29 gennaio 2007

Appuntamenti

Cuori Rossi: Roma antifascista

Martedì 30 gennaio ore 18
Via Dancalia 9 - Associazione Art. 3 – PRC Federazione diRoma – Progetto Memoria.
Introduce Bianca Bracci Torsi; Intervengono: Sandro Portelli , Guido Caldiron, Sante Moretti, Simone Sallusti; Conclude Massimiliano Smeriglio


Piazza Bologna, una memoria dimenticata

Giovedì 1 febbraio ore 17,30
Via Catanzaro 3 (sezione DS)
Intervengono: Alessandro Portelli, Consigliere delegato del sindaco per le tematiche relative alla valorizzazione del patrimonio di memorie della città; Mario Bianchi, direttivo ANPI e presidente dell'Associazione Nazionale Combattenti Forze Armate Guerra di Liberazione sezione Roma, Vera Michelin Salagon, deportata politica; Antonio Borsellino e Armando Antonio, parigiani del quartiere Nomentano Italia; Andrea Costa, segretario terza Unione DS. Coordina: Patrizia Paglia, consigliera Municipio Roma III.

25 gennaio 2007

La destra all'assalto della giornata della memoria (Liberazione 25.1.07)

La Giornata della memoria è ormai una scadenza consolidata nel calendario civile del nostro paese – anzi, a giudicare almeno da quello che succede a Roma, si sta espandendo al punto che iniziative connesse a questa scadenza coprono ormai almeno due settimane, prima e dopo la data del 27 gennaio (anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa). Oltre ai luoghi canonici, come la Casa della Memoria e della Storia, queste iniziative investono tutta la città dal Teatro di Tor Bella Monaca all’Auditorium dell’Ara Pacis, da moltissime scuole ad associazioni culturali e strutture di base. Inoltre, fermo restando l’asse fondamentale della memoria della Shoah e dello sterminio degli ebrei, si amplia anche lo sguardo sulle altre vittime del nazismo: dall’”omocausto” (a cui è dedicata una mostra organizzata dall’Arci Gay alla Casa della memoria e della Storia, oltre a un’iniziativa del Circolo Mario Mieli) al “Porrajmos”, lo sterminio dei Rom e Sinti, che sarà al centro della giornata dell’Ara Pacis dedicata a “la memoria degli altri”.
Tuttavia, non mancano ombre e novità preoccupanti. C’è in atto una strategia chiaramente organizzata di forze di destra, soprattutto a livello scolastico e giovanile, per sovrapporre a questo momento chiaramente antifascista una memoria reazionaria che, mentre cerca di sminuire se non di negare la Shoah, rilancia la versione neofascista della vicenda delle foibe o di altri momenti della storia recente.
Episodi del genere si ripetono con troppa regolarità per essere puramente spontanei. Al liceo Visconti, forze di destra estrema pretendono di connettere alla giornata della memoria un’assemblea totalmente unilaterale in cui impartire agli studenti la propria versione della strage fascista di Bologna. Il liceo Farnesina è stato “sequestrato” da un gruppo di neofascisti (il cui sito inneggia alle SS e parla della Shoah come di una “esagerazione). Anche fuori Roma, in un liceo di Monterotondo, la giornata della memoria consisterà in un’assemblea sulle foibe (dove per fortuna si è riusciti almeno a impedire che parlassero solo i fascisti).
Non credo che si possa parlar di episodi casuali e spontanei. Come già all’epoca della campagna storaciana sui libri di testo, si tratta di una strategia organica, che punta a sostituire una memoria di destra al significato democratico della giornata della memoria. Si tratta di iniziative dalla scarsissima credibilità storica e di penoso livello culturale, ma questo non garantisce affatto che non facciano breccia e non contribuiscano a consolidare un senso comune reazionario e negazionista. Tanto più che l’aria che l’aria che si respira è comunque un aria nostalgica e restauratrice: basta pensare che la giornata della memoria è stata preceduta in televisione da non meno di due trasmissioni (equamente suddivise, una su Rai e una su Mediaste) in lode e nostalgia di Benito Mussolini, e sarà seguita da uno sceneggiato su Enzo e Ada Sereni da cui è stata, a quanto pare, espunta ogni memoria del loro antifascismo.
A questo punto, il compito che ci si pone davanti è, in primo luogo, quello di contrastare questa aggressione “culturale” di destra, ribattendo in ogni luogo e in ogni occasione. La nuova strategia dell’estrema destra su questa giornata trova spazio anche per l’inerzia e la debolezza delle forze democratiche e di sinistra, per il ridursi della politica attiva anche nelle scuole. Péiù lasciamo che la giornata della memoria si riduca a un rituale scontato, più lasciamo l’iniziativa ai nemici della democrazia.
Ma più in profondità e più a lungo termine, dobbiamo anche riflettere su che cosa significa oggi memoria. Più che un repertorio garantito e accertato di conoscenze, la memoria è oggi sempre più il luogo di un conflitto, di una battaglia culturale fra memorie alternative, memorie negate, memorie negazioniste. Per questo, la memoria va non tanto conservata quanto continuamente rinnovata. Sulla Shoah, non basta la formula “mai più.” La giornata della memoria deve diventare un momento di riflessione sul significato stesso della memoria, su come usarla non in una sola giornata ma tutto l’anno, e su come noi stessi diamo senso al passato e produciamo per il futuro a memoria del nostro presente. Altrimenti, in una specie di euforia decostruttiva che fa comodo solo a destra, tutte le memorie si equivalgono, le foibe azzerano le Ardeatine, il gulag azzera la Shoah, e perdiamo ogni orientamento di valore e di senso.

