Il delitto (di stato) perfetto non esiste
dal manifesto, 17.12.2006
La dolorosa morte di Angel Nieves Diaz in Florida segna un altro capitolo nella complicata e imbarazzante storia della pena di morte negli Stati Uniti, e forse l’accentuazione di una lenta tendenza al ripensamento. Dopo la sua morte lenta e tormentata, il governatore Jeb Bush ha sospeso le esecuzioni capitali (che erano state reintrodotte in Florida nel 1979). E’ un fatto importante.
Il consenso di principio alla pena di morte è ancora largamente maggioritario, anche se ci sono segni incoraggianti di una lenta diminuzione. Ma al di là della lenta crescita del dissenso, qualcosa suggerisce che esiste un’incrinatura nella armatura stessa del consenso, al punto che anche i sostenitori e amministratori della pena capitale non si sentono la coscienza interamente tranquilla: ed è la pretesa che l’uccisione legale avvenga in modo rapido, indolore, senza spargimento di sangue né scene imbarazzanti. Non a caso, sulle forme dell’esecuzione si è sbizzarrito fin dalle origini l’immaginario tecnologico (con risultati fallimentari che, trattandosi della Florida, ricordano anche un altro fallimento tecnologico, quello delle modalità di voto).
“Se la cosa fosse fatta una volta che è fatta, allora sarebbe bene che fosse fatta rapidamente”, rimugina Macbeth, preparando l’assassinio del re Duncan. La ricerca dell’uccisione perfetta non mira solo a ridurre la sofferenza della vittima concentrandola in un solo momento (“A Mastro Ti’, ‘na botta e via”, dice Rugantino al boia nel musical di Garinei e Giovannini); serve soprattutto a far passare i mal di pancia al boia, chiudere il procedimento, restaurare l’ordine e passare ad altro. E invece, per ammazzare Angel Nieves Diaz ci sono voluti trentaquattro minuti e un’iniezione supplementare di veleno (oltre a ventisette anni carcere fra la prima condanna e l’esecuzione): il sangue non s’è visto, ma il tempo sì.
Perciò l’esecuzione – anzi, come la chiamano i comunicati ufficiali, la “procedura” - deve essere, come altre operazioni di morte da cui sollevare la pubblica coscienza, un’operazione “chirurgica” e “umanitaria”. “Tutti i protocolli dell’esecuzione sono stati seguiti accuratamente”, dice il comunicato del Department of Corrections della Florida: è la stessa spiegazione burocratica che giustifica gli omicidi ai posti di blocco in Irak perché “sono state rispettate le regole d’ingaggio”. Come se i protocolli e le regole fossero verità assolute ed eterne e non opera loro. La colpa è sempre del fatto che la vittima si muove in modo imprevisto o che il suo corpo non si adegua alle modalità richieste: così, le autorità carcerarie spigano che “la procedura di questa notte ha richiesto più tempo a cause delle previe condizioni di salute - come se non avessero avuto Diaz sotto mano abbastanza a lungo da sapere che aveva problemi di fegato, e come se fosse compito del condannato tenersi in perfetta salute per facilitare il lavoro e la coscienza del boia.
Il fatto è che la vita resiste alla liscia procedura della morte; non c’è uccisione – per bombe, veleno, elettricità, ghigliottina – che non comporti sofferenza. La maggior parte delle istituzioni americane sembra ancora restia ad ammettere ripensamenti di principio sul diritto dello stato di amministrare la morte; ma anche in coscienze che ci si aspetterebbe impervie, come quella di Jeb Bush, comincia a farsi strada l’idea che farlo in modo indolore è una chimera. La costituzione americana che vieta le forme di punizione “crudeli e inusuali” non enumera quali siano, ma affida la definizione di che cosa sia crudele e inusuale alla coscienza storica e civile dei tempi e dei luoghi. E molto è cambiato dal 1789 al 2006. Ne può venir fuori il paradosso per cui è incostituzionale frustare una persona ma non lo è ucciderla; ma può diventare senso comune la coscienza che uccidere una persona è sempre e comunque una punizione crudele.
Negli Stati Uniti, le grandi riforme sono spesso avvenute in questo modo: non per sfondamento ma per erosione. E’ possibile che rigidità moralistiche e fondamentaliste, intrecciate con memorie storiche di epoche di violenza diffusa e con le nuove paure post-11 settembre rendano ancora per qualche tempo inattaccabile la pena di morte in linea di principio; ma è anche possibile che l’impossibilità di applicarla con la certezza di non uccidere innocenti, e di non uccidere anche i colpevoli in modo inumano, ne limiti gradualmente la sfera di applicazione fino a renderla obsoleta di fatto. E’ una scommessa su cui le organizzazioni umanitarie stanno puntando molto in questi tempi.
Nel frattempo, mentre gli Stati Uniti si avvicinano alla messa in mora della pena di morte, il cattolicissimo governo polacco ne invoca la restaurazione all’interno dell’unione europea. Mentre gli Stati Uniti dibattono sulle punizioni inusuali e crudeli (salvo a Guantanamo e dintorni, ovviamente), il parlamento italiano arriva dopo vent’anni a fare una legge contro la tortura. Mentre loro dubitano delle esecuzioni capitali (ma continuano la guerra), noi discutiamo dell’eutanasia e dell’embrione. Al centro sta sempre la pretesa dei poteri religiosi e politici di controllare la vita e la morte, esautorando le persone il cui corpo è in gioco. La sofferenza di chi è costretto a morire e la sofferenza di chi è costretto a vivere stanno nelle stesse mani.
