24 novembre 2009

White Christmas in Padania

il manifesto 24.11.2009

E’ proprio vero che siamo un paese di poeti santi e navigatori. Solo in un paese di geni assoluti poteva essere concepita l’idea, scaturita dalla fervida immaginazione di un paese del bresciano, di lanciare di qui a Natale una campagna di pulizia etnica e chiamarla “White Christmas.” La trovo un’idea entusiasmante. In primo luogo, perché spazza via tutte le menzogne mielate di quando ci raccontavano che a Natale siamo tutti più buoni: prendere spunto dal Natale per diventare più cattivi, e farlo in nome delle nostre radici cristiane mi pare un’operazione liberatoria di verità assolutamente ammirevole. Altro che cultura laica.
Qualche anno fa, quando il mio quartiere scese in piazza per impedire il trasferimento in zona di qualche famiglia rom, una compagna disse: “Non è razzismo, è cattiveria.” Scrissi allora, e mi ripeto: non distinguerei fra le due cose (il razzismo è cattiveria), ma trovo giusta questa parola, “cattiveria”, così elementare da essere caduta in disuso, perché qui è proprio l’elementarmente umano che sta in gioco. D’altra parte, un esimio leghista ministro della repubblica aveva già proclamato che bisognava essere cattivi con gli esseri umani non autorizzati. Disciplinatamente, fior di istituzioni democratiche eseguono: sbattono fuori dalle baracche i rom a via Rubattino a Milano e al Casilino a Roma e i marocchini braccianti in Campania, incitano i probi cittadini dei villaggi lombardi a denunciare i vicini senza documenti, premiano con civica medaglia intitolata a Sant’Ambrogio gli sgherri addetti ai rastrellamenti dei senza diritti. Fini dice che sono stronzi: no, non sono solo stronzi, sono malvagi.
Su un piano più leggero, trovo altrettanto geniale è proclamare che l’operazione si fa in nome dell’ incontaminata cultura lombarda e bresciana – e chiamarla con un nome inglese, per di più orecchiato da una canzone e un film americano. Non si potrebbe trovare un modo migliore per prendere in giro tutta la mitologia lombarda delle radici e della purezza culturale. Non è solo una bella presa in giro di quelli che mettono nomi lumbard sui cartelli all’ingresso dei paesi. Ma è anche un modo per ricordarci che non esiste cultura più paesana, più subalterna e più provinciale di quella che finge un cosmopolitismo d’accatto.
E infine, la trovata dell’inglese è una spietata denuncia dell’ipocrisia razzista. Dire “bianco Natale” significava mettere troppo in evidenza il colore della pelle, perciò lo diciamo con una strizzata d’occhio –dire le cose in inglese, non solo in questo caso ma più in generale ormai, significa dirle ma non dirle, è la nuova forma della semantica dell’eufemismo. E poi, “Christmas” invece di Natale: e hanno ragione, il nostro tradizionale Natale è sempre più sovrastato dall’americano Christmas, lasciamo perdere il misticismo e corriamo a fare shopping.
Aveva proprio ragione la mia amica appalachiana che diceva, “noi poveri di montagna non sognavamo un bianco Natale. Se nevicava, era più che altro un incubo.” Io non so che Natale sognino i senza documenti del bresciano, dopo questo bell’esempio di cristianesimo. La cosa che immagino è che, cacciati dal villaggio, gli stranieri sbattuti fuori di casa andranno a dormire in una stalla e faranno nascere i loro clandestini bambini in qualche mangiatoia.

Alle origini del "manifesto": la vicenda del CNR

nell'inserto sui quarant'anni dalla radiazione del manifesto dal PCI, 24.11.2009

La storia che racconto è una storia marginale, ma che può dare un’idea anche delle ripercussioni impreviste della proposta originaria del Manifesto in contesti meno conosciuti e raccontati. In questo caso, si tratta di una realtà fra le più improbabili: sostanzialmente un gruppo di impiegati statali che, fra radicalizzazione e ambiguità, mettono in moto un processo che finisce per coinvolgere il mondo della ricerca e dare origine a una nuova e insolita esperienza sindacale.