La solita solfa dell'antiamericanismo (Manifesto 16.1.07)

Strilla Berlusconi: il centrosinistra è antiamericano. Uffa. L’abbiamo già sentita: le solite targhette ideologiche sbandierate quando mancano gli argomenti di merito. Una risposta ci sarebbe: un’alzata di spalle, il silenzio dell’indifferenza, e parliamo di cose serie.
E invece eccoci tutti ancora a rispondere a Berlusconi, a prenderlo sul serio, scusarci, spiegarci (è stato autorevolmente detto che “siamo più filoamericani dell’Arabia Saudita”: non un bel biglietto da visita, per un governo democratico!). Il problema allora non è lui, ma una sinistra tanto carica di sensi di colpa esagerati e frettolose abiure ideologiche da aver paura di quel tanto di autonoma dignità che ogni tanto riesce ad esprimere.
Intanto, il presidente Bush annuncia che anche se l’aula sorda e grigia del Congresso non è d’accordo, lui tirerà diritto (con tanti saluti ai vantati equilibri e controlli della Costituzione). Intanto, gli Stati uniti continuano a impiccare in Irak e a bombardare in Somalia per interposizione e scontata concessione di governi fantocci. E la maggioranza degli americani dice su questa situazione più o meno le stesse cose che diciamo noi, e si prepara a ripeterle in strada. Un tempo, avrebbero chiamato anche loro “un-american,” antiamericani; oggi, anche se qualche ideologo esagitato come Cheney dice che fanno il gioco di Al Qaeda, nessuno nega che sono anche loro America. Un tempo, molti di noi li avrebbero chiamati “l’altra America”; e invece Cindy Sheehan e la sua gente sono America, non meno di Lynndie England e di Donald Rumsfeld. Proprio per questo ci hanno messo tanto a mettersi in movimento: perché sono America, credevano che Bush e Cheney fossero il loro governo, e dover ammettere che non lo è gli toglie davvero la terra sotto i piedi. Gli ci vuole coraggio, e alla fine lo trovano, e hanno bisogno di sentirci vicini.
Bel paradosso, doversi difendere all’accusa di antiamericanismo proprio nel momento in cui si è d’accordo con la maggioranza degli americani. Come si spiega? In primo luogo, con la diseguale distribuzione del diritto di parola: i critici e dissenzienti interni possono parlare perché sono americani; noi dobbiamo dimostrare di esserlo, e possiamo dimostrarlo solo astenendoci dal dissentire e criticare. Poi, il paradosso si spiega con quell’identificazione acritica di governo, società, cultura che gli Stati Uniti promuovono e che trova credito anche fra noi: il paese più plurale (non necessariamente più pluralistico) del mondo si rappresenta come se fosse il più monolitico, per cui una critica a una sua parte è intesa come una critica al tutto, quindi come un pregiudizio. E si spiega infine con l’ambiguità di quella parola, “fedeltà”, che gira nei discorsi di questi giorni. Di che fedeltà stiamo parlando? C’è una fedeltà di amici e alleati fondata sulla reciprocità e rispetto di regole comuni; e c’è una fedeltà servile, unidirezionale, diseguale. Se noi siamo fedeli agli Stati Uniti, gli Stati Uniti sono fedeli a noi, se li rispettiamo ci rispettano? Lasciamo stare Abu Omar; ma dice niente il Cermis?
Per finire. Il pregiudizio antiamericano non è né più sbagliato né più illegittimo del pregiudizio filoamericano di chi agli Stati Uniti dà ragione a priori e scatta sull’attenti a comando. Sono due paraocchi che inibiscono sia la critica ragionata, sia il consenso avvertito e consapevole. Non dobbiamo avere paura di dare ragione agli Stati Uniti quando ce l’hanno, e a quegli americani che ce l’hanno; ma quando ci vuole – e di questi tempi ci vuole assai – è atto di ragione, e non di pregiudizio, dire ad alta voce che il loro governo e la loro politica stanno, loro sì, dalla parte del torto.

