un pubblico di attivisti e studenti), non come l’unica narrazione della storia americana, come se tutta la storia degli Stati Uniti fosse qui. Se non ne teniamo conto, davvero finiamo per farci l’idea semplificata degli Usa come il vero “impero del male”, punto e basta, mero braccio armato della repressione capitalista e imperialista. Anche la forma a fumetti può lasciare il varco a qualche semplificazione: penso alla narrazione avventurosa e un po’ complottistica della crisi iraniana del 1952, da cui sembra venir fuori che le masse sono mobilitabili e manipolabili a piacimento, basta pagare e fare propaganda - che è il contrario di quello che Zinn cerca di dire in tutto il libro. Ma sono dettagli, superabili se alla facilità di lettura e all’impatto emotivo resi possibili dalla grafica, e dalla drammaticità dei fatti narrati, aggiungiamo l’attenzione critica che un libro di storia, anche a fumetti, sempre richiede. E se teniamo in conto le parole con cui il libro si conclude: dopo tante tragedie, disgrazie, sconfitte, catastrofi, Zinn evoca ancora la speranza: “La storia umana non è solo storia di crudeltà, ma anche di compassione, sacrificio, coraggio e benevolenza… Il futuro è un infinito succedersi presenti”. La prima immagine del libro è Zinn in lacrime; l’ultima è il suo sorriso.

