12 gennaio 2007

Sull'esecuzione di Saddam Hussein

Poco tempo dopo l’11 settembre, mentre cominciava l’intervento in Afghanistan, un editoriale del Los Angeles Times proponeva: “arrestiamo Osama e facciamogli un regolare processo, così tutto il mondo potrà vedere come funziona la giustizia nella patria della democrazia.” Osama bin Laden è ancora fuori portata, ma come funziona la giustizia della democrazia esportata l’abbiamo visto: non solo il processo non ha avuto nulla di esemplare, ma l’esecuzione del condannato Saddam Hussein è il culmine di quella strategia delle “extraordinary renditions” in cui gli Stati Uniti lasciano i lavori sporchi ai loro paesi vassalli, e se ne lavano le mani dicendo (come anche qualcuno in Europa) che “è una questione interna irachena.” Che il tutto abbia luogo ad Abu Ghraib, luogo condiviso di crimini del condannato e dei suoi esecutori, è solo la più simbolica delle ciliegine.
Non è affatto una questione interna irachena; è una questione che riguarda la definizione e l’identità di quel famoso Occidente in nome del quale gli Stati Uniti e fino a poco fa l’Italia hanno imposto la loro occupazione. Non credo che sia il caso di avere nessuna pietà per Saddam Hussein, assassino e dittatore. Ma nel diritto penale la questione non è solo quello che la vittima si merita; la questione più importante è quali sono i valori, l’identità, i principi di chi amministra il castigo. La ragione per cui la pena di morte è esclusa dal nostro ordinamento non riguarda la pietà per le vittime ma l’orrore nei confronti dell’idea che lo stato possa infliggere la morte. Ci meritiamo, noi, di essere boia, amici e sostenitori del boia?
Un amico americano che seguiva casi di pena di morte mi disse una volta: i familiari delle vittime insistono sempre sull’esecuzione capitale perché pensano che questa porterà “closure”, un senso di conclusione: porrà fine alla vicenda, gli metterà l’anima in pace. E invece, aggiungeva, dopo l’esecuzione si ritrovano con lo stesso dolore e lo stesso vuoto di prima, e senza neanche più l’illusione di un atto finale liberatorio. L’esecuzione di Saddam Hussein è caso esemplare: lungi dal mettere fine alla vicenda irachena, serve a rilanciarla e aggravarla. Non solo perché la guerriglia e le stragi in Irak sono andate avanti e si sono aggravate anche indipendentemente dalla presenza di Saddam Hussein, anche dopo la sua cattura (e, nella misura in cui la sua figura ha funzionato da richiamo simbolico, lo sarà ancora di più dopo la morte). Ma anche perché invece che sancire la fine della guerra, questa parodia di Norimberga serve agli occupanti per rivendicare un “successo” e quindi continuare. E’ esattamente il contrario della “closure”: è un modo per tenere aperta la ferita e continuare ad aggravarla.
Alla fine, nell’esecuzione di Saddam Hussein la pena di morte prende le sue forme meno tragiche e più meschine, la vendetta e la frustrazione: sentimenti infantili (“Saddam Hussein ha cercato di ammazzare il mio papà”, ha detto il presidente Bush figlio), che nel fallimento complessivo dell’impresa si sfogano sull’unico oggetto di cui possono disporre. Ma questo accanimento è anche un effetto di quella ossessiva personalizzazione che sembra ormai la forma dominante del discorso politico. Le società non esistono o non gli si riconosce una soggettività; esistono e contano solo le persone del ceto politico e dei leader; così, gli Stati Uniti hanno prima creduto che bastasse abbattere una persona, Saddam Hussein, per portare la libertà a una società ansiosa di democrazia; e, non essendoci riusciti, sembrano illudersi che basti ucciderlo (che nessuno dica “giustiziarlo”: non c’è mai nessuna giustizia in un’uccisione) per recuperare quel consenso che, con loro sorpreso stupore, non si è materializzato attorno alla loro impresa. Sbagliavano allora, sbagliano adesso, e come allora il prezzo lo pagheranno soprattutto gli iracheni.
Un’ultima conserazione. L’Europa ha posto l’abolizione della pena di morte fra le condizioni per l’ammissione della Turchia. Giusto. Contemporaneamente, accettiamo come nostro alleato di riferimento e leader della Nato un paese che la pena di morte non solo la pratica ma la diffonde. Non è una contraddizione?

0 Comments:

Posta un commento

<< Home