Per un incontro fra laici e credenti a Ravenna
Il 2 dicembre avrei dovuto partecipare a Ravenna a un incontro su "Uguaglianza, identità e differenze. Quale dialogo per un mondo comune", organizzato dall'Università per la formazione permanente degli adulti "Giovanna Bosi Maramotti", con Khaled Fouad Allam dell'unviersità di Trieste e la pastora valdese letizia Tomassone. All'ultimo momento non sono potuto andare, e per farmi un poco perdonare ho mandato a Paola patuelli, organizzatrice dell'incontro, questo testo.
Cara Paola, e carissime amiche e amici,
Non trovo le parole per scusarmi abbastanza del fatto che ragioni che davvero non controllo mi sottraggano a un incontro a cui tenevo molto, e che molto mi incuriosiva. Conto sulla vostra comprensione, e su un’altra occasione che fisseremo presto.
Mi incuriosiva questa occasione, come anche quelle a cui ho avuto il privilegio di partecipare a Monte Giove, per una domanda elementare: come c’entro io, che non riesco a trovare in me neanche una traccia di tensione verso la religiosità, in esperienze di dialogo come la vostra, o come Monte Giove? Ed è una domanda che rivolgo in primo luogo a me stesso: come mai sono così contento quando mi capita di esservi coinvolto? Proverò a ragionarci sopra con alcune considerazioni e una storia.
Partirei da una definizione che ho trovato nelle vostre lettere di preparazione a questo incontro, e in cui credo di riconoscermi:
Laicità: non solo essere consapevoli dell’esistenza di altre differenze, ma esserne curiosi, con passione, sapendo di essere portatori di una parziale differenza, come ci ricorda Enzo Bianchi nel suo recente La differenza cristiana. Senza dimenticare la necessità di un mondo comune, che non è immediatamente, naturalmente, politicamente senz’altro dato, ma che è, se c’è, risultato voluto e costruito.
Ecco, mi accorgo che la stessa parola che ho già usato due volte – curiosità – ritorna nella vostra definizione di che significa essere laici: essere curiosi con passione, desiderio di conoscere ciò che noi non siamo. E’ anche per questo che passo il mio tempo facendo ricerca sul campo in luoghi diversi, che leggo e studio culture e lingue diverse dalla mia. Proprio il fatto di essere lontano dall’esperienza religiosa mi porta ad esserne un appassionato curioso, ascoltatore, indagatore. Certe volte ho pensato che di fronte all’esperienza e al discorso religiosi mi sento come una persona senza orecchio musicale portata a un concerto: c’è qualcosa nell’aria che io non sento ma gli altri sì, e magari se potessi capire di che si tratta mi divertirei di più. Aggiungo subito che lo stesso vale in direzione inversa: anche chi non ha orecchio per la laicità (e sono in tanti, anche fra i laici, a non avercelo!) rischia di chiudersi in una fortezza fideistica e non sentire cose preziose che sono nell’aria.
Allora forse una delle ragioni che mi commuovono e mi entusiasmano in questi contesti di dialogo è il fatto che ci ascoltiamo fra noi non nonostante, ma proprio perché esistono fra noi dei terreni non condivisi. Le molte cose che ci uniscono – la pace, la non violenza, l’uguaglianza… quel neminem ledere di cui parlate, che credo voglia dire non solo non fare male a nessuno ma anche cercare il bene di tutti – queste cose sono il terreno condiviso che ci permette di incontrarci su quelle che non abbiamo in comune: la fede degli uni, la distanza dalla fede degli altri; capire come fondazioni etiche differenti possono portare a valori comuni; e creare, su queste condivisioni e queste differenze, quel “mondo comune” di cui parla Enzo Bianchi, un mondo che è non solo necessario ma anche, speriamo e col nostro contributo, possibile. Senza conversioni, anche perché se gli altri diventano come noi qualcosa si perde. C’è una canzone di Giovanna Marini in cui dice che vorrebbe che Dio regalasse un altro pianeta a chi “non vuole né vincere né costringere né convincere, ma solo vivere, vivere, vivere con l’altra gente e tanto spazio attorno a sé.” Ecco, questo è quel pianeta che certi nostri incontri provano a prefigurare già su quello in cui stiamo adesso. Come scrive Morelli, “muoversi liberamente fra le meravigliose diversità del mondo”.