12 gennaio 2007

I racconti di Hawthorne: il giorno e la notte dell'America

Qualche giorno fa, presentando con Gabriele Polo e Sandro Medici il libro delle prime pagine del manifesto, mi sono ritrovato davanti alla famosa accoppiata del 3 e 4 novembre 2004: “Good morning America” \ “Good night America”. A suo tempo, le abbiamo viste in sequenza: la seconda riconosceva che la prima era stata un errore e a malincuore lo correggeva. Ma adesso, faccia a faccia nel libro, aiutate da una grafica che sottolinea il bianco della camicia e del sorriso di Kerry, e lo sfondo buio e l’ombra sul viso in controluce di Bush in abito scuro, vi riconosciamo un tutto sincronico: una figura della complicata relazione fra il giorno e la notte, fra la luce e la tenebra, nelle radici e nella storia degli Stati Uniti e nel nostro modo di immaginarli.
E’ un’immagine ricorrente. C’è un brano nell’ultimo CD di Neil Young (Living with War) che dice: “L’America è bellissima, ma ha un lato orrendo”. C’è sempre, ci ricorda Bruce Springsteen, una “darkness at the edge of town”, un orlo di tenebra attorno alla città. C’è tutta una generazione di film noir hollywoodiani con un orlo di buio che incombe sopra l’inquadratura. E in quello che è forse il più memorabile racconto di Nathaniel Hawthorne, il “giovane Goodman Brown” si accomiata al crepuscolo, sulla soglia di casa, dalla giovane moglie Faith (fede). Esita sull’orlo fra giorno e notte, casa e foresta, poi si incammina per compiere nello spazio selvaggio attorno alla città un’imprecisata ma colpevole faccenda notturna in pericolosa compagnia.
Il racconto è insieme evocazione e dissacrazione di quella “errand into the wilderness”, la missione nel “deserto”, nel territorio selvaggio d’America, in cui si sentivano impegnati i fondatori puritani. Nessuno come Nathaniel Hawthorne ha esplorato questo orlo di tenebra, il modo in cui la storia notturna getta la sua ombra anche addosso alla “luminosa città sulla collina” vagheggiata dai fondatori. Perciò, ora che un’altra “missione nel deserto” si è trasformata prima in una tempesta, poi in una cupa tragedia, viene opportuna la prima pubblicazione completa in un unico volume dei racconti di questo classico che, parlando dal passato e del passato, ci trasporta nelle radici oscure e contorte della nostra modernità (Ne ha già parlato Alias, comunque la ricordo: Nathaniel Hawthorne, Tutti i racconti. A cura di Sara Antonelli e Igina Tattoni, con saggi di Edgar Allan Poe e Herman Melville, traduzioni eccellenti di Sara Antonelli, Igina Tattoni, Livia Terracina, Ugo Rubeo; ed. Donzelli).
“Mi sono inoltrato in sette tristi foreste”, canterà più tardi il giovane Bob Dylan. A mano a mano che penetra nella foresta notturna, il giovane Goodman Brown è affiancato dal Diavolo, incontra streghe e demoni e nell’orrendo rito finale distingue i volti dei santi uomini e delle donne virtuose del suo villaggio, fino alla sconvolgente visione della sua stessa Faith nel cuore tempestoso del sabba. “Guarda il Cielo e resisti al Malvagio” le grida – e tutto svanisce: “aveva appena finito di parlare che si ritrovò, nella notte calma e in solitudine, ad ascoltare il rombo del vento che si disperdeva sordo nella foresta: incespicò contro la roccia che sentì fredda e umida (Dylan: “ho incespicato sul fianco di sette nebbiose montagne”), mentre un ramoscello pendulo, che era stato incandescente, gli irrorò la guancia di gelida rugiada.”
