25 novembre 2006

Consigli ai democratici: le elezioni di medio termine negli Stati Uniti

Scrive un’amica dal Kentucky: “Ma chi l’avrebbe mai pensato che sarebbe stata la nostra, conservatrice, nostalgica Louisville a spostare l’ago della bilancia e far eleggere un democratico dopo generazioni di repubblicani in questo stato repubblicano fino al midollo? Cose sorprendenti succedono sotto il cielo…” Scrive un amico dal Tennessee: “Ha vinto la classe operaia, dall’Indiana al Kentucky a tutto il nordest industriale e hanno vinto i candidati che hanno parlato di guerra collegandola a lavoro e sanità e scuola”. Chissà se esagera. Comunque, scrive un’amica da New York: “Almeno per un po’ respiriamo, poi forse non cambierà molto ma un segnale l’abbiamo dato”.
Mi fa effetto che non erano neanche arrivati i dati finali e un sacco di gente si attaccava al computer per mandare messaggi di sollievo. Si respirava proprio male negli Stati Uniti da almeno sei anni a questa parte. Magari non è detto che ci sarà chissà che aria nuova, ma almeno tanti americani hanno mandato un messaggio che non permette equivoci: la vecchia era diventata insopportabile.
A chi è stato mandato, questo messaggio? A Bush e ai suoi, non c’è dubbio (ma non sono sicuro che l’abbiano recepito, visto che continuano a dire che vogliono lasciare l’Irak ma solo dopo aver vinto la guerra). Però io credo, spero, che qualche cosa sia arrivata anche ai democratici. La grande maggioranza di loro, a partire dalla trionfante Hilary Clinton, in questi anni si è affannata a dimostrarsi patriottica sostenendo o lasciando passare praticamente tutte le nefandezze antidemocratiche dell’amministrazione Bush – e hanno continuato a perdere. Adesso hanno vinto non perché si siano armati finalmente di coraggio, cosa che è avvenuta in misura molto molto ridotta, ma perché in un sistema bipolare bloccato gli elettori non avevano altro modo per dire che quella politica di cui i democratici stessi sono stati complici e subalterni non la vogliono più. Avranno il coraggio di darsi da fare per cambiarla davvero? Adesso che la maggioranza parlamentare è cambiata, la lotta per la pace e contro le scandalose sperequazioni di ricchezza e livelli di vita e di istruzione è appena cominciata: bisogna che il nuovo congresso si senta sul collo il fiato di milioni di americani che vogliono segni chiari di differenza e di novità.
Ma gli elettori stessi ne saranno capaci? E’ certo un bel segno di normalità democratica il fatto che si siano decisi a votare finalmente contro il governo che avevano rieletto appena due anni fa. Ma è mai possibile che per farlo abbiano dovuto aspettare di essere sicuri che questa guerra non si poteva vincere? E’ mai possibile che i media che oggi sparano a zero su Bush e Rumsfeld per le loro bugie sull’Irak non lo sapessero già tre anni fa, quando lo sapeva tutto il resto del mondo, che erano tutte falsità? Allora, c’è da sperare che il messaggio questi elettori lo abbiamo mandato anche a se stessi, come protagonisti della democrazia, soggetto politico sovrano e opinione pubblica: basta con le deleghe in bianco ai governanti, basta con la subalternità e complicità dei media nei confronti delle verità della Casa Bianca (e della subalternità dai cittadini al sistema dominante dei media). Perché se in Irak sono morti tremila americani e forse seicentomila iracheni, la colpa non è solo di Bush e Rumsfeld, ma – in una democrazia – è responsabilità anche loro che li hanno lasciati fare, che dopo un’elezione rubata gliene hanno regalata un’altra – forse – regolare, e che quando il loro democratico governo ha legalizzato intercettazioni clandestine e metodi di tortura non hanno avuto un democratico moto di repulsione e di protesta. Ed è anche colpa dei media, così lontani in tutti questi anni da quel mito della libera stampa americana che ci hanno regalato Hollywood e i filoamericani mitici di casa nostra. Avranno gli operatori dell’informazione il coraggio, dopo questo voto, di ritrovare la loro autonomia di coscienza e la loro capacità di cercare il più possibile la verità, oppure dovremo continuare a consolarci coi ricordi un po’ sbiaditi di Ed Murrow o Lincoln Steffens?