Una delle parole chiave del nostro tempo, e non solo, è senz’altro dialogo. Ma proprio perché è una parola lunga e vasta, ha bisogno di ragionamenti. Dialogo di chi, con chi, come? Dialogo, dialogo interreligioso, dialogo ecumenico… Ho trovato al tempo stesso commoventi e sconcertanti le immagini televisive del Papa a Istanbul. Commoventi perché qualunque incontro di pace lo è, qualunque momento in cui ci si parla oltre le barriere; e perché dire che è peccato uccidere in nome di Dio (o, come direi io, è un delitto uccidere, in qualunque nome) è un’affermazione che va ascoltata non solo a Oriente, ma anche in quell’Occidente dove i presidenti dicono che Dio gli ha detto di bombardare l’Irak. Sconcertanti perché mentre mi pare logico che il Papa e i suoi interlocutori agissero e dialogassero nel loro ambito interreligioso, mi pareva che i nostri media presentassero il dialogo interreligioso come l’unico dialogo possibile fra le culture - come se quindi le civiltà si riassumessero nelle rispettive religioni. E io? Con chi parlo, chi parla con me?
Di qui, due cose. La prima è che non mi riconosco in quei laici, tra cui leader politici a cui sono vicino, che ritengono che per poter dialogare col mondo cattolico devono annunciare in pubblico una loro privata tensione religiosa, una loro “ricerca di Dio” che li legittimi agli occhi dei credenti. In questo modo, infatti, smettono di dialogare da laici non credenti, impoveriscono il dialogo e smettono di rappresentare chi non condivide la loro ricerca (se questa esiste davvero).
La seconda è che le tavole di dialogo interreligioso che si aprono da varie parti, fra cui con aspetti molto interessanti a Roma, sono realtà necessarie e importanti, ma che dobbiamo stare attenti a non prevenire i rischi di stato confessionale costruendo uno stato pluriconfessionale.
E’ questa, per esempio, una parte importante dell’esperienza degli Stati Uniti. La separazione fra stato e chiese infatti non deriva storicamente da una laicità dello stato (l’invocazione a Dio è presente anche sui biglietti di banca) ma dal fatto che al momento della costituzione erano presenti molte chiese diverse, per cui lo stato sceglie di non riconoscersi in una ma in tutte (aggiungendo poi nel secondo dopoguerra, il riconoscimento della presenza ebraica e, più recentemente, omaggi formali all’Islam intrecciati con la sua demonizzazione). Il risultato è che in questo stato così formalmente separato dalle chiese la dialettica politica si gioca continuamente su rivendicazioni di fede spesso estreme e dogmatiche, e che dichiararsi fuori dal discorso religioso significa negli Stati Uniti mettersi in condizioni di minorità (o spingere a estremi un po’ assurdi una correttezza politica laicista tutta formale, come in certe campagne contro il presepe negli uffici postali).
Il dialogo di cui mi sento partecipe è, dunque, quel dialogo ecumenico di cui parlano i vostri documenti: un dialogo, cioè, che coinvolge tutti, senza pregiudiziali a priori, e che tutti ci trasforma e arricchisce. (Restando ancora a Roma: l’esistenza di due “tavoli” separati, uno per il dialogo interreligioso e uno per la laicità può essere funzionale per un po’ di tempo ma andrà alla fine superata). Sulla base dell’esperienza di Camaldoli, definite dialogo ecumenico come “apertura all’altro, silenzio e meditazione, fuga da un mondo che si è fatto sistema tritatutto, consumista e distruttore della natura.” E qui viene la storia che vi voglio raccontare.
Da circa tre decenni vado tutti gli anni in una zona marginale, periferica, povera degli Stati Uniti, la contea di Harlan, nel Kentucky. E’ una contea con una lunga, e oggi quasi cancellata, storia di conflitto sociale (spesso sanguinoso: la chiamano Bloody Harlan, Harlan la sanguinaria), oggi lacerata da violenze contro l’ambiente che avvelenano l’acqua e l’aria e fanno a pezzi gli alberi, la terra e le persone; e da un’endemica, tragica diffusione di droghe. Nel microcosmo di Harlan, sono presenti tutte le varietà dell’esperienza religiosa cristiana, dalle più liberali alle più estreme –da cattolici e anglicani ai pentecostali maneggiatori di serpenti. Ma quella che dà il segno decisivo è senza dubbio la variante evangelica o pentecostale che oggi riassumeremmo sotto l’etichetta di “fondamentalista”: interpretazione letterale della Bibbia, senso del sacro nell’esperienza ordinaria, narrazioni diffuse di visioni e miracoli, applicazione di norme religiose alla vita quotidiana (per esempio: divieto alle donne di tagliarsi i capelli), e così via.
