29 gennaio 2014

Per Pete Seeger

il manifesto 29.1.2014 “Dicono che l’umanità non sopravviverà a lungo, ma io vorrei sapere che cos’è che li fa essere così sicuri. L’ora più buia è sempre quella prima dell’alba, si sta facendo mattino, e io so che possiamo ancora avere singing tomorrows”, domani fatti di musica, “giorni cantati”. Così cantava Pete Seeger, e questa è stata la sua lezione per quasi ottant’anni di musica e di impegno. Nel corso della sua vita, Pete Seeger ha cantato le canzoni dei minatori e degli operai (“Which Side are You On?”) , gli spiritual di lotta del movimento per i diritti civili (“We Shall Overcome”), la protesta contro la guerra del Vietnam (“Waist Deep in the Big Muddy”), la mobilitazione per la salvezza dell’aria e dell’acqua della sua terra (“My Dirty Stream”); ha composto memorabili canzoni di libertà e speranza (“If I Had a Hammer”, “Where Have all the Flowers Gone”, “Turn, Turn, Turn”). Ma il senso politico della sua opera era ancora più radicale: stava nella profonda fiducia, così profondamente americana e così intrinsecamente classista, in quell’umanità di lavoratori, operai, contadini, gente comune che ha inventato la musica popolare e che costituisce la vera speranza di un futuro mattino dopo queste notti di tenebra. Per questo, faceva politica anche se cantava le canzoncine per bambini, le ballate epico-liriche affondate nel Medio Evo, o quei canti religiosi fatti per essere cantati insieme, da cui poi è venuta fuori tanta canzone operaia e sindacale. Faceva politica in primo luogo perché ribadiva la dignità e la presenza storica di coloro che avevano creato e trasmesso quei canti. Ma faceva politica anche perché voleva che quei canti, sovrastati dal rumore mediatico, ridiventassero bene comune, e ce li insegnava. Musicista sofisticato, li riproponeva in forma apparentemente semplice, che ti faceva sentire che tutto sommato avresti potuto cantarli anche tu; e in tutti i suoi concerti insegnava le canzoni e le faceva cantare, non per una retorica di “audience participation” ma perché chi le aveva cantate con lui in concerto se le sarebbe riportate a casa e le avrebbe conservate in sé. Il suo primo libro era una manuale per insegnare a suonare il banjo: la musica, insomma, era qualcosa da fare, non solo ascoltare; ed era un modo per ritrovare, tutti, la propria voce e farsi sentire. La prima volta che l’ho incontrato, Pete Seeger mi aveva dato appuntamento a un’assemblea della War Resisters’ League, una delle più antiche organizzazioni pacifiste americane. Era forse il più anziano dei presenti, e certo il più illustre; ma a riunione finita fu lui a prendere la scopa, pulire il pavimento e rimettere a posto le sedie. L’ultima volta, tre mesi prima dell’11 settembre, era proprio davanti al World Trade Center – aveva quasi novant’anni, era accompagnato e sostenuto da suo nipote Tayo - e cantava “Money Makes the World Go Round”, i soldi fanno girare il mondo. Fra questi due incontri, ne ricordo un altro: a metà anni ’80, a Lawrence, Massachusetts, dove si ricordava il memorabile sciopero del 1912 degli operai e delle operaie tessili immigrati da quasi trenta paesi, divisi da lingue e culture e uniti dalla lotta. Sul palco, Pete disse: “Adesso vi canto una canzone che vi può un o’ sorprendere. Ma vi prego di ignorare gli usi che ne sono stati fatti, gli stereotipi che ci si sono incrostati addosso, e di ascoltare semplicemente quello che dice.” Cantò “L’Internazionale”, e fu come se non l’avessimo mai sentita prima. Se sia mai stato tesserato comunista, preferiva glissare; ma quando fu convocato dal Comitato per la attività non-americane durante la caccia alle streghe degli anni ’50, si rifiutò di collaborare, di fare nomi, di dissociarsi. Con Woody Guthrie, Lee Hayes, Bessie Hawes e altri, aveva fondato prima della guerra gli Almanac Singers che per primi avevano riportato agli operai dei sindacati progressisti la loro stessa tradizione di canti di lotta. “La canzone popolare cresce se cresce il movimento operaio,” aveva scritto allora Woody Guthrie; Pete Seeger declinava questa massima in forma più ampia: la canzone popolare vive e cresce se crescono i movimenti popolari. Così, quando il movimento sindacale si allineò all’isteria anticomunista degli anni ’50 ed espulse la sua ala progressista, Pete Seeger non si fece rifurre al silenzio: trovò subito un altro movimento, e fu il grande mediatore che riportava le canzoni del Sud in lotta al pubblico urbano e progressista delle grandi città. Quando il Black Power emarginò i bianchi, lui era già in prima linea in un altro movimento, quello contro la guerra; e finita la guerra, inventò letteralmente un movimento ambientalista che riuscì a ripulire l’inquinato fiume Hudson e restituirlo alle sue comunità: radicale e internazionalista, non sdegnava le battaglie locali, le piccole preziose vittorie. Passa attraverso sconfitte, e non è mai vinto. La canzone sulla notte e sull’alba finisce dicendo: “E quando le tue mani non ce la faranno più, lascia la tua chitarra a qualcuno più giovane e più forte”. Quella sera, dopo l’assemblea della War Resisters’League, disse una cosa che mi sorprese: “Lo strumento della musica popolare del futuro è la chitarra elettrica.” Lui la chitarra elettrica non l’ha mai presa in mano: non era di quelli che si affannano ad essere aggiornati , i suoi strumenti erano altri. Ma vedeva il futuro, e lo vedeva in modo non dogmatico, e comunque diverso da sé. L’ultima memorabile immagine che abbiamo di lui è sul palco accanto a Bruce Springsteen, il giorno dell’inaugurazione di Barak Obama. Pete Seeger non ha mai preso in mano la chitarra elettrica, Bruce Springsteen non ha mai preso in mano il banjo; ma quel giorno era proprio come se la simbolica chitarra di Pete Seeger fosse passata di mano. Cantavano “This Land Is Your Land”, la grande bistrattata e malintesa canzone di Woody Guthrie, restituendo nel più solenne momento istituzionale le censurate strofe di protesta. Era come se Pete Seeger – bollato come nemico della patria e agente straniero mezzo secolo fa – si prendesse la sua grande rivincita sui suoi persecutori di mezzo secolo da fa: loro sono dimenticati, lui era ancora qui, e l’America migliore, quella della speranza e dell’alba, era la sua, non la loro. E sono davvero chitarre elettriche, come quella di Ani DiFranco (che ama definirsi folk singer) o di Tom Morello, o i rapper latini di Los Angeles, a raccontare oggi le lotte, la rabbia e la speranza. Però: Pete Seeger ci ha insegnato che prima di tutto vengono le voci, le voci dei ribelli, degli sfruttati, degli emarginati che si uniscono per cantare insieme. Sono sicuro che si sia commosso e consolato sentendo che, nei giorni intensi di Occupy Wall Stret, le due canzoni che si cantavano per la strada erano proprio “Which Side Are You On” e “We Shall Overcome”. Due canzoni che, anche se tanti di quei ragazzi non lo sapevano, ce le aveva insegnate lui.

