29 aprile 2019

Tutto il giorno di ieri sui media rimbalzava una notizia sconvolgente: gli organizzatori del “cosiddetto “Running festival” (ma che razza di nome!) di Trieste avevano deciso, “per il loro bene,” di non invitare atleti africani alla mezza maratona in programma ai primi di maggio e di “prendere soltanto atleti europei”.. Mi era paro un altro terribile segno dei tempi, e avevo mandato qualche riga di sconsolato commento al giornale. All’ultimo momento, dopo un paradossale tira e molla fra istituzioni, forse politiche, federazioni sportive e altri ancora (gli unici di cui non abbiamo sentito la voce sono gli atleti africani, non invitati neanche alla conversazione), gli organizzatori hanno fatto marcia indietro. E’ una cosa buona – l’ipocrisia, diceva Umberto Eco, è un omaggio del vizio alla virtù – ma il fatto che ci si fosse pensato, e le ragioni che erano state addotte, restano comunque un segnale su cui riflettere. Questo è, più o meno, quello che avevo scritto. In questo nostro ipocrita paese, esclusioni e discriminazioni si praticano sempre e soltanto per fare il bene dei i discriminati e degli esclusi: il mancato invito agli atleti africani, che questa gara rischiavano di vincerla, è dovuto alla benevola volontà di impedire “un mercimonio di atleti africani di altissimo valore, che vengono semplicemente sfruttati” da manager cinici e disonesti. E’ sempre lo stesso meccanismo: gli atleti vengono sfruttati, quindi noi li difendiamo non facendoli lavorare; tanti africani soffrono per la povertà e le guerre, quindi “aiutiamoli a casa loro” e intanto chiudiamo i porti e non facciamoli arrivare. L’analogia la conferma il sottosegretario allo sport Giancarlo Giorgetti che, pur prendendo le distanze dalla decisione degli organizzatori triestini, ha confermato che bisogna combattere “quelli che chiamo gli scafisti dello sport”. Gli scafisti, lo sappiamo, sono la foglia di fico di chi dice di voler combattere mediatori e sfruttatori – gli scafisti dei migranti, i manager dei maratoneti – mentre si accanisce sulle loro vittime, lasciando a casa i corridori e lasciando annegare i migranti. In realtà, comunque, la finta protezione agli sfruttati serve a proteggere altri. Spiega l’organizzatore Gianfranco Carini: “manager poco seri sfruttano questi atleti e li propongono a costi bassissimi e questo va a scapito della loro dignità […] di atleti e di esseri umani - ma anche a discapito di atleti italiani ed europei, che non possono essere ingaggiati perché hanno costi di mercato". Rieccoci, allora: i “negri” costano meno e portano via il lavoro ai nativi, come nelle campagne pugliesi e calabre. Proteggere la loro dignità serve a proteggere il valore di mercato degli autoctoni. Che lo sport sia essenzialmente una merce, e che il mercato si regga essenzialmente sullo sfruttamento, non è più né un mistero né, temo, uno scandalo. Lo sfruttamento degli atleti – ma non solo africani! – è una realtà. Ma se gli organizzatori triestini davvero ci tenevano a combattere queste storture e a difendere i diritti degli atleti africani un modo ci sarebbe stato: pagare anche a loro, aggirando i loro sfruttatori, il giusto ingaggio “di mercato” che offrono a tutti gli altri. Così non sarebbero sfruttati (non più degli altri, cioè), e non potrebbero fare concorrenza a ribasso a nessuno. Non mi pare che gli sia venuto in mente.. Eppure, in questo modo, non avrebbero salvato solo la dignità umana e i diritti economici degli africani, ma anche la dignità degli europei, a cui nessuno avrebbe potuto dire, a gara conclusa, che hanno vinto solo perché gli africani non c’erano.
Nel 1950, nel libro La folla solitaria, un testo destinato a diventare un classico, il sociologo americano David Riesman avvertiva che in tempi brevi la favola di Jack AmmazzaGiganti sarebbe stata sostituita dalla fiaba di Jack AmmazzaNani. Invece di ribellarsi contro i potenti, il cittadino della nuova società di massa si sarebbe accanito a schiacciare quelli meno potenti di lui. Aveva ragione: nelle periferie romane, e in tutta Italia, le rivolte popolari non rivendicano diritti ma li negano a chi ne ha ancora meno. Io credo che questo dipenda da un dato su cui abbiamo ragionato poco: queste sono le uniche lotte che gli abitanti delle borgate e delle periferie possono pensare di vincere, e che infatti vincono sempre. A Torre Maura distruggono il pane destinato ai Rom, e i Rom, democraticamente, vengono deportati; alla Magliana non vogliono che il parroco distribuisca pacchi alimentari ai Rom, e il parroco, cristianamente, smette di farlo. Sappiamo che a Torre Maura, come altrove, erano indignati per la condizioni delle case popolari, per i trasporti, per il lavoro, per altri reali disagi. Ma sapevano, senza bisogno di ragionarci sopra, che se avessero fatto i blocchi stradali per rivendicare che almeno gli riscaldassero le case durante l’inverno, non se li sarebbe filati nessuno, al meglio avrebbero avuto vaghe promesse, al peggio la polizia li avrebbe manganellati invece di proteggerli, e probabilmente non sarebbe cambiato niente. Non è che dopo la protesta contro i Rom nelle loro vite sia cambiato concretamente qualcosa; ma sono stati visibili, tutta l’Italia ha parlato di loro, e hanno vinto. Penso alla scena chiave