Nei miei soggiorni a Harlan, sono generalmente ospitato presso famiglie di questo tipo. Vivo con loro, e con loro faccio una cosa che non mi viene mai di fare quando sono a casa: vado in chiesa. Vado in chiesa perché ci vanno loro, perché è quasi l’unico spazio sociale che esiste, perché vi si pratica musica coinvolgente e oratoria emozionante. E ogni volta, quando arriva il momento, dopo avermi salutato e dato il benvenuto, mi si chiede di “testimoniare”. E’ un momento sempre imbarazzante: lo sanno benissimo che non sono “salvato”, molti sanno o sospettano che sono comunista (cosa per loro quasi totalmente incomprensibile), ma mi conoscono, sanno che gli voglio bene e me ne vogliono in cambio. Così, navigo in questi miei interventi sulla lama di rasoio di un discorso che loro possano condividere, senza però fingere una religiosità che non sento. Parlo della distruzione degli alberi e delle montagne, contro cui anche questi cristiani fondamentalisti si organizzano e lottano; parlo della pace, in una piccola città che ha in questo momento 115 uomini in Irak; parlo delle cose di cui parliamo fra noi. Solo una volta hanno cercato di convertirmi (ed era una predicatrice venuta da fuori, che non mi conosceva); ma, anche sapendomi “non salvato”, mi hanno sempre accolto fraternamente nelle loro piccole chiese.
Se devo pensare alla mia più intensa esperienza di dialogo ecumenico, penso alla vecchia signora malandata e con le gambe piagate, incontrata nella chiesa di legno di Cranks Creek, che vedendomi straniero mi disse: “Tu vieni da oltre le acque, ma non sei un russo?” “Anche i russi sono persone”, dissi io. E lei: “E allora perché ci vogliono uccidere?” Ecco, cercai di spiegarle che non era vero, e lei mi stette a sentire.
La cosa profonda per cui ci vado però è ancora un’altra: le chiese dei miei amici spesso non hanno nessuno sull’altare; o, se sull’altare c’è qualcuno, è qualcuno che fa lo stesso mestiere e la stessa vita, contadino o minatore, dei fedeli sui banchi. Sono piccolissime comunità di poveri, in cui si parla, si canta, si testimonia a turno, soprattutto si sta insieme, e si evocano vibrazioni profonde delle emozioni più radicali, in cui la disperazione, la sofferenza, l’alienazione sono momentaneamente sospese dalla fratellanza. Non c’è niente da idealizzare, ci mancherebbe altro; fra loro ci sono ipocrisie, gelosie, falsità, razzismo come in ogni altro luogo. Ma nei momenti migliori con queste persone con cui non ho quasi niente in comune (fra l’altro non sono sicuro nemmeno di come votano) ha vissuto quello che voi chiamate dialogo ecumenico: “apertura all’altro”, cioè me; “silenzio e meditazione”, nei lunghi momenti di preghiera individuale; “fuga da un mondo che si è fatto sistema tritatutto, consumista”, e autodifesa collettiva contro un sistema “distruttore della natura.”