La dolorosa morte di Angel Nieves Diaz in Florida segna un altro capitolo nella complicata e imbarazzante storia della pena di morte negli Stati Uniti, e forse l’accentuazione di una lenta tendenza al ripensamento. Dopo la sua morte lenta e tormentata, il governatore Jeb Bush ha sospeso le esecuzioni capitali (che erano state reintrodotte in Florida nel 1979). E’ un fatto importante.
Il consenso di principio alla pena di morte è ancora largamente maggioritario, anche se ci sono segni incoraggianti di una lenta diminuzione. Ma al di là della lenta crescita del dissenso, qualcosa suggerisce che esiste un’incrinatura nella armatura stessa del consenso, al punto che anche i sostenitori e amministratori della pena capitale non si sentono la coscienza interamente tranquilla: ed è la pretesa che l’uccisione legale avvenga in modo rapido, indolore, senza spargimento di sangue né scene imbarazzanti. Non a caso, sulle forme dell’esecuzione si è sbizzarrito fin dalle origini l’immaginario tecnologico (con risultati fallimentari che, trattandosi della Florida, ricordano anche un altro fallimento tecnologico, quello delle modalità di voto).
“Se la cosa fosse fatta una volta che è fatta, allora sarebbe bene che fosse fatta rapidamente”, rimugina Macbeth, preparando l’assassinio del re Duncan. La ricerca dell’uccisione perfetta non mira solo a ridurre la sofferenza della vittima concentrandola in un solo momento (“A Mastro Ti’, ‘na botta e via”, dice Rugantino al boia nel musical di Garinei e Giovannini); serve soprattutto a far passare i mal di pancia al boia, chiudere il procedimento, restaurare l’ordine e passare ad altro. E invece, per ammazzare Angel Nieves Diaz ci sono voluti trentaquattro minuti e un’iniezione supplementare di veleno (oltre a ventisette anni carcere fra la prima condanna e l’esecuzione): il sangue non s’è visto, ma il tempo sì.
Perciò l’esecuzione – anzi, come la chiamano i comunicati ufficiali, la “procedura” - deve essere, come altre operazioni di morte da cui sollevare la pubblica coscienza, un’operazione “chirurgica” e “umanitaria”. “Tutti i protocolli dell’esecuzione sono stati seguiti accuratamente”, dice il comunicato del Department of Corrections della Florida: è la stessa spiegazione burocratica che giustifica gli omicidi ai posti di blocco in Irak perché “sono state rispettate le regole d’ingaggio”. Come se i protocolli e le regole fossero verità assolute ed eterne e non opera loro. La colpa è sempre del fatto che la vittima si muove in modo imprevisto o che il suo corpo non si adegua alle modalità richieste: così, le autorità carcerarie spigano che “la procedura di questa notte ha richiesto più tempo a cause delle previe condizioni di salute - come se non avessero avuto Diaz sotto mano abbastanza a lungo da sapere che aveva problemi di fegato, e come se fosse compito del condannato tenersi in perfetta salute per facilitare il lavoro e la coscienza del boia.
Il fatto è che la vita resiste alla liscia procedura della morte; non c’è uccisione – per bombe, veleno, elettricità, ghigliottina – che non comporti sofferenza. La maggior parte delle istituzioni americane sembra ancora restia ad ammettere ripensamenti di principio sul diritto dello stato di amministrare la morte; ma anche in coscienze che ci si aspetterebbe impervie, come quella di Jeb Bush, comincia a farsi strada l’idea che farlo in modo indolore è una chimera. La costituzione americana che vieta le forme di punizione “crudeli e inusuali” non enumera quali siano, ma affida la definizione di che cosa sia crudele e inusuale alla coscienza storica e civile dei tempi e dei luoghi. E molto è cambiato dal 1789 al 2006. Ne può venir fuori il paradosso per cui è incostituzionale frustare una persona ma non lo è ucciderla; ma può diventare senso comune la coscienza che uccidere una persona è sempre e comunque una punizione crudele.
Negli Stati Uniti, le grandi riforme sono spesso avvenute in questo modo: non per sfondamento ma per erosione. E’ possibile che rigidità moralistiche e fondamentaliste, intrecciate con memorie storiche di epoche di violenza diffusa e con le nuove paure post-11 settembre rendano ancora per qualche tempo inattaccabile la pena di morte in linea di principio; ma è anche possibile che l’impossibilità di applicarla con la certezza di non uccidere innocenti, e di non uccidere anche i colpevoli in modo inumano, ne limiti gradualmente la sfera di applicazione fino a renderla obsoleta di fatto. E’ una scommessa su cui le organizzazioni umanitarie stanno puntando molto in questi tempi.
Nel frattempo, mentre gli Stati Uniti si avvicinano alla messa in mora della pena di morte, il cattolicissimo governo polacco ne invoca la restaurazione all’interno dell’unione europea. Mentre gli Stati Uniti dibattono sulle punizioni inusuali e crudeli (salvo a Guantanamo e dintorni, ovviamente), il parlamento italiano arriva dopo vent’anni a fare una legge contro la tortura. Mentre loro dubitano delle esecuzioni capitali (ma continuano la guerra), noi discutiamo dell’eutanasia e dell’embrione. Al centro sta sempre la pretesa dei poteri religiosi e politici di controllare la vita e la morte, esautorando le persone il cui corpo è in gioco. La sofferenza di chi è costretto a morire e la sofferenza di chi è costretto a vivere stanno nelle stesse mani.
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