Negli anni ’60, io lavoravo al Consiglio Nazionale delle Ricerche, come impiegato nell’ufficio relazioni internazionali. La realtà sindacale era tipica del pubblico impiego: autonoma, e corporativa, con un sindacato autonomo per i dipendenti di gruppo A (direttivi), uno per il gruppo B (impiegati di concetto) e uno per il gruppo C (esecutivi), e uno, sempre autonomo, per il personale di ricerca. Era ancora necessario ottenere il nulla osta NATO per lavorare alle relazioni internazionali, cioè praticamente un certificato di non-comunismo, e infatti di comunisti conosciuti ce n’era solo uno in tutto il palazzo del CNR.
D’altra parte, la composizione dei dipendenti amministrativi vedeva una prevalenza ampia di giovani, assunti negli anni ’60, quasi tutti diplomati (molti ragionieri). Ci scambiavamo libri e idee, non si vedeva l’Unità ma facemmo un abbonamento comune all’Espresso. Aggiungerei che il CNR sta proprio accanto all’università e qualcosa filtrava. E la prima cosa che facemmo, appena diventammo leader dei rispettivi sindacati di categoria, fu di fonderli in un unico sindacato degli amministrativi (i ricercatori restavano un ambiente separato e meglio retribuito, con quale praticamente non c’erano contatti).
Poi arrivò il ’68, con le sue forme di lotta e i suoi discorsi antiautoritari ed egualitari. E qui scattano la radicalizzazione di alcuni, l’ambiguità corporativa di molti, la fragile e ambigua relazione tra i primi e i secondi. Il nostro sindacato infatti avanzò la rivendicazione della parità di trattamento fra personale amministrativo e personale di ricerca, e su questa base si arrivò nel luglio ’69 a una cosa inaudita: un’occupazione del CNR durata un mese, una vicenda probabilmente unica nel mondo dell’impiego pubblico romano.
Ora, noi eravamo mossi da un’idea di uguaglianza; la maggior parte dei nostri colleghi aveva soprattutto in mente un aumento di stipendio, come che fosse. Io credo che il nostro piccolo gruppo di avanguardia se ne rendesse tacitamente conto, e che in qualche modo si incontrassero due opportunismi: da un lato, quello della maggioranza che cavalcava il nostro radicalismo (e si compiaceva comunque del gesto trasgressivo dell’occupazione: un primo segnale della contraddizione fra forme di lotta radicali e obiettivi conformisti che sarebbe emersa in diversi settori negli anni seguenti); dall’altro, quello dell’avanguardia che fingeva di non accorgersene per tirarsela comunque dietro – sperando magari in una crescita di coscienza nel corso della lotta.
In realtà a crescere fummo soprattutto noi (anche se mi ricordo ancora con gioia la bellissima e definitiva radicalizzazione di un paio di segretarie). Ci furono due elementi che vennero fuori durante l’occupazione. Il primo fu che parecchi insospettabili colleghi si rivelarono essere comunisti iscritti al partito, che avevano tenuto le loro idee e la loro appartenenza accuratamente nascoste per anni: in questo senso, l’occupazione fu per diverse persone una vera e propria liberazione, una riconquista del diritto di parola. L’altro fu la rottura della barriera coi ricercatori. Loro non avevano nessuna rivendicazione in ballo nell’occupazione, ma condividevano la prospettiva egualitaria, per cui furono soprattutto i più politicizzati a venire e affiancarci: in quel periodo anche il mondo della ricerca era attraversato da pulsioni egualitarie radicali (per esempio: in alcuni laboratori si rivendicava che gli articoli scientifici dovessero essere firmati da tutti i partecipanti al progetto, compresi gli addetti al lavaggio delle vetrerie), e fu da alcuni di loro che una persona ingenua come me, senza nessun vero retroterra politico, cominciò a sentire per la prima volta il linguaggio, la terminologia, l’analisi marxista, a trovare le parole per spiegare quello che sentivo e che facevo.