Forse è successo davvero, forse è successo solo dentro di lui. L’orlo di tenebra attorno all’America è metafora, proiezione, produzione, espansione della tenebra interiore di ogni essere umano? Per il buon giovane Brown, sono la stessa cosa: l’esperienza del male lo segna per sempre. Salmi e sermoni dei pastori gli suoneranno per sempre sacrileghi, l’amore di Faith non lo scalderà più, e alla sua morte “nessuno scolpì sulla lapide un verso di speranza, perché l’ora del trapasso era stata di tenebra.” E’ la fine di quell’ “innocenza” americana, sempre perduta e sempre rinnovata, raffigurata nell’eterna adolescenza e negli occhi cerulei del “blue eyed son” di Dylan, un’innocenza che non consiste nel non fare il male ma nel non (ri)conoscerne l’esistenza. Soprattutto in sé.
“Gli abitanti della Nuova Inghilterra,” scriveva Cotton Mather, “sono un popolo di Dio che si è stabilito in quelli che erano un tempo i territori del Diavolo”. “Laggiù c’è il nemico”, proclamava il generale William “Jerry” Boykin davanti a Fallujah, “e il suo nome è Satana.” Forse il diavolo abita davvero nella “wilderness”; ma non c’è dubbio che più ci entriamo dentro, più gli somigliamo. Forse perché il territorio del diavolo ci contamina per il contatto coi suoi “diabolici” abitanti (indiani o sciiti); forse perché è lì che proiettiamo e scateniamo i demoni che abitano in noi. Diventiamo diavoli per (con la scusa di) combattere il diavolo: massacriamo gli indiani, perpetriamo nello stesso carcere segreto diavolerie uguali o peggiori di quelle di Saddam Hussein. Sempre continuando a sentirci innocenti e a sorridere con occhi celesti alla macchina fotografica.
E allora, che il Diavolo sia Satana con le corna e gli zoccoli, gli indiani pellerossa, le streghe mandate a morte dallo stesso Mather insieme al giudice Hathorne antenato di Nathaniel, gli “insurgents” di Fallujah, o che stia dentro di noi, è nel suo territorio che ci stiamo avventurando – con l’atto stesso di leggere e scrivere, perché il Diavolo è capace di annidarsi anche dentro il testo, o di essere – come audacemente (e problematicamente) traduce Igina Tattoni “Il Diavolo Manoscritto” – lui stesso il testo. Forse anche la letteratura è un’avventura nei territori del Diavolo, nella selvaggia complessità del cuore umano. Leggere “Il giovane Goodman Brown” significa smettere di sentirsi innocenti.
Può essere unb’esperienza universale; ma Hawthorne la esplora nelle contraddizioni e rimozioni di un universo specifico, quella Nuova Inghilterra che intrecciava la coscienza puritana della tenebra con la trasparente innocenza del radicalismo democratico. “Perché certo,” scriveva Agostino Lombardo, “il rapporto di Hawthorne con la storia degli Stati Uniti è tutt’altro che conformistico e rassicurante: nel momento stesso in cui egli ne individua e rappresenta e accoglie i momenti positivi, anche e soprattutto ne scorge (come li scorge in se stesso) quelli negativi, sostituendo all’oleografia – assai prima della storiografia ufficiale – la realtà di una storia che è fatta, in larga misura, di intolleranza, di oppressione, di violenza.” E uno pensa a “Il ragazzo gentile” e alle persecuzioni contro i Quaccheri, a “L’albero di maggio di Merry Mount” e alla bigotta negazione della gioia. Eppure, continuava Lombardo, “questo rifiuto di accettare l’immagine distorta del passato è la ragione prima della lucidità con cui Hawthorne vede e analizza il presente, del coraggio con cui solleva i veli dell’illusione, della fermezza con cui difende il suo ideale democratico dalle insidie del ‘sogno americano.’”