11 settembre: la politica della paura

manifesto\alias, 10.9.2011

Dopo l’11 settembre 2001, in una memorabile conversazione televisiva, due dei leader più in vista della destra religiosa americana individuarono con chiarezza i responsabili della tragedia: "Gran parte della responsabilità”, disse Jerry Falwell (predicatore fondamentalista, fondatore della Moral Majority), “ricade sulla American Civil Liberties Union [un’organizzazione legale progressista e laica]. Con l’aiuto del governo federale hanno buttato Dio fuori dallo spazio pubblico, dalle scuole. E la responsabilità è anche dei sostenitori dell’aborto, perché Dio non si lascia prendere in giro e quando distruggiamo quaranta milioni di bambini innocenti lo facciamo arrabbiare. Io addito i pagani e gli abortisti e i gay e le lesbiche, tutti quelli che cercano di secolarizzare l’America e gli dico, avete fatto voi in modo che questo accadesse”. Qualche giorno dopo, Falwell chiese scusa e ammise che i responsabili erano i terroristi. Il suo ospite Pat Robertson (televangelista carismatico, aspirante candidato repubblicano alle elezioni del 1998), che in TV aveva detto “sono completamente d’accordo”, prese anche lui le distanze. Ma, come dice Huckleberry Finn, erano parole dette, e restavano dette. E c’è sempre qualcuno che continua a dirle, tantissima gente disposta a crederle, media pronti ad amplificarle, politici pronti a cavalcarle.
Domenica 28 agosto 2011, dopo il terremoto che aveva colpito la costa orientale e mentre la tempesta Irene si avvicinava a New York, Michele Bachmann – esponente della destra religiosa, quotata aspiranti candidate repubblicane alle elezioni del 2012 – ha dichiarato: “Non so che altro deve fare Dio per farsi ascoltare dai politici. C’è stato un terremoto; c’è stato un uragano. Egli ha detto: mi volete a stare a sentire laggiù? Ascoltate il popolo americano, perché è infuriato. Il governo si fa sempre più obeso e dobbiamo mettere le redini alla spesa pubblica”. Anche Michelle Bachmann ha poi detto che scherzava (ma che razza di credente è una che prende così scherzosamente invano il nome di Dio, e fa battute sulle decine di morti?). Anche per certi politici americani sembra valere l’alibi inventato dai nostri: sparare cose tremende e poi dire “non prendetemi sul serio” e chiedere il voto.
La continuità fra Falwell e Bachmann suggerisce che a dieci anni di distanza uno dei segni lasciati dall’11 settembre è l’uso strumentale delle catastrofi e l’accentuarsi della paranoia fondamentalista: Michelle Bachmann era la più accreditata concorrente repubblicana di Barack Obama fino a una settimana fa, quando è stata scavalcata nei sondaggi da Rick Perry, governatore del Texas, e ancora più estremista bigotto di lei, convinto che il governo federale sia un complotto antiamericano - tutta gente che al confronto Sara Palin è la Montalcini, ma che per il seguito che ha va presa molto più sul serio dei pur preoccupanti Falwell e Robertson di dieci anni fa.
Infatti la sensazione di essere esposti a rischi e minacce senza nome e inspiegabili – atti di Dio, come la giurisprudenza americana definisce le catastrofi presunte naturali e le loro conseguenze – sì è insediata nello stato d’animo di tanti americani dopo quella drammatica giornata e ha continuato a scavare. Il rifiuto da parte delle istituzioni e dei media più popolari di ammettere che poteva esserci una qualche (criminosa) razionalità, una qualche (malintesa) radice storica nell’atto terroristico non ha fatto altro, fin dal primo momento, che accentuare il senso di impotenza, di vulnerabilità, di vittimismo – la paura, insomma, e la rabbia. A mano a mano che la guerra è diventata condizione ordinaria, al punto che Afganistan, Irak e persino ora la Libia sembrano svolgersi distrattamente su un altro pianeta senza conseguenze di cui i cittadini sembrino rendersi conto, l’asse di questo stato d’animo è venuto spostandosi dal quadro internazionale sempre più sul piano della politica interna – dove fin dall’inizio lo collocavano Falwell e Robertson e dove si incontra con una tradizione di sospetto e di rabbia che non è certo nata con l’11 settembre ma che da ne ha ricevuto un impulso formidabile.
Sia le teorie del complotto fiorite dopo l’11 settembre, sia le teorie “teocratiche” dei fondamentalisti, avevano in comune la difficoltà per l’immaginazione americana di immaginare una soggettività umana altra fuori dall’America. Per i primi, le disgrazie e le sconfitte possono essere solo determinate da cause interne (al tempo del maccartismo, non fu la Cina a diventare comunista, ma fummo “noi” che la “perdemmo” a causa del tradimento di politici venduti); per i secondi, dato il rapporto diretto dell’America con Dio, le catastrofi sono messaggi che la divinità invia al proprio popolo eletto per avvertirlo quando si sta allontanando dalla sua presunta missione (la rivolta indiana che nel 1676 per poco non ributtò a mare i coloni puritani fu interpretata come un monito per l’affievolirsi del fervore religioso dei fondatori). La tesi Falwell-Robertson combinava le due modalità: un monito sovrannaturale per un degrado morale causato da un complotto di soggetti umani interni all’America.
Dal 2008 in poi, la crisi economica si è presentata come un’altra catastrofe ancora più inspiegabile dell’11 settembre, causata da forze arcane e astratte (un memorabile verso di “The River” di Bruce Springsteen dà voce perfettamente a questa sensazione: da qualche tempo non c’è molto lavoro, dice, “a causa dell’economia”, e il suono stesso di quella polisillabica parola di etimologia aliena ne suggerisce l’inconoscibilità), senza neanche agenti umani concreti come quei terroristi inviati dall’Onnipotente (“a chi possiamo sparare?” dice in Furore di Steinbeck il contadino cacciato dalla sua terra confiscata anonimamente dalle banche – e lo stesso devono essersi dette le centinaia di migliaia di americani che le banche hanno inaspettatamente sbattuto ancora una volta sul lastrico per la crisi dei mutui).
L’elezione di Barack Obama ci ha messo la ciliegina: se la catastrofe economica era causata da un complotto, l’agente ideale era il “marxista”, “straniero” e (inconfessabilmente) nero che si era insediato alla Casa Bianca e incarnava perfettamente l’arcinemico di tutte le teorie americane del complotto: il governo federale che non ascolta il popolo, che salva le banche, non risolve il problema della disoccupazione, e impone arcane riforme “socialiste” (basta pensare a come la battuta di Sara Palin sui “comitati della morte” previsti dalla riforma sanitaria è diventata verità incontestabile per mezzo partito repubblicano nell’arco di pochi giorni). Nel momento in cui alla catastrofe economica si intrecciano i disastri naturali, ancora una volta la teoria del monito divino per le colpe dei traditori umani diventa la spiegazione più ovvia: .
In apparenza, tutto questo con l’11 settembre di dieci anni fa e con le sue conseguenze non c’entra niente. Gli elettori americani hanno bocciato nel 2008 i repubblicani che avevano risposto all’attentato con la guerra, e li hanno premiati nel 2010 dimenticandosi di quello che avevano fatto due anni prima, perché le guerre in corso e le loro conseguenze non sono più all’ordine del giorno, non sembrano più far parte dell’esperienza ordinaria della gente comune. Ma in realtà è stato l’11 settembre a legittimare e a rendere permanente il clima di pericolo imminente e lo stato di mobilitazione che si è incarnato nella militanza del Tea Party, nella vittoria repubblicana alle elezioni di medio-termine, e nell’ascesa di figure come Sara Palin, Michelle Bachmann, Ron Paul, Rick Perry.
Dopo l’altra grande crisi, quella del 1929, il presidente Franklin D. Roosevelt ammoniva: “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Dopo l’11 settembre il monito si è rovesciato: l’unica cosa che gran parte dell’America sa è di avere paura. Ma non sa di che, quindi di tutto. E’ una paira generalizzata e senza forma: “sta succedendo qualcosa qui, ma non sai che cos’è, vero, Mister Jones?”, cantava Bob Dylan. Mister Jones non lo sa, e proprio per questo è spaventato e si aggrappa a chi glielo spiega nel modo più semplice e assolutorio, Dio e i complotti. Gli errori e i disastri della destra (le menzogne, le guerre, i disastri economici) generano paure che la destra stesso alimenta a cavalca. A meno che noi non riusciamo a spostare l’asse del discorso. Barack Obama, dieci anni dopo, dà istruzioni perché l’anniversario non sia celebrato nel solito modo solipsistico e paranoico dei suoi predecessori, e il suo paese si accorga che l’11 settembre non è stato una tragedia solo americana, e che non è stato la sola tragedia della storia umana. Ma può essere troppo tardi.