L’occupazione si concluse infine con un nulla di fatto, ma il nostro gruppo di giovani attivisti aveva cominciato a prendere consapevolezza di sé e a cercare riferimenti. Io avevo appena letto le tesi del Manifesto, ed ero andato tutto solo a prendere contatto alla salita del Grillo, dove abbi la fortuna di parlare con Bruno (“Dado”) Morandi. Ne parlai con gli altri – ricordo alcuni nomi, di compagni per i quali il nostro ’69 non è stato solo un momento passeggero e modaiolo: Sandra Bailetti, Luciano Stella, Franco Lattanzi, Piero Albini, e decidemmo di riunirci a leggere insieme le tesi. “Se mi convincono solo per metà”, mi disse Albini, “aderisco anch’io”. Ci convinsero per più di metà. Credo che l’aspetto che ci convinceva di più era l’idea della rivoluzione come processo sociale, non rovesciamento subitaneo opera di avanguardie ma una vicenda lunga e complessa con al centro la classe. A me, e forse anche agli altri, questa visione della rivoluzione piaceva sia perché la trovavamo più realistica, meno romantica; sia perché sembrava de-enfatizzare il mito montante delle avanguardie e quello ancora più problematico della violenza. Nessuno di noi veniva dal Pci, anche se alcuni avevano famiglie di sinistra, e credo (per me, sono sicuro) che il Manifesto ci attraesse anche perché per noi non era una rottura con la storia del movimento operaio e della sinistra in Italia, ma anzi un modo per entrare a farne parte. Come forse anche altri allora, non stavamo uscendo dal Pci, ma entrando in un movimento “per il comunismo”.
E infatti successero un paio di cose divertenti. La prima fu che, senza starci tanto a pensare sopra, decidemmo che il nostro sindacato avrebbe aderito alla Cgil, e sull’onda ancora viva dell’occupazione riuscimmo persino a far passare la proposta in assemblea. Così un bel giorno Piero Albini e io ci presentiamo in corso d’Italia e (altro colpo di fortuna) veniamo ricevuti da Vittorio Foa. Di quell’incontro ricordo due cose. La prima fu che quando Foa sentì che eravamo del Manifesto chiamò nella stanza tutti i suoi collaboratori e gli disse: “Vedete? Questi sono del Manifesto, ma non sono diavoli, e non ci vedono come nemici.” Che è anche un segno di come vedeva il Manifesto lui, e come voleva che lo vedesse il sindacato. La seconda cosa fu che Foa ci disse: guardate, fino adesso la Cgil è rimasta fuori dal settore del pubblico impiego, ma stiamo ripensando questa scelta, quindi siete i benvenuti. Così, uscimmo da quell’incontro con l’orgoglio di sentirci dei battistrada, il primo (o almeno uno dei primi) sindacato Cgil del pubblico impiego (cosa che la nostra base impiegatizia visse con dubbi e col brivido della trasgressione: ricordo una collega che riconsegnò la tessera il giorno dopo la morte dell’agente Annarumma a Milano, come se la Cgil ci entrasse qualche cosa).
La seconda cosa fu decisamente paradossale. Come ho detto, avevamo scoperto che nei nostri uffici si annidavano almeno una decina di iscritti al Pci fino allora clandestini. Così, un altro bel giorno Piero Albini e io facemmo due passi fino alla federazione di via dei Frentani, non mi ricordo con chi parlammo ma comunque gli dicemmo: guarda, c’è un nucleo di compagni proprio qui vicino, al CNR, si potrebbe formare una cellula. Il compagno della federazione fu molto contento e fece due proposte: che si chiamasse cellula Ho Chi Minh (prontamente accolta), e che il segretario e vicesegretario fossimo Albini e io – e non dimenticherò mai il suo disorientamento quando gli dicemmo guarda, noi siamo venuti a portarvi i vostri iscritti ma noi non ci iscriviamo perché siamo del Manifesto (la cellula poi formalmente si fece, ma non mi pare che abbia avuto vita attiva ricordabile).