Sull’ideologia democratica di Hawthorne è dato discutere (penso ad alcune sue imperdonabili pagine sulla schiavitù). Ma è proprio perché scrive in democrazia che - come il suo contemporaneo e ammiratore Herman Melville - continua a evocare le tenebre che l’innocenza compiaciuta della giovane democrazia non sa o non vuole vedere. Gli basta già solo sottolineare che questa America, che si immaginava come un mondo tutto nuovo e immacolato, possiede un oscuro passato rimosso, antecedente alla fondazione. C’è stato un “good night” prima del “good morning America” della Dichiarazione d’Indipendenza. Lì, Hawthorne va a rovistare, magari con l’aria di scrivere colore locale e storia erudita, ma tirando fuori scheletri e roghi rimossi nell’originaria cancellazione della memoria su cui gli Stati Uniti nascono e che continuano a praticare. Basta pensare a quel folgorante attacco nella Lettera scarlatta: “I fondatori di una nuova colonia, quale che sia la loro utopia di virtù umana, devono sempre destinare una parte della terra vergine a un cimitero e a una prigione”. Gli sembrava non a torto che i suoi contemporanei romantici, trascendentalisti e unitariani, gli Emerson e i Thoreau, dimenticassero in un arcobaleno d’ottimismo la presenza del male e della morte.
E’ notte anche quando il giovane Robin attraversa un fiume che sembra lo Stige e sbarca a Boston da un traghetto che pare Caronte. Vagando per le strade contorte della città (come Dylan sulle sue “six crooked highways”), il ragazzo campagnolo cerca un suo illustre parente, il maggiore Molineux, da cui si aspetta aiuto nel farsi largo nella vita. Incontra maschere ambigue, strani doppi, donne scarlatte, ma rifiuta di riconoscerne l’avvertimento e la minaccia. (Farà lo stesso, vent’anni più tardi, il suo concittadino Amasa Delano nel Benito Cereno di Melville, incapace per candore democratico di vedere la tenebra dell’odio e del furore degli schiavi neri sottocoperta). Tutto culmina con una carnascialesca parata notturna in cui Robin finalmente vede il suo parente, Maggiore Molineux: coperto di piume e catrame e trascinato fuori città a furor di popolo. E’la ribellione di Boston del 1688 contro le pretese autoritarie della corona d’Inghilterra e dei suoi governatori; ma è anche la figura della rivoluzione da cui nascono gli Stati Uniti, e di tutte le rivoluzioni di cui hanno paura: una festa violenta e notturna che spazza via legami, protezione, ordine e sicurezza.
Anche Robin è per un momento travolto dalla folle risata rivoluzionaria. Poi, come il giovane Brown dopo il sabba, ritorna in sé alle prime luci dell’alba, nell’incerto momento fra il “goodnight” del disordine e il “good morning” del nuovo giorno, e si avvia al traghetto per tornarsene a casa. Il suo autorevole parente non lo potrà più aiutare a farsi strada nel mondo. Ma un cittadino lo esorta ad aspettare: “Visto che siete un giovane scaltro, magari riuscirete a farvi strada senza l’aiuto del vostro parente, il maggiore Molineux.” Dopo la rivoluzione, insomma, Robin è libero - ed è solo. Stavolta, però, non ha neanche il diavolo al suo fianco: Robin ha fatto a ritroso il viaggio del giovane Goodman Brown; siamo nella città, non nella foresta. L’individuo democratico è senza legami, può fare da solo e deve fare da solo. Conta chi sei, non di chi sei parente. E’ una possibilità inebriante, ma è anche la sintesi di tutte le esperienze che ci isolano e ci dividono: gli anni di vagabondaggio di Wakefield, il velo sul volto del ministro, il peccato innominabile di Ethan Brand, l’”egotismo” della “Serpe in Seno”. Pensiamo all’altro straordinario passaggio della Lettera scarlatta in cui lo sconvolgimento interiore del reverendo Dimmesdale, lacerato fra luce della fede e oscure pulsioni profonde, è reso attraverso un’altra metafora di rivoluzione politica: “Prima che Mr. Dimmesdale giungesse a casa, il suo uomo interiore gli fornì altre prove di una rivoluzione nella sfera del pensiero e del sentimento. In verità, soltanto un sovvertimento della dinastia e una totale trasformazione del codice morale in quel suo regno interiore avrebbero potuto render conto degli impulsi dello sventurato e sbigottito ministro.”