E c’è dell’altro: quelle vibrazioni della sensibilità religiosa che in me non sento, le ho percepite fra loro in certi momenti assai più che in tutte le liturgie con cui sono cresciuto. E’ un tipo di fervore, di apertura emotiva, di comunicazione fatta con la parola e con tutto il corpo, con la danza e con la trance, che mi mette un po’ paura e mi lascia fuori, ma che poi scorre sotto certi momenti entusiasmanti del meglio della cultura americana – per esempio, in certi culmini fusionali nei grandi momenti di partecipazione politica e magari in certi concerti rock. Quando Martin Luther King parla a Washington della liberazione degli afroamericani con lo stile anaforico, formulaico, ritmico, pieno di risonanze bibliche (i fiumi, le valli, le montagne) fa irrompere nella politica la passione profonda che ha imparato a esprimere nella sua chiesa battista di Montgomery. Quando Bruce Springsteen nel suo concerto a New York fa propria la modalità oratoria dei predicatori tradizionali e invoca “un battesimo rock and roll, un bar mitvah rock and roll”, traduce nel nostro mondo laico e un po’ trasgressivo quel fervore autentico che le chiese povere, bianche e nere, hanno tramandato come strumento di sopravvivenza e di umanità di fonte all’emarginazione, al razzismo, alla schiavitù, all’oppressione.
Nella sua lettera, Paola Patella ricorda di avermi conosciuto attraverso un mio scritto su Toni Morrison. Toni Morrison è venuta pochi giorni fa, con nostra grande emozione, a un convegno a lei dedicato a Penne, vicino Pescara. E ha detto qualcosa che risuona con certi vostri discorsi. I vostri documenti parlano della necessità di apprendere i principi della comunionalità, dell’amore, della convivenza, del dialogo. Non sono cose istintive, sono il risultato di un lavoro. Specularmente, Toni Morrison ha detto a Penne: “il razzismo, il pregiudizio, c’è bisogno di impararli” – nel senso che anche questi non sono atteggiamenti spontanei, con cui nasciamo, ma prigioni mentali in cui veniamo rinchiusi dal discorso violento che respiriamo ogni giorno. E allora, se razzismo e violenza sono cose che si imparano, possiamo rispondere a questa didattica spaventosa imparando, come qui si sta cercando di fare, il loro contrario.
E poi c’è un’altra cosa in Toni Morrison, uno dei momenti altissimi in cui il discorso religioso si fa davvero universale perché non ci vuole “né costringere né convincere”, ma solo aiutarci a guardare noi stessi fra gli altri. E’ il momento in cui Baby Suggs, santa, ex schiava, predicatrice senza ordinazione, sale su una grande pietra al centro di una radura, insegna agli oppressi, agli spezzati, ai frustati, ai marchiati, agli inseguiti, agli esuli, ai disprezzati a piangere e a ballare, e ad amare se stessi - a non tradurre la loro pena in odio, violenza, autodistruzione. Vorrei che Paola lo leggesse alla fine di questo intervento. Intanto, vi ringrazio per avermi invitato, vi ringrazio per avermi, spero, perdonato, e vi ringrazio per la pazienza di stare a sentire.
Qui, diceva, in questo posto qui, noi siamo carne, carne che piange e che ride, carne che balla a piedi nudi sull’erba. Amatela. Amatela tanto. Laggiù non amano la vostra carne. La disprezzano. Non amano i vostri occhi – sono capaci di strapparveli come se niente fosse. E non amano nemmeno la pelle della vostra schiena. Quelli laggiù ve la strappano. E miei cari, non amano le vostre mani. Loro le usano e basta, le stringono, le mozzano, le lasciano vuote. Amate le vostre mani! Amatele! Alzatele e baciatele. Usatele per toccare gli altri, battetele, accarezzatevi la faccia, perché non amano nemmeno quella. Siete voi che la dovete amare, voi. E no, non vogliono bene alla vostra bocca. Quelli ve la spaccano e poi ve la spaccano ancora. Non ascoltano quello che dice. Non ascoltano quello che grida. Quello che ci mettete dentro per nutrire il vostro corpo, ve lo rubano e in cambio vi danno gli avanzi. No, non amano la vostra bocca. Dovete amarla voi. E’ della carne che vi parlo, adesso. Carne che ha bisogno di essere amata. Piedi che hanno bisogno di riposare e di ballare, schiene che hanno bisogno di sostegni, spalle che hanno bisogno di braccia, di braccia forti, vi dico. E statemi a sentire, miei cari, statemi a sentire. Quelli non amano il vostro collo, bello, diritto, e senza cappio. Perciò amate il vostro collo, metteteci la mano sopra, trattatelo bene, accarezzatelo e tenetelo dritto. E tutte le parti interne, che quelli butterebbero ai porci, dovete amare anche quelle. Il fegato scuro, scuro – amatelo, amatelo, e anche il cuore che batte, batte sempre, amate anche quello. Più degli occhi e dei piedi. Più dei polmoni che non hanno ancora mai respirato aria libera. Più del ventre che racchiude la vita e delle parti intime che danno la vita, ascoltatemi, amate il vostro cuore. Perché questa è la cosa più preziosa che avete.