Non sono solo aneddoti paradossali: sono segni di una tensione allora molto forte, e destinata a produrre anche rotture, sulla natura stessa del Manifesto come gruppo politico, delle sue relazioni con i movimenti e col Pci. Una delle proposte organizzative in piedi era allora quella dei collettivi aperti (che a me arrivava anche dal Collettivo Edili Montesacro, dove cominciavo a militare e a frequentare, altro privilegio, Aldo Natoli): cioè di collettivi a cui partecipassero anche compagni non aderenti al Manifesto – cani sciolti o gente di altri gruppi o partiti - ma disposti a lavorare insieme sul terreno di cui questi collettivi si occupavano e a crescere e cambiare insieme con noi. In un certo senso, il direttivo del Sindacato Ricerca Cgil – a cui nel frattempo avevano aderito anche i ricercatori - era un collettivo del genere, composto di 11 persone di cui due del Pci (tra cui, per opportunità, il segretario), uno di Potere Operaio, e otto più o meno di area Manifesto. E devo dire che (salvo una volta in cui uno dei due Pci mi chiamò fascista perché criticavo l’Unione Sovietica) ci misuravamo sulle cose concrete e funzionavamo relativamente bene, comunque in buoni rapporti. Ma la proposta dei collettivi aperti non era destinata a prevalere nel futuro del Manifesto.
Nel frattempo, si era venuto formando anche il Collettivo Tecnici del Manifesto, soprattutto per l’impulso di Dado Morandi. Alcuni di noi naturalmente parteciparono, ma non ho ricordi di grandi elaborazioni e proposte conclusive sui temi di cui discutevamo. Discutevamo di neutralità della scienza, cercando di sottrarci alla tenaglia da una parte del fondamentalismo per cui “nel socialismo due più due farà cinque” e dall’altra del fondamentalismo per cui la scienza è sempre la stessa e cambia solo l’uso che se ne fa. Cercavamo di ragionare sul ruolo dei mass media, rifiutando le posizioni apocalittiche anti-TV, ma anche – col senno di poi – un po’ di eccessivo ottimismo sul futuro del sistema dei media in Italia. Piuttosto, l’esperienza del collettivo del CNR mi sembrava interessante perché – che ne sapessi io – era l’unico collettivo del Manifesto composto allora interamente da gente che lavorava (e che per quanto giovane aveva qualche anno in più), e quindi aveva tempi di lavoro e di vita quotidiana che difficilmente si armonizzavano con quelli della componente studentesca e dei politici a tempo pieno, che dettava i ritmi del lavoro politico.
Poi le cose andarono in pezzi. Alla fine del ’71, come Cgil Ricerca rilanciammo la lotta egualitaria: una richiesta di aumenti di stipendio inversamente proporzionali, contra la pratica abituale degli aumenti in percentuale che davano sempre più soldi a chi guadagnava di più. L’amministrazione colse il punto di principio, se ne allarmò, e rispose con una controfferta che ci parve profondamente umiliante: una tantum chiamata “befanone,” ovviamente proporzionale. Sostanzialmente, fummo travolti: impermeabili all’infantilizzazione implicita nel “befanone”, i nostri colleghi scelsero i pochi, maledetti, disuguali e subito rispetto al principio di uguaglianza che peraltro convinceva tanti di loro solo quando gli faceva comodo. Il nostro gruppo dirigente sindacale si disperse: dopo la proposta del compromesso storico, parecchi scelsero di entrare al Pci, e solo alcuni continuarono comunque l’impegno sindacale negli spazi che riuscirono a trovare (Piero Albini sarebbe diventato poi segretario della Camera del Lavoro di Roma); il mio Collettivo Edili finì per trovarsi fuori dal Manifesto, io colsi al volo la proposta di andare a lavorare all’università.
Non so che cosa resta di questa storia. Sicuramente, la crescita di alcune persone. Forse, se la analizzassimo, gli strumenti per un lavoro sindacale meno ingenuo e con meno rischi corporativi nel pubblico impiego e nei servizi, ma anche la consapevolezza dell’esistenza di spazi di alternativa e di radicalismo di cui fare un uso migliore. Una presenza sindacale nel settore della ricerca e della scuola (il primo incontro con la nascente Cgil scuola lo avemmo proprio durante l’occupazione del ’69). E forse, la cosa più importante di tutte, un piccolo romanzo di formazione di alcune persone che in questa storia sono cresciute e hanno continuato, attraverso tutti questi anni e in modi diversi, a dare il contributo di cui erano capaci a quello che è stata e quello che resta la sinistra in Italia.

