25 novembre 2006

Nassirya e il silenzio. Un'esperienza

Sono uscito sconcertato e un po’ umiliato dalla seduta del consiglio comunale di Roma oggi, lunedì 20 novembre. E’ stato il punto di arrivo di diversi giorni in cui mi sono sentito sempre più, e da più parti, incapace di comunicare e di esprimermi.
Cominciamo dall’inizio. L’altro giorno, anch’io avrei voluto andare a manifestare per i diritti del popolo palestinese (non in sostegno dei suoi capi e dei suoi gruppi estremisti), per la fine dell’occupazione militare e della colonizzazione israeliana, per protestare contro la politica di “errori” (continuati e ripetuti) delle forze armate e del governo di un paese che rispetto e vorrei poter continuare ad amare. Non ci sono andato perché mi aspettavo quello che è successo: che una piccola frangia che per il momento chiamerò solo irresponsabile, con l’aiuto interessato di una stampa opportunistica e ipocrita, avrebbe imposto il proprio segno alla manifestazione e azzerato il senso della presenza di tutti gli altri. Perciò mi sono sentito espropriato tre volte: perché non me la sono sentita di andare; perché gli irresponsabili hanno coperto la voce di chi c’era andato come ci sarei voluto andare io; perché stampa e politici hanno scelto di amplificare loro e azzittire tutti gli altri.
Poi oggi, all’inizio della seduta, il presidente del consiglio comunale e tutti i non molti consiglieri presenti si sono alzati cerimoniosamente per stigmatizzare gli slogan gridati da una parte di manifestanti e per rendere omaggio ai “martiri” che hanno “dato la vita” a Nassiriya. Compiaciuto e oleoso, il portavoce di Alleanza Nazionale ha ringraziato e ritirato il suo ordine del giorno, e si è passati ad altro. Anche qui avrei voluto parlare, ma non ce l’ho fatta.
Avrei voluto dire, in primo luogo, che chiamarli “martiri” è un insulto alla memoria di questi uomini uccisi. I martiri testimoniano volontariamente di una scelta; questi uomini non hanno scelto di morire (non hanno “dato la vita”, gli è stata tolta). Non sono andati lì a cercar la bella morte e la gloria del sacrificio, ma - la maggior parte di loro almeno - con l’idea di tornarne vivi e magari comprarsi casa e mettere su famiglia coi soldi della missione. Chiamarli martiri è (fatte le debite proporzioni) come quando chiamiamo “olocausto” la Shoah, sovrapponendo l’immagine di una offerta sacrificale a quella che è una strage pura e semplice, quasi attribuendo alle vittime la volontà di morte di chi li ha uccisi o di chi li ha messi in condizione di essere uccisi. Sono morti perché altri li hanno mandati a morire, in una guerra illegittima, anticostituzionale, insensata, bugiarda – e poi piangono lacrime di coccodrillo e fanno capitale politico di una morte la cui responsabilità ricade su di loro.
Avrei voluto dire: e poi, per che cosa avrebbero dato la vita? La chiamano missione di pace, ma per portare la pace bisogna essere neutrali, terzi (come forse sarà in Libano), non certo gli alleati più fedeli della maggiore potenza belligerante. Guardiamo l’Irak, guardiamo l’Afghanistan: non abbiamo portato, non stiamo portando, né pace né democrazia. Se ne sono accorti perfino gli americani.
Avrei voluto dire: io penso che inneggiare alle stragi e auspicare che si moltiplichino è moralmente spregevole e politicamente cretino (ma la stupidità non assolve. Diceva Totò: anche i cretini non debbono abusare dei loro diritti di cretini). Ma noi che non lo desideriamo, voi che stigmatizzate, che cosa stiamo, che cosa state facendo per evitare il rischio di una, dieci, cento Nassiriya? E’ successo, quindi finché stiamo lì può succedere ancora. Se vuoi bene ai nostri ragazzi in Vietnam, cantava Pete Seeger, fai la cosa più semplice: riportali a casa. Se si fosse fatto come dicevamo noi, come dicevano i milioni di esseri umani che hanno marciato contro la guerra, sarebbero ancora vivi.
Avrei voluto dire: questa città è piena di svastiche e scritte naziste, persino davanti a via Tasso. In questa città sfilano gridando slogan assassini i più beceri estremisti di destra. In questo paese, i ragazzi che picchiano e umiliano i loro compagni down scrivono slogan nazisti alla lavagna. Ma non ho visto il consiglio comunale alzarsi compunto in piedi e stigmatizzare queste oscenità, e questo silenzio svuota di senso anche le vostre parole di oggi. Abbiamo commemorato Oriana Fallaci (pessima giornalista, visto che da anni scriveva falsità) e non una parola su Anna Politkovskaja. O su Tiziano Terzani.
Avei voluto. Perché non l‘ho fatto? Dopo tutto, forse sono stato eletto anche perché lo facessi. Ma mi sono sentito soffocare da un senso avvilente di inutilità che è difficile spiegare a chi non segue questi cerimoniali. In questi mesi, mi sono reso conto che se uno si aspetta che il consiglio comunale sia il luogo della discussione politica e culturale, o almeno una tribuna da cui parlare alla città, farà bene a ridimensionare le sue aspettative. C’entra forse l’inadeguatezza del ceto politico, di cui mi sento anch’io parte (ascoltare le tirate demagogiche e populiste della destra è istruttivo ma sconfortante; e la maggioranza, proprio perché si sente tale, non perde tempo a spiegarsi); c’entra il fatto che gli schieramenti sono precostituiti e sostanzialmente impermeabili; c’entra che i luoghi delle decisioni di fondo sembrano collocarsi altrove; c’entrano le mille incombenze quotidiane: che non sono né inutili né prive di senso (anzi, richiedono un impegno costante e una competenza specifica da parte di persone responsabili), ma volano a tutt’altra quota. Soprattutto (specie dopo una riunione sospesa perché nessuno stava a sentire chi parlava; oltre tutto, l’acustica è infame) hai la sensazione che su queste cose non parli a nessuno, che al massimo fai teatro per il tuo consenso o per metterti a posto la coscienza, e non mi interessava. Sono tornato a casa avvilito e, per riprendermi un po’ il diritto e il dovere di parola, ho scritto queste righe.