Cara Paola, e carissime amiche e amici,
Non trovo le parole per scusarmi abbastanza del fatto che ragioni che davvero non controllo mi sottraggano a un incontro a cui tenevo molto, e che molto mi incuriosiva. Conto sulla vostra comprensione, e su un’altra occasione che fisseremo presto.
Mi incuriosiva questa occasione, come anche quelle a cui ho avuto il privilegio di partecipare a Monte Giove, per una domanda elementare: come c’entro io, che non riesco a trovare in me neanche una traccia di tensione verso la religiosità, in esperienze di dialogo come la vostra, o come Monte Giove? Ed è una domanda che rivolgo in primo luogo a me stesso: come mai sono così contento quando mi capita di esservi coinvolto? Proverò a ragionarci sopra con alcune considerazioni e una storia.
Partirei da una definizione che ho trovato nelle vostre lettere di preparazione a questo incontro, e in cui credo di riconoscermi:
Laicità: non solo essere consapevoli dell’esistenza di altre differenze, ma esserne curiosi, con passione, sapendo di essere portatori di una parziale differenza, come ci ricorda Enzo Bianchi nel suo recente La differenza cristiana. Senza dimenticare la necessità di un mondo comune, che non è immediatamente, naturalmente, politicamente senz’altro dato, ma che è, se c’è, risultato voluto e costruito.
Ecco, mi accorgo che la stessa parola che ho già usato due volte – curiosità – ritorna nella vostra definizione di che significa essere laici: essere curiosi con passione, desiderio di conoscere ciò che noi non siamo. E’ anche per questo che passo il mio tempo facendo ricerca sul campo in luoghi diversi, che leggo e studio culture e lingue diverse dalla mia. Proprio il fatto di essere lontano dall’esperienza religiosa mi porta ad esserne un appassionato curioso, ascoltatore, indagatore. Certe volte ho pensato che di fronte all’esperienza e al discorso religiosi mi sento come una persona senza orecchio musicale portata a un concerto: c’è qualcosa nell’aria che io non sento ma gli altri sì, e magari se potessi capire di che si tratta mi divertirei di più. Aggiungo subito che lo stesso vale in direzione inversa: anche chi non ha orecchio per la laicità (e sono in tanti, anche fra i laici, a non avercelo!) rischia di chiudersi in una fortezza fideistica e non sentire cose preziose che sono nell’aria.
Allora forse una delle ragioni che mi commuovono e mi entusiasmano in questi contesti di dialogo è il fatto che ci ascoltiamo fra noi non nonostante, ma proprio perché esistono fra noi dei terreni non condivisi. Le molte cose che ci uniscono – la pace, la non violenza, l’uguaglianza… quel neminem ledere di cui parlate, che credo voglia dire non solo non fare male a nessuno ma anche cercare il bene di tutti – queste cose sono il terreno condiviso che ci permette di incontrarci su quelle che non abbiamo in comune: la fede degli uni, la distanza dalla fede degli altri; capire come fondazioni etiche differenti possono portare a valori comuni; e creare, su queste condivisioni e queste differenze, quel “mondo comune” di cui parla Enzo Bianchi, un mondo che è non solo necessario ma anche, speriamo e col nostro contributo, possibile. Senza conversioni, anche perché se gli altri diventano come noi qualcosa si perde. C’è una canzone di Giovanna Marini in cui dice che vorrebbe che Dio regalasse un altro pianeta a chi “non vuole né vincere né costringere né convincere, ma solo vivere, vivere, vivere con l’altra gente e tanto spazio attorno a sé.” Ecco, questo è quel pianeta che certi nostri incontri provano a prefigurare già su quello in cui stiamo adesso. Come scrive Morelli, “muoversi liberamente fra le meravigliose diversità del mondo”.