21 novembre 2009

Hard Traveling in Kentucky and California

My friend Linda Eklund contributed this translation of an article I published in "il manifesto" last October.



Lexington, University of Kentucky. I am telling a social studies class about my research in Appalachia, and it occurs to me to tell them that I always have trouble getting reimbursed by the university for travel expenses because Harlanthe equivalent of one of our provincial capitalsis unreachable by public transportation so I never have a normal receipt give the administration. One girl asks, But you can get to rural towns on public transit in Italy? I tell her yes, by and large. At least until we took it in our heads to privatize everything, access to public transportation was more or less seen as a right of citizenship. They were floored: that the idea of rights might apply to something like public transit came as a complete surprise. Forget about healthcare, which is the topic of the day.
That evening, Rhonda, who left a medical career to be a musician, asked me ponit blank, How is your healthcare system? I explain that for all of the waste, bad politics and corruption, whatever it does is done for everyone. Here in the U.S. it is different, a lot depends on who you are. Jo Carsona poet, performer, and extraordinary playwright has a colon cancer. She has no insurance and no public assistance. Luckily, she is famous and her friends and readers are taking up a collection for her treatment. Maybe they’ll pull it off. For people who are not so well known and more alone, things are worse.
Gurney Norman, the poet laureate of Kentucky, tells me about a relative of his wife who also has a tumor. His insurance only agrees to pay a fraction of the cost. The opponents of healthcare reform say they are upset that state bureaucrats might decide matters of life and death, but it seems normal to them that private bureaucrats can do so on a profit-making basis. Fortunately this patient has knowledgeable, stubborn, well-connected relatives who mount such a huge legal and public relations ruckus that the insurance company caves in the end. But it is a power game and not very many come out winners.
A few days later in Santa Rosa, California, the local newspaper reports that one of the major HMOs - the organizations that manage insurance and treatment - has broken relations with the University of San Francisco and that its clients can no longer access the services of university specialists. The University and the HMO trade insults and accusations through newspaper ads. Lucia, a psychotherapist and wife of a university teacher, explains the excellent insurance coverage available to her family. It costs them a few dollars a month, it is tax-deductible, it covers almost everything with a co-pay of ten dollars a visit (free for certain preventive-care check-ups). She and her husband have had every sort of surgical treatment at very little cost. She says: I would be perfectly happy to pay more taxes if everyone could get these benefits.
Her husband just turned 65 and she is getting there. At that age all citizens qualify for Medicare, a reasonably efficient insurance program (They say: if Barak Obama had framed his proposal by calling it Medicare for everyone under 65 people would have understood it immediately and he would have had a lot less trouble). Except that Medicare does not materialize automatically. In the United States, many rights - starting with the right to vote - are only getable if you apply, and the system does not always make it easy to get in the door. Think how complicated it can be just to register to vote. Lucia tells me about the bureaucratic rigmarole she had to go through to get Medicare: form after ever-more-complicated form, lines, phone calls, long waits for bureaucrats who slammed the phone down on her, and Lucia says, I am informed, persistent and I know my rights. But what about older folks who are not as comfortable with written instructions, who don’t speak much English, who don’t have the courage to challenge the people behind the counter? One begins to think that the United states might be a little like the world imagined by Ghedini, Berlusconi’s attorney: Even when the law is equal for everyone, its exercise and its application need no be equal - a random matter of class.
From Lexington I have to go to Louisville. These are the two major cities in Kentucky, about the size of Bologna and Florence, and equally distant at about seventy miles. Notwithstanding the conversation in class the morning before, I am still innocent enough to think I can make the trip by bus. Naturally it doesn’t exist. And the train? Hardly. The plane ticket is priced way out of proportion, and I end up going by taxi; one hundred and ninety dollars, and I doubt that anyone will ever reimburse me.