Consigli ai democratici: le elezioni di medio termine negli Stati Uniti

Scrive un’amica dal Kentucky: “Ma chi l’avrebbe mai pensato che sarebbe stata la nostra, conservatrice, nostalgica Louisville a spostare l’ago della bilancia e far eleggere un democratico dopo generazioni di repubblicani in questo stato repubblicano fino al midollo? Cose sorprendenti succedono sotto il cielo…” Scrive un amico dal Tennessee: “Ha vinto la classe operaia, dall’Indiana al Kentucky a tutto il nordest industriale e hanno vinto i candidati che hanno parlato di guerra collegandola a lavoro e sanità e scuola”. Chissà se esagera. Comunque, scrive un’amica da New York: “Almeno per un po’ respiriamo, poi forse non cambierà molto ma un segnale l’abbiamo dato”.
Mi fa effetto che non erano neanche arrivati i dati finali e un sacco di gente si attaccava al computer per mandare messaggi di sollievo. Si respirava proprio male negli Stati Uniti da almeno sei anni a questa parte. Magari non è detto che ci sarà chissà che aria nuova, ma almeno tanti americani hanno mandato un messaggio che non permette equivoci: la vecchia era diventata insopportabile.
A chi è stato mandato, questo messaggio? A Bush e ai suoi, non c’è dubbio (ma non sono sicuro che l’abbiano recepito, visto che continuano a dire che vogliono lasciare l’Irak ma solo dopo aver vinto la guerra). Però io credo, spero, che qualche cosa sia arrivata anche ai democratici. La grande maggioranza di loro, a partire dalla trionfante Hilary Clinton, in questi anni si è affannata a dimostrarsi patriottica sostenendo o lasciando passare praticamente tutte le nefandezze antidemocratiche dell’amministrazione Bush – e hanno continuato a perdere. Adesso hanno vinto non perché si siano armati finalmente di coraggio, cosa che è avvenuta in misura molto molto ridotta, ma perché in un sistema bipolare bloccato gli elettori non avevano altro modo per dire che quella politica di cui i democratici stessi sono stati complici e subalterni non la vogliono più. Avranno il coraggio di darsi da fare per cambiarla davvero? Adesso che la maggioranza parlamentare è cambiata, la lotta per la pace e contro le scandalose sperequazioni di ricchezza e livelli di vita e di istruzione è appena cominciata: bisogna che il nuovo congresso si senta sul collo il fiato di milioni di americani che vogliono segni chiari di differenza e di novità.
Ma gli elettori stessi ne saranno capaci? E’ certo un bel segno di normalità democratica il fatto che si siano decisi a votare finalmente contro il governo che avevano rieletto appena due anni fa. Ma è mai possibile che per farlo abbiano dovuto aspettare di essere sicuri che questa guerra non si poteva vincere? E’ mai possibile che i media che oggi sparano a zero su Bush e Rumsfeld per le loro bugie sull’Irak non lo sapessero già tre anni fa, quando lo sapeva tutto il resto del mondo, che erano tutte falsità? Allora, c’è da sperare che il messaggio questi elettori lo abbiamo mandato anche a se stessi, come protagonisti della democrazia, soggetto politico sovrano e opinione pubblica: basta con le deleghe in bianco ai governanti, basta con la subalternità e complicità dei media nei confronti delle verità della Casa Bianca (e della subalternità dai cittadini al sistema dominante dei media). Perché se in Irak sono morti tremila americani e forse seicentomila iracheni, la colpa non è solo di Bush e Rumsfeld, ma – in una democrazia – è responsabilità anche loro che li hanno lasciati fare, che dopo un’elezione rubata gliene hanno regalata un’altra – forse – regolare, e che quando il loro democratico governo ha legalizzato intercettazioni clandestine e metodi di tortura non hanno avuto un democratico moto di repulsione e di protesta. Ed è anche colpa dei media, così lontani in tutti questi anni da quel mito della libera stampa americana che ci hanno regalato Hollywood e i filoamericani mitici di casa nostra. Avranno gli operatori dell’informazione il coraggio, dopo questo voto, di ritrovare la loro autonomia di coscienza e la loro capacità di cercare il più possibile la verità, oppure dovremo continuare a consolarci coi ricordi un po’ sbiaditi di Ed Murrow o Lincoln Steffens?