Una delle parole chiave del nostro tempo, e non solo, è senz’altro dialogo. Ma proprio perché è una parola lunga e vasta, ha bisogno di ragionamenti. Dialogo di chi, con chi, come? Dialogo, dialogo interreligioso, dialogo ecumenico… Ho trovato al tempo stesso commoventi e sconcertanti le immagini televisive del Papa a Istanbul. Commoventi perché qualunque incontro di pace lo è, qualunque momento in cui ci si parla oltre le barriere; e perché dire che è peccato uccidere in nome di Dio (o, come direi io, è un delitto uccidere, in qualunque nome) è un’affermazione che va ascoltata non solo a Oriente, ma anche in quell’Occidente dove i presidenti dicono che Dio gli ha detto di bombardare l’Irak. Sconcertanti perché mentre mi pare logico che il Papa e i suoi interlocutori agissero e dialogassero nel loro ambito interreligioso, mi pareva che i nostri media presentassero il dialogo interreligioso come l’unico dialogo possibile fra le culture - come se quindi le civiltà si riassumessero nelle rispettive religioni. E io? Con chi parlo, chi parla con me?
Di qui, due cose. La prima è che non mi riconosco in quei laici, tra cui leader politici a cui sono vicino, che ritengono che per poter dialogare col mondo cattolico devono annunciare in pubblico una loro privata tensione religiosa, una loro “ricerca di Dio” che li legittimi agli occhi dei credenti. In questo modo, infatti, smettono di dialogare da laici non credenti, impoveriscono il dialogo e smettono di rappresentare chi non condivide la loro ricerca (se questa esiste davvero).
La seconda è che le tavole di dialogo interreligioso che si aprono da varie parti, fra cui con aspetti molto interessanti a Roma, sono realtà necessarie e importanti, ma che dobbiamo stare attenti a non prevenire i rischi di stato confessionale costruendo uno stato pluriconfessionale.
E’ questa, per esempio, una parte importante dell’esperienza degli Stati Uniti. La separazione fra stato e chiese infatti non deriva storicamente da una laicità dello stato (l’invocazione a Dio è presente anche sui biglietti di banca) ma dal fatto che al momento della costituzione erano presenti molte chiese diverse, per cui lo stato sceglie di non riconoscersi in una ma in tutte (aggiungendo poi nel secondo dopoguerra, il riconoscimento della presenza ebraica e, più recentemente, omaggi formali all’Islam intrecciati con la sua demonizzazione). Il risultato è che in questo stato così formalmente separato dalle chiese la dialettica politica si gioca continuamente su rivendicazioni di fede spesso estreme e dogmatiche, e che dichiararsi fuori dal discorso religioso significa negli Stati Uniti mettersi in condizioni di minorità (o spingere a estremi un po’ assurdi una correttezza politica laicista tutta formale, come in certe campagne contro il presepe negli uffici postali).
Il dialogo di cui mi sento partecipe è, dunque, quel dialogo ecumenico di cui parlano i vostri documenti: un dialogo, cioè, che coinvolge tutti, senza pregiudiziali a priori, e che tutti ci trasforma e arricchisce. (Restando ancora a Roma: l’esistenza di due “tavoli” separati, uno per il dialogo interreligioso e uno per la laicità può essere funzionale per un po’ di tempo ma andrà alla fine superata). Sulla base dell’esperienza di Camaldoli, definite dialogo ecumenico come “apertura all’altro, silenzio e meditazione, fuga da un mondo che si è fatto sistema tritatutto, consumista e distruttore della natura.” E qui viene la storia che vi voglio raccontare.
Da circa tre decenni vado tutti gli anni in una zona marginale, periferica, povera degli Stati Uniti, la contea di Harlan, nel Kentucky. E’ una contea con una lunga, e oggi quasi cancellata, storia di conflitto sociale (spesso sanguinoso: la chiamano Bloody Harlan, Harlan la sanguinaria), oggi lacerata da violenze contro l’ambiente che avvelenano l’acqua e l’aria e fanno a pezzi gli alberi, la terra e le persone; e da un’endemica, tragica diffusione di droghe. Nel microcosmo di Harlan, sono presenti tutte le varietà dell’esperienza religiosa cristiana, dalle più liberali alle più estreme –da cattolici e anglicani ai pentecostali maneggiatori di serpenti. Ma quella che dà il segno decisivo è senza dubbio la variante evangelica o pentecostale che oggi riassumeremmo sotto l’etichetta di “fondamentalista”: interpretazione letterale della Bibbia, senso del sacro nell’esperienza ordinaria, narrazioni diffuse di visioni e miracoli, applicazione di norme religiose alla vita quotidiana (per esempio: divieto alle donne di tagliarsi i capelli), e così via.