In gran parte, la passività di cui hanno approfittato Bush e la sua banda è stata in questi anni il prodotto di uno scoraggiamento profondo, della convinzione che non si poteva vincere. In un paese dove la parola “liberal” (che da noi è l’unica ideologia permessa) è diventata un insulto innominabile, sembrava che solo la destra fondamentalista, militarista e monopolistico-clientelare avesse il polso della realtà e della storia. Gli altri erano rappresentati, e un po’ si percepivano, come nostalgici, passatisti, rassegnati, fuori del tempo… E invece adesso si renderanno conto che magari non saranno proprio born to win, nati per vincere (come diceva Woody Guthrie), ma nemmeno a priori nati per perdere (born to lose, per dirla con Johnny Cash e Ray Charles). Un po’ meno scoraggiamento al centro e a sinistra, un po’ meno arroganza e certezza dell’impunità a destra, e si può, umilmente e un gradino per volta, ricominciare.
E infatti. Non ci facciamo spaventare troppo dal fatto che sette stati hanno approvato emendamenti contro iol matrimonio fra coppie dello stesso sesso. Ho sotto mano un comunicato stampa della National Gay and Lesbian Task Force secondo cui le cose sono meno nere di quanto si possa pensare. In primo luogo, c’è stato anche un ostato, l’Arizona, in cui per la prima volta nella storia un emendamento simile non è passato. Poi, le percentuali anche degli altri stati mostrano un margine assai più ridotto di quello che si poteva immaginare: nel 2004, solo il 31% degli elettori aveva difeso i diritti dei gay e delle lesbiche; adesso, in almeno cinque stati la percentuale ha superato il 40% (e se l’Oregon era immaginabile, al Virginia è proprio una sorpresa). E i candidati più volgarmente anti-gay sono stti clamorosamente battuti quasi dovunque. In Wisconsin, Michigan, Ohio, Oregon, sono stati eletti governatori che avevano preso chiare posizioni antidiscriminazione in campagna elettorale. Insomma, anche su questo difficile terreno, qualcosa si muove.
Perciò, ecco un altro messaggio, con echi anche da questa parte dell’oceano: la mobilitazione politica della destra religiosa può funzionare per un po’ di tempo ma non può funzionare per sempre. In parte, perché se mobiliti la gente sul piano dei valori, un po’ ci devi credere e un po’ li devi praticare; se fai balenare alla gente obiettivi teocratici irrealizzabili anche in democrazie ammalate come quella degli Stati uniti e come la nostra, poi si accorgono che ti sei solo servito di loro e li hai presi in giro. Ma anche, molto, perché in fine questi famosi fondamentalisti cristiani non sono solo fondamentalisti ma anche cristiani (e in maggioranza cristiani non ricchi), e tra i valori del cristianesimo (e dell’occidente) ci sarebbero anche la pace, il non ammazzare, un minimo di solidarietà e di aiuto ai più deboli. Non è facile continuare a mobilitare dei cristiani contro questi valori che sono anche loro.
Sospetto che, nel profondo, la svolta sia cominciata più con Katrina e New Orleans che con l’Irak: è stato allora che si è visto quanto poco di cristiano avesse quel governo, e che i media hanno ripreso un po’ di dignità. Chissà se anche da noi i teo-con e gli atei devoti continueranno a credere di stare al passo con la storia e con la modernità americana scimmiottando quel perdente di Carl Rove.

0 Comments:

Posta un commento

<< Home