In gran parte, la passività di cui hanno approfittato Bush e la sua banda è stata in questi anni il prodotto di uno scoraggiamento profondo, della convinzione che non si poteva vincere. In un paese dove la parola “liberal” (che da noi è l’unica ideologia permessa) è diventata un insulto innominabile, sembrava che solo la destra fondamentalista, militarista e monopolistico-clientelare avesse il polso della realtà e della storia. Gli altri erano rappresentati, e un po’ si percepivano, come nostalgici, passatisti, rassegnati, fuori del tempo… E invece adesso si renderanno conto che magari non saranno proprio born to win, nati per vincere (come diceva Woody Guthrie), ma nemmeno a priori nati per perdere (born to lose, per dirla con Johnny Cash e Ray Charles). Un po’ meno scoraggiamento al centro e a sinistra, un po’ meno arroganza e certezza dell’impunità a destra, e si può, umilmente e un gradino per volta, ricominciare.
E infatti. Non ci facciamo spaventare troppo dal fatto che sette stati hanno approvato emendamenti contro iol matrimonio fra coppie dello stesso sesso. Ho sotto mano un comunicato stampa della National Gay and Lesbian Task Force secondo cui le cose sono meno nere di quanto si possa pensare. In primo luogo, c’è stato anche un ostato, l’Arizona, in cui per la prima volta nella storia un emendamento simile non è passato. Poi, le percentuali anche degli altri stati mostrano un margine assai più ridotto di quello che si poteva immaginare: nel 2004, solo il 31% degli elettori aveva difeso i diritti dei gay e delle lesbiche; adesso, in almeno cinque stati la percentuale ha superato il 40% (e se l’Oregon era immaginabile, al Virginia è proprio una sorpresa). E i candidati più volgarmente anti-gay sono stti clamorosamente battuti quasi dovunque. In Wisconsin, Michigan, Ohio, Oregon, sono stati eletti governatori che avevano preso chiare posizioni antidiscriminazione in campagna elettorale. Insomma, anche su questo difficile terreno, qualcosa si muove.
Perciò, ecco un altro messaggio, con echi anche da questa parte dell’oceano: la mobilitazione politica della destra religiosa può funzionare per un po’ di tempo ma non può funzionare per sempre. In parte, perché se mobiliti la gente sul piano dei valori, un po’ ci devi credere e un po’ li devi praticare; se fai balenare alla gente obiettivi teocratici irrealizzabili anche in democrazie ammalate come quella degli Stati uniti e come la nostra, poi si accorgono che ti sei solo servito di loro e li hai presi in giro. Ma anche, molto, perché in fine questi famosi fondamentalisti cristiani non sono solo fondamentalisti ma anche cristiani (e in maggioranza cristiani non ricchi), e tra i valori del cristianesimo (e dell’occidente) ci sarebbero anche la pace, il non ammazzare, un minimo di solidarietà e di aiuto ai più deboli. Non è facile continuare a mobilitare dei cristiani contro questi valori che sono anche loro.
Sospetto che, nel profondo, la svolta sia cominciata più con Katrina e New Orleans che con l’Irak: è stato allora che si è visto quanto poco di cristiano avesse quel governo, e che i media hanno ripreso un po’ di dignità. Chissà se anche da noi i teo-con e gli atei devoti continueranno a credere di stare al passo con la storia e con la modernità americana scimmiottando quel perdente di Carl Rove.