di Moby Dick, quando l’ufficiale Starbuck dice al capitano Ahab: ma quanto vale la tua vendetta , in concreto, sul mercato? E Ahab gli risponde: ha un valore grandissimo qui, dentro di me. Quello che hanno vinto questi cittadini non è il riscaldamento invernale, ma la sensazione di essere cittadini e di avere dei diritti. A questo infine serve ammazzare i nani: per sentirsi cittadini con dei diritti bisogna costituire categorie di non-cittadini, di senza-diritti, che siano i Rom o i migranti, tali che ogni minuzia lasciata a loro sembri sottratta a noi, per cui negargliela ci dà la sensazione di ricevere una qualche forma di restituzione, immateriale e illusoria ma non priva di valore nella soggettività. E tutti a festeggiare la vittoria dei (mini)Golia su Davide. Qui forse sta un lato oscuro della nostra stessa modernità. Se il fascismo è la rivendicazione sfacciata del diritto di chi si sente forte di dominare i deboli, anche le grandi democrazie moderne hanno garantito diritti agli inclusi grazie all’esistenza di altri esclusi – grazie alla schiavitù nella democrazia nordamericana, al colonialismo nella democrazia britannica. Forse il cosiddetto sovranismo del nostro tempo è una manifestazione estrema di questa tendenza: la proclamazione dei diritti universali e umani è possibile solo se dall’universalità e dall’umanità qualcuno è escluso. Questo non giustifica niente: anche i bianchi rurali poverissimi e sfruttati dell’Alabama (e i tedeschi della Grande Depressione) avevano disagi reali, ma non per questo abbiamo pensato di relativizzare e attenuare il KuKluxKlan. Ma aiuta a ragionare, e a cercare come sconfiggerlo. Al di là della utile e interessante discussione sulla questione se le tendenze in atto prefigurino o no qualche forme di fascismo, infatti, direi che alla radice di tutto questo stanno, forse non solo ma certo in modo determinante, le trasformazioni della nostra democrazia reale, ed è su questo che dovremo lavorare. I giganti hanno cambiato natura. Da un lato, sembra che si siano materializzati: il potere si incarna nella persona (il corpo monocratico) del leader, che sia Berlusconi o Salvini o magari Renzi. Dall’altro, più si concentra in un idolo visibile, più il potere si smaterializza, si diffonde, si nasconde. Chi comanda davvero nella globalizzazione? “A chi possiamo sparare?” chiedono sia il contadino sfrattato di Furore, sia il disoccupato vagabondo di The New Timer di Bruce Springsteen. I giganti non sono solo potenti ma anche invisibili e irraggiungibili. Con chi se la pigliano i cittadini di Torre Maura – con la Raggi? Col comune (quale dipartimento, quale ufficio?), con l’Istituto case popolari (esiste ancora?), con le banche, col governo, con Soros…? Oltre tutto gli sembra, non senza motivo, che anche quelli che un tempo li aiutavano a organizzarsi per lottare contro i giganti siano diventati giganti essi stessi, magari un po’ meno malevoli, e siano andati a confondersi in mezzo ai loro simili. Più investiamo potere nel Capo, più ce ne spogliamo noi. I seguaci del Duce, del Capitano, del leader non hanno più diritti, ma ricevono solo concessioni (un reddito che si chiama “di cittadinanza” proprio perché ne è la negazione; o magari ottanta euro in busta paga) e gratificazioni emotive. Ma alla soddisfazione soggettiva e vicaria di identificarsi con il potere personalizzato del Capo carismatico si accompagna la sensazione di non essere altro che pedine in un gioco che non controlliamo. E’ una sensazione oscura, informe, non riconosciuta e non elaborata, e quindi incapace di manifestarsi se non in pure esplosioni di rabbia. Il “disagio delle periferie” non è che una forma del disagio generalizzato della cittadinanza, e non basta essere chiamati una volta ogni qualche anno a votare in un’elezione o una primaria per farci sentire che contiamo davvero qualche cosa. Più la democrazia si trasforma da partecipata in governabile, più il potere e la ricchezza si contraggono in mani sempre meno numerose e sempre più distanti, più il popolo sovrano si trasforma in plebe di sudditi governabili in cerca di sovranità residuali e illusorie. Facciamo bene ad andare a Torre Maura a manifestare contro il fascismo. Faremmo ancora meglio ad essere presenti sempre a Torre Maura, Magliana, Casal Bruciato, San Basilio, quando si tratta di garantire per tutti – “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, come dice un testo che dovrebbe esserci caro – i diritti fondamentali: la casa, la salute, il lavoro, la scuola, la partecipazione democratica, da cui gli ammazza nani si sentono, e in gran parte sono, esclusi. Antifascismo oggi è semplicemente questo: far funzionare la democrazia partecipata ed egualitaria prefigurata dalla costituzione che dalla sconfitta e negazione del fascismo nasce e si sostiene. Avviare il lungo e faticoso lavoro di ricostituire (e inventarne di nuovi) quegli strumenti che, stando fra noi ed i giganti, ci permettevano di resistergli e di controllarli. Restituire dignità e funzione al parlamento. Ridare forza ai sindacati. Restituire centralità alla scuola pubblica. Inventare forme nuove di presenza civile organizzata nelle città… Insomma: antifascismo è memoria storica, senza di che non si fa niente; ma è soprattutto difesa del futuro.