Berkeley, California, where the Sixties started with the Free Speech Movement and the student uprising of 1964. Its raining and I duck into a café. I count 25 people sitting at 25 small tables separated from one another and absorbed in 25 computers. No one is talking – forget Free Speech. On second glance, I see a couple - both with their own computers. It looks like the lonely crowd that David Riesman talked about 50 years ago. I take a picture with my cell phone but the photograph doesn’t really capture the scene. I sit down at my own little table and I open a book.
That morning David Walls, one of the rebels from 1964, and I were talking about individualism in this country, and he rightly told me that there is a counter-narrative, the history of the benevolent community, of people helping each other and volunteering to help those in need. And it couldn’t be truer. It was true of the friends and readers who rushed to help Jo Carson. But the problem isn’t benevolence; it’s rights. And that the community, when it exists, risks dissolution. Everyone is bound to those who are far away, and separated from the people sitting beside them, like Calvinists believers united and alone in the face of God.
To get to David and his wife’s house in Santa Rosa I take the bus from San Francisco. Unlike Kentucky and most of the country, San Francisco is something of a paradise for public transportation. There is stupendous rapid transit, picturesque streetcars, and bus lines all over the Bay Area. It takes three hours to cover sixty kilometers, but its worth it. The landscape from the Golden Gate is fantastic. And they only talk Spanish on the bus.
In this car-focused country, public transportation is a good place to see the invisibles. Already a cyclist with the long white hair of an ex-hippie under his helmet got on the subway and launched into a long and fairly incoherent oration to his seat-mate about a book written by three Italians that explained all the mysteries of the Kennedy assassination, Oswald and Ruby (California is the world capital of conspiracy theories). But this is where you find the marginalized: riding the intercity buses. While I’m waiting, a black boy with flowing dreadlocks tells me a complicated story and ends by asking me for money to get home, he says. I give him a few dollars, thinking it isn’t the first time I’ve doled out money to a citizen of the world’s richest superpower, and he takes off. A little later a woman comes up. She stands by the bench for a while then breaks the silence: These niggers and Jews take up a lot of space and theyre only good for talking shit. And she shuts up. I freeze. She isn’t white; she could be Asian or Indian. On her wrists she is wearing the kind of pearl bracelets we usually associate with native artisans.
I find Lucia and David in Santa Rosa. Many years ago they adopted an Afro-American baby (with some white ancestry). The boy is older now, married to a Mexican girl, and they have two kids who are black, white, Latino, Indian, bilingual in English and Spanish, and really good-looking. If the world goes the way it ought to go, they are the future, the post-Obama generation. Maybe down the road they will feel confused and want to know what their real identity is. But no one will get to impose it on them from the outside as a prison and a stigma.
If the world goes the way it ought to go. But the old world still has a poison sac in its tail. The father of these children was let go (after training the people who took his place) and re-hired after six months without pay, with a six-month contract, with no insurance and no pension. The Louisville Courier-Journal reports on a judge in Louisiana (the most racially mixed state in the U.S.) who refused to sign a marriage license for a mixed couple. I’m worried about the kids, he explained, These marriages always go bad. Naturally, racism has nothing to do with it. Im not a racist. Its just that I dont think its right to mix the races this way. I have lots of black friends. They come over to the house. I marry them. They use my bathroom. The idea that you are tolerant because you allow blacks to sit on your toilet strikes me as a touch of absolute genius.
Everyone asks me, and I ask everyone, what they think of the Nobel peace prize for Barack Obama. Everyone I talk to is moderately content: So lets wait and see what he’s really going to do. But David succeeds in expressing what I also feel: Our task is not to stand around waiting and passing judgment. What Obama does depends on us, too. After the electoral success, some American progressives are sitting down on the job. But tomorrow David and a small group of activists will go to a demonstration holding placards in favor of new environmental laws. On the sidewalks of Telegraph Avenue, where everything started in 1964, they stop me to ask for a signature and a few dollars for the healthcare reform campaign. They won’t be enough to move the world, but fortunately they aren’t sitting down.