14 novembre 2006

La serietà operaia. Vita di Ferruccio Mauri, comunista ternano

(in corso di pubblicazione nella rivista dell'ICSIM, Istituto per la Storia d'Impresa, Terni)

Ho incontrato Ferruccio Mauri nella primavera del 1983. Ero già in una fase avanzata della mia ricerca sulla storia orale di Terni, dei suoi antifascisti e della sua classe operaia, e mi accorsi subito di trovarmi di fronte a una figura diversa da quelle che avevo incontrato fino allora, figure storiche della resistenza e dell’antifascismo, da Arnaldo Lippi a Remo Righetti a Bruno Zenoni. Basta guardare le date: Lippi era del 1899, Righetti del 1901, Zenoni del 1908. Ferruccio Mauri, nato nel 1926, apparteneva a una generazione diversa, che non aveva memoria diretta delle lotte operaie prima del fascismo, delle organizzazioni proletarie e della loro cultura.

Perciò la storia che raccontava non era tanto quella di una tenace opposizione negli anni della dittatura, quanto quella di una presa di coscienza graduale, di una scoperta delle ragioni di classe e della democrazia: “A casa mia non ciavevo né fascismo né antifascismo: facevo la vita del ragazzo in una famiglia che vive per campare, senza interessarsi a queste grandi problematiche”, raccontava. Anche se non veniva da una famiglia “non borghese, ma nemmeno poverissima” e comunque non operaia, respirava la concreta durezza dei rapporti di classe nella città-fabbrica: “non è che c’era un discriminazione nei confronti della classe operaia, ma tu sentivi delle chiusure. Si sentivano, erano corpose; io l’ho inteso come catene.”

Ma l’immaginazione adolescenziale e la pervasiva propaganda del regime lo portano a sognare vie d’uscita fantastiche e avventurose. La famiglia, la parrocchia, soprattutto la scuola gli parlano una lingua di disimpegno da una parte e di “sfrenato nazionalismo” dall’altra, e lui non ha ancora le risorse per costruirsi discorsi alternativi: “io da ragazzetto avevo frequentato anche la parrocchia insomma, no; al Sacro Cuore”; “Io stavo in una scuola, la scuola industriale, frequentata da figli d’operai. Un preside fascista; anche in modo smodato e scorretto. E gli insegnanti fascisti; e quindi un’educazione fascista. E poi l’avventura, la guerra, un fatto nòvo che rompeva il trantran forse.” Sono gli anni dell’impero, della guerra, e come tanti ragazzi di allora anche Ferruccio Mauri è preso dall’entusiasmo: “Me ricordo una grossa manifestazione fatta dagli studenti, a corso Tacito, me ricordo una bara, perché la portavano due ragazzi della mia scuola.”

E tuttavia, ha già imparato, comunque, a guardare le cose con i propri occhi e misurare i miti sulla stregua di quello che vede. A posteriori, rintracciava forse ottimisticamente “una carica anticapitalistica, in modo larvato, da incosciente” persino nella retorica antiplutocratica del regime. E quando i miti gli sfilano davanti, il suo sguardo è già dissacrante:

Io me ricordo quando tornò a Terni la XXIII Marzo [dall'Etiopia]. Allora facevo le scòle elementari. Ce fu il ritorno de questo battaglione; e mi ricordo che co' le scòle ci portarono ad occupare gli appartamenti che davano su via Roma. Quando rientravano questi, tutti baldanzosi, e noi a gettàgli i fiori de sopra. Per me Badoglio era un dio, no; il conquistatore dell' Africa. E la cosa che lo ricondusse a mortale fu il fatto che mentre era li, a presenzia' alla manifestazione, si soffiò il naso con un fazzoletto. lo non potevo immaginare che un dio se soffiasse il naso con un fazzoletto. Allora andiedi a casa e dissi, "ma porca l'oca, ma come mai Badoglio se soffia il naso con il fazzoletto come noi?"