La coscienza della tenebra è la ragione principale per cui il territorio di immaginazione e di memoria in cui più spesso Hawthorne si inoltra è quello delle radici puritane. Senza indulgenze verso le violenza che le macchia, pure ammira il rigore e il senso del peccato di questi ambivalenti “uomini di ferro” - Endicott, il “Gray Champion” cmw monito di memoria in un’epoca che già inclinava verso il sentimentalismo di una corriva cultura di massa.
Per questo, dei racconti meno famosi, mi diverte tantissimo “La Ferrovia Celeste,” sarcastico avvertimento sulle trappole di una modernità troppo facile. Nel Pilgrim’s Progress, testo fondante dell’imaginario puritano (e non solo), John Bunyan raccontava l’allegorico percorso di Cristiano verso la Città Celeste, attraverso insidie, ostacoli e tentazioni, dalla Valle della Disperazione alla Fiera delle Vanità; nell’era del progresso, dice Hawthorne, quel difficile percorso si fa comodamente seduti in treno, affidandosi a un macchinista che è una trasparente parodia di Benjamin Franklin, fautore di una religione democratica senza diavolo e con un Dio lontano. E che naturalmente si rivela alla fine per un’impudente incarnazione del Demonio.
Certo, come avverte Poe, capita in questi racconti di scivolare verso l’astrattezza di idee fatte allegoria. E il rischio dell’antiquariato, del bozzettismo, della crepuscolare nostalgia affiora (specie se lo lasciamo affiorare e non facciamo caso alle ombre che si allungano). Scriveva allora Herman Melville: “la malinconia di Hawthorne si posa come un’estate indiana che, pur bagnando un’intera campagna in un’unica morbidezza, rivela nondimeno la sfumatura distintiva di ogni altura maestosa e di ogni valle che serpeggia lontana”. Tuttavia, “potete essere stregato dalla sua luce del sole, o trasportato dalle scintillanti dorature dei cieli che costruisce sopra di voi, ma c’è della tenebra dell’oscurità che sta dall’altra parte; e anche le sue brillanti dorature si limitano a contornare e lavorare al confine con nuvole tuonanti”.
Per finire. “Sei in ritardo, Goodman Brown”, dice il diavolo al protagonista, sull’orlo della foresta. Un altro capolavoro della cultura americana, pure lontano anni luce nel tempo, nella geografia e nella cultura, comincia quasi allo stesso modo: “Stamattina presto, hai bussato alla mia porta, e io ho detto, ‘buongiorno Satana, mi sa che è ora di andare”. E’ Robert Johnson, il più grande e misterioso dei bluesmen: “io e il diavolo camminavamo fianco a fianco...” E Hawthorne: “Continuarono a camminare,mentre il viandante più anziano esortava il suo compagno ad andare di buon passo e a perseverare nel cammino...” C’è del blues in Hawthorne, perché il bluesman vive materialmente in quei territori del diavolo che lui esplora con l’immaginazione. Young Goodman Brown sta sulla soglia, al crepuscolo; il diavolo bussa alla porta di Robert Johnson sulla soglia del giorno, e in un’altra canzone lui incontra i suoi demoni al bivio (“crossroads”) e al tramonto (“risin’ sun going’ down”) – sul far del giorno o sul far della notte, sempre al confine incerto fra “goodmorning (America)” e “goodnight (America)”... Sono tutte figure di un soggetto diviso, indotto da forze incontrollabili ad atti e stati d’animo che lo fanno sentire nemico a se stesso, Robert Johnson come Arthur Dimmesdale. Dalle origini puritane della grande cultura borghese della Nuova Inghilterra democratica dell’800, o dal Sud profondo dell’oppressione razziale e classista del ‘900, tutti e due prefigurano la nostra modernità lacerata, danno forma ai diavoli in cui ci rispecchiamo ogni volta che, nelle nostre missioni nel deserto, facciamo finta di credere che non esistono, e che non siamo stati noi a portarceli o almeno ad evocarli. E che, a forza di affannarci a negarli e nasconderli, non diventeremo sempre più come loro.