Ricordiamoci di ricordare?

28.1.2014 Lunedì 27 gennaio, entrando per partecipare a un’iniziativa legata al giorno della memoria, gli studenti dell’Istituto Carlo e Nello Rosselli e del liceo Meucci di Aprilia, vicino Roma, hanno trovato davanti a scuola un gigantesco striscione con tanto di croce celtica e la scritta: “Ricordati di non ricordare”. A prima vista, la scritta è assurda: la memoria è una specie di muscolo involontario, a cui non si può comandare. Mi viene in mente un vecchio lato B di Elvis Presley: “I forgot to remember to forget” – mi sono dimenticato di ricordarmi di dimenticare. Se è vero che non si può ricordare a comando - e questo è uno dei problemi di tutte le commemorazioni e le memorie istituzionali - è vero pure che a comando non si può neanche dimenticare. Infatti, paradossalmente, quelli che non riescono a ricordarsi di dimenticare, che sono proprio ossessionati da queste memorie, sono proprio quelli che le vorrebbero cancellare. Tutti gli anni, fascisti e nazisti non riescono a far passare una giornata della memoria senza sottolinearla con scritte e striscioni indecenti, gesti ignobili e disgustosi (quest’anno, le teste di maiale) che non fanno che testimoniare quanto sia indelebile questo ricordo. Da un po’ di tempo ci domandiamo se la giornata della memoria non rischi la saturazione, la ritualità, la ripetizione scontata degli stessi contenuti. Può darsi. Ma finché ci sarà qualcuno che, come costoro, se ne sente minacciato, e si sente minacciato dal fatto che noi ricordiamo, allora anche questa data manterrà un senso.