Nei miei soggiorni a Harlan, sono generalmente ospitato presso famiglie di questo tipo. Vivo con loro, e con loro faccio una cosa che non mi viene mai di fare quando sono a casa: vado in chiesa. Vado in chiesa perché ci vanno loro, perché è quasi l’unico spazio sociale che esiste, perché vi si pratica musica coinvolgente e oratoria emozionante. E ogni volta, quando arriva il momento, dopo avermi salutato e dato il benvenuto, mi si chiede di “testimoniare”. E’ un momento sempre imbarazzante: lo sanno benissimo che non sono “salvato”, molti sanno o sospettano che sono comunista (cosa per loro quasi totalmente incomprensibile), ma mi conoscono, sanno che gli voglio bene e me ne vogliono in cambio. Così, navigo in questi miei interventi sulla lama di rasoio di un discorso che loro possano condividere, senza però fingere una religiosità che non sento. Parlo della distruzione degli alberi e delle montagne, contro cui anche questi cristiani fondamentalisti si organizzano e lottano; parlo della pace, in una piccola città che ha in questo momento 115 uomini in Irak; parlo delle cose di cui parliamo fra noi. Solo una volta hanno cercato di convertirmi (ed era una predicatrice venuta da fuori, che non mi conosceva); ma, anche sapendomi “non salvato”, mi hanno sempre accolto fraternamente nelle loro piccole chiese.
Se devo pensare alla mia più intensa esperienza di dialogo ecumenico, penso alla vecchia signora malandata e con le gambe piagate, incontrata nella chiesa di legno di Cranks Creek, che vedendomi straniero mi disse: “Tu vieni da oltre le acque, ma non sei un russo?” “Anche i russi sono persone”, dissi io. E lei: “E allora perché ci vogliono uccidere?” Ecco, cercai di spiegarle che non era vero, e lei mi stette a sentire.
La cosa profonda per cui ci vado però è ancora un’altra: le chiese dei miei amici spesso non hanno nessuno sull’altare; o, se sull’altare c’è qualcuno, è qualcuno che fa lo stesso mestiere e la stessa vita, contadino o minatore, dei fedeli sui banchi. Sono piccolissime comunità di poveri, in cui si parla, si canta, si testimonia a turno, soprattutto si sta insieme, e si evocano vibrazioni profonde delle emozioni più radicali, in cui la disperazione, la sofferenza, l’alienazione sono momentaneamente sospese dalla fratellanza. Non c’è niente da idealizzare, ci mancherebbe altro; fra loro ci sono ipocrisie, gelosie, falsità, razzismo come in ogni altro luogo. Ma nei momenti migliori con queste persone con cui non ho quasi niente in comune (fra l’altro non sono sicuro nemmeno di come votano) ha vissuto quello che voi chiamate dialogo ecumenico: “apertura all’altro”, cioè me; “silenzio e meditazione”, nei lunghi momenti di preghiera individuale; “fuga da un mondo che si è fatto sistema tritatutto, consumista”, e autodifesa collettiva contro un sistema “distruttore della natura.”
E c’è dell’altro: quelle vibrazioni della sensibilità religiosa che in me non sento, le ho percepite fra loro in certi momenti assai più che in tutte le liturgie con cui sono cresciuto. E’ un tipo di fervore, di apertura emotiva, di comunicazione fatta con la parola e con tutto il corpo, con la danza e con la trance, che mi mette un po’ paura e mi lascia fuori, ma che poi scorre sotto certi momenti entusiasmanti del meglio della cultura americana – per esempio, in certi culmini fusionali nei grandi momenti di partecipazione politica e magari in certi concerti rock. Quando Martin Luther King parla a Washington della liberazione degli afroamericani con lo stile anaforico, formulaico, ritmico, pieno di risonanze bibliche (i fiumi, le valli, le montagne) fa irrompere nella politica la passione profonda che ha imparato a esprimere nella sua chiesa battista di Montgomery. Quando Bruce Springsteen nel suo concerto a New York fa propria la modalità oratoria dei predicatori tradizionali e invoca “un battesimo rock and roll, un bar mitvah rock and roll”, traduce nel nostro mondo laico e un po’ trasgressivo quel fervore autentico che le chiese povere, bianche e nere, hanno tramandato come strumento di sopravvivenza e di umanità di fonte all’emarginazione, al razzismo, alla schiavitù, all’oppressione.