Sull'esecuzione di Saddam Hussein

Poco tempo dopo l’11 settembre, mentre cominciava l’intervento in Afghanistan, un editoriale del Los Angeles Times proponeva: “arrestiamo Osama e facciamogli un regolare processo, così tutto il mondo potrà vedere come funziona la giustizia nella patria della democrazia.” Osama bin Laden è ancora fuori portata, ma come funziona la giustizia della democrazia esportata l’abbiamo visto: non solo il processo non ha avuto nulla di esemplare, ma l’esecuzione del condannato Saddam Hussein è il culmine di quella strategia delle “extraordinary renditions” in cui gli Stati Uniti lasciano i lavori sporchi ai loro paesi vassalli, e se ne lavano le mani dicendo (come anche qualcuno in Europa) che “è una questione interna irachena.” Che il tutto abbia luogo ad Abu Ghraib, luogo condiviso di crimini del condannato e dei suoi esecutori, è solo la più simbolica delle ciliegine.
Non è affatto una questione interna irachena; è una questione che riguarda la definizione e l’identità di quel famoso Occidente in nome del quale gli Stati Uniti e fino a poco fa l’Italia hanno imposto la loro occupazione. Non credo che sia il caso di avere nessuna pietà per Saddam Hussein, assassino e dittatore. Ma nel diritto penale la questione non è solo quello che la vittima si merita; la questione più importante è quali sono i valori, l’identità, i principi di chi amministra il castigo. La ragione per cui la pena di morte è esclusa dal nostro ordinamento non riguarda la pietà per le vittime ma l’orrore nei confronti dell’idea che lo stato possa infliggere la morte. Ci meritiamo, noi, di essere boia, amici e sostenitori del boia?
Un amico americano che seguiva casi di pena di morte mi disse una volta: i familiari delle vittime insistono sempre sull’esecuzione capitale perché pensano che questa porterà “closure”, un senso di conclusione: porrà fine alla vicenda, gli metterà l’anima in pace. E invece, aggiungeva, dopo l’esecuzione si ritrovano con lo stesso dolore e lo stesso vuoto di prima, e senza neanche più l’illusione di un atto finale liberatorio. L’esecuzione di Saddam Hussein è caso esemplare: lungi dal mettere fine alla vicenda irachena, serve a rilanciarla e aggravarla. Non solo perché la guerriglia e le stragi in Irak sono andate avanti e si sono aggravate anche indipendentemente dalla presenza di Saddam Hussein, anche dopo la sua cattura (e, nella misura in cui la sua figura ha funzionato da richiamo simbolico, lo sarà ancora di più dopo la morte). Ma anche perché invece che sancire la fine della guerra, questa parodia di Norimberga serve agli occupanti per rivendicare un “successo” e quindi continuare. E’ esattamente il contrario della “closure”: è un modo per tenere aperta la ferita e continuare ad aggravarla.
Alla fine, nell’esecuzione di Saddam Hussein la pena di morte prende le sue forme meno tragiche e più meschine, la vendetta e la frustrazione: sentimenti infantili (“Saddam Hussein ha cercato di ammazzare il mio papà”, ha detto il presidente Bush figlio), che nel fallimento complessivo dell’impresa si sfogano sull’unico oggetto di cui possono disporre. Ma questo accanimento è anche un effetto di quella ossessiva personalizzazione che sembra ormai la forma dominante del discorso politico. Le società non esistono o non gli si riconosce una soggettività; esistono e contano solo le persone del ceto politico e dei leader; così, gli Stati Uniti hanno prima creduto che bastasse abbattere una persona, Saddam Hussein, per portare la libertà a una società ansiosa di democrazia; e, non essendoci riusciti, sembrano illudersi che basti ucciderlo (che nessuno dica “giustiziarlo”: non c’è mai nessuna giustizia in un’uccisione) per recuperare quel consenso che, con loro sorpreso stupore, non si è materializzato attorno alla loro impresa. Sbagliavano allora, sbagliano adesso, e come allora il prezzo lo pagheranno soprattutto gli iracheni.
Un’ultima conserazione. L’Europa ha posto l’abolizione della pena di morte fra le condizioni per l’ammissione della Turchia. Giusto. Contemporaneamente, accettiamo come nostro alleato di riferimento e leader della Nato un paese che la pena di morte non solo la pratica ma la diffonde. Non è una contraddizione?