Nella sua lettera, Paola Patella ricorda di avermi conosciuto attraverso un mio scritto su Toni Morrison. Toni Morrison è venuta pochi giorni fa, con nostra grande emozione, a un convegno a lei dedicato a Penne, vicino Pescara. E ha detto qualcosa che risuona con certi vostri discorsi. I vostri documenti parlano della necessità di apprendere i principi della comunionalità, dell’amore, della convivenza, del dialogo. Non sono cose istintive, sono il risultato di un lavoro. Specularmente, Toni Morrison ha detto a Penne: “il razzismo, il pregiudizio, c’è bisogno di impararli” – nel senso che anche questi non sono atteggiamenti spontanei, con cui nasciamo, ma prigioni mentali in cui veniamo rinchiusi dal discorso violento che respiriamo ogni giorno. E allora, se razzismo e violenza sono cose che si imparano, possiamo rispondere a questa didattica spaventosa imparando, come qui si sta cercando di fare, il loro contrario.
E poi c’è un’altra cosa in Toni Morrison, uno dei momenti altissimi in cui il discorso religioso si fa davvero universale perché non ci vuole “né costringere né convincere”, ma solo aiutarci a guardare noi stessi fra gli altri. E’ il momento in cui Baby Suggs, santa, ex schiava, predicatrice senza ordinazione, sale su una grande pietra al centro di una radura, insegna agli oppressi, agli spezzati, ai frustati, ai marchiati, agli inseguiti, agli esuli, ai disprezzati a piangere e a ballare, e ad amare se stessi - a non tradurre la loro pena in odio, violenza, autodistruzione. Vorrei che Paola lo leggesse alla fine di questo intervento. Intanto, vi ringrazio per avermi invitato, vi ringrazio per avermi, spero, perdonato, e vi ringrazio per la pazienza di stare a sentire.
Qui, diceva, in questo posto qui, noi siamo carne, carne che piange e che ride, carne che balla a piedi nudi sull’erba. Amatela. Amatela tanto. Laggiù non amano la vostra carne. La disprezzano. Non amano i vostri occhi – sono capaci di strapparveli come se niente fosse. E non amano nemmeno la pelle della vostra schiena. Quelli laggiù ve la strappano. E miei cari, non amano le vostre mani. Loro le usano e basta, le stringono, le mozzano, le lasciano vuote. Amate le vostre mani! Amatele! Alzatele e baciatele. Usatele per toccare gli altri, battetele, accarezzatevi la faccia, perché non amano nemmeno quella. Siete voi che la dovete amare, voi. E no, non vogliono bene alla vostra bocca. Quelli ve la spaccano e poi ve la spaccano ancora. Non ascoltano quello che dice. Non ascoltano quello che grida. Quello che ci mettete dentro per nutrire il vostro corpo, ve lo rubano e in cambio vi danno gli avanzi. No, non amano la vostra bocca. Dovete amarla voi. E’ della carne che vi parlo, adesso. Carne che ha bisogno di essere amata. Piedi che hanno bisogno di riposare e di ballare, schiene che hanno bisogno di sostegni, spalle che hanno bisogno di braccia, di braccia forti, vi dico. E statemi a sentire, miei cari, statemi a sentire. Quelli non amano il vostro collo, bello, diritto, e senza cappio. Perciò amate il vostro collo, metteteci la mano sopra, trattatelo bene, accarezzatelo e tenetelo dritto. E tutte le parti interne, che quelli butterebbero ai porci, dovete amare anche quelle. Il fegato scuro, scuro – amatelo, amatelo, e anche il cuore che batte, batte sempre, amate anche quello. Più degli occhi e dei piedi. Più dei polmoni che non hanno ancora mai respirato aria libera. Più del ventre che racchiude la vita e delle parti intime che danno la vita, ascoltatemi, amate il vostro cuore. Perché questa è la cosa più preziosa che avete.
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