Le catene dei rapporti di classe presto indirizzano la sua vita in una direzione molto diversa e molto più dura. A quattordici anni, Ferruccio Mauri è apprendista alle acciaierie, dove in un’officina scuola non impara solo un mestiere e una disciplina di lavoro, ma anche un’altra logica. La fabbrica è davvero una scuola alternativa:

E lì feci i primi bagni diciamo cosi colla realtà e industriale e produttiva, vero. Il prim'impatto fu terribile, proprio. Me ricordo che c'era 'n operaio, un vecchio operaio che si chiamava, io me lo ricordo ancora, Materazzi; e io gli dissi: "Come so' i capi qui dentro?" Questo me guardò tutto burbero, me fa: "Ricordete 'na cosa, barda' - barda', ragazzo, no? dice, - che qui, devi ammazza' quelli più bòni, e colle budella ce devi strozza' quelli più cattivi". lo rimasi, dico, allora so' tutti nemici qui intorno?

La lotta di classe è una scoperta graduale. In tempo di guerra, passa attraverso “la militarizzazione degli operai”, per cui ogni ritardo, ogni errore, diventa “un sabotaggio verso la produzione bellica”. Ma il vero rito di passaggio, il momento del cambiamento è un altro. Anche qui, Ferruccio Mauri, ancora ragazzo, impara dagli operai – dai loro sguardi, dai loro silenzi. E’ uno dei più bei racconti, anche da un punto di vista proprio “letterario”, che io abbia mai sentito.

E di quel primo periodo all' acciaieria ricordo che portarono tutte le maestranze, allora le chiamavano le maestranze, dell' acciaieria, a piazza Tacito, c'erano gli altoparlanti, la radio che doveva trasmettere il famoso discorso diciamo di guerra di Mussolini, no. E la cosa che m'impressionò - qui ci possono essere delle discordanze, ma quelli che erano vicino a me... lo ero entusiasta della guerra; io ero ragazzetto, l'avventura. Erano quattro giorni che stavo all'acciaieria, avevo partecipato come studente a tutte le manifestazioni pe' la Corsica, pe' la Savoia, pe' la Tunisia, e tutte 'ste cose qui. lo mi ricordo che entrai all'acciaieria che non vedevo l'ora che scoppiasse la guerra. Ma, c'era l'ingenuità del ragazzo; e il fatto della novità, insomma era un fatto nòvo. E andiedi a quest'adunata d'operai; e intorno a me vidi, mentre sentivo che a Roma si battevano le mani - ma forse anche a piazza Tacito; ma coloro che erano vicino a me li vidi fortemente preoccupati. Cioè per la prima volta - questa non è che faccio poesia - vidi la serietà operaia, la preoccupazione. Anche se io non riuscivo a capire le cause. Mentre io gioivo, a Roma si battevano le mani, e attorno a me - perché altri potranno dire, "no, hanno battuto le mani" ma attorno a me, gli operai che stavano con me mostravano forte preoccupazione. Forte preoccupazione.

Questa dunque è la storia di come Ferruccio Mauri si trasforma da ingenuo ragazzo entusiasta della guerra in espressione matura della “serietà operaia”. Certo, non avviene di colpo, in un momento; ma la grandezza di un racconto sta proprio nel modo in cui riassume in un simbolo, un’epifania, un lungo percorso della soggettività.

Ho usato spesso, anche all’università, questo racconto per spigare come funziona la logica della narrazione in età moderna: non più un narratore “onnisciente” (il Manzoni dei Promessi sposi, per esempio), che sa la storia tutta intera ed entra dentro i pensieri e i sentimenti dei personaggi; ma un narratore parziale, coinvolto e circoscritto. La piazza di Terni descritta da Ferruccio Mauri somiglia molto a pagine dei grandi romanzi modernisti, a Henry James o a Joseph Conrad. Il narratore non ci dice com’è, come ragiona la classe operaia: vede solo i volti, e ci dice in che modo quei volti hanno cambiato lui.

La sua autorità narrativa viene precisamente dai suoi limiti. Da un lato, proprio le incertezze, le frasi sospese, le false partenze del racconto riproducono nell’atto narrativo la difficoltà del processo di cambiamento vissuto in quel momento dal narratore. Dall’altro, il suo è un racconto fra i molti possibili (“qui ci possono essere delle discordanze”) ma è un racconto credibile proprio perché racconta solo quello che vede (“intorno a me…”). Soprattutto, il modo in cui Mauri interpreta lo spazio, i volti, i silenzi attorno a sé diventa il cardine della sua nuova coscienza. Basta pensare a come l’opposizione fra la Roma imperiale da cui viene la voce del Duce, e la Terni proletaria segnata dal silenzio operaio serve a istituire una continuità fra l’identità cittadina, l’identità di classe, e l’identità personale in formazione. Da questo momento, Ferruccio Mauri è uno di quegli operai, e la “serietà operaia” diventa il tratto centrale del suo carattere.

Mauri non faceva un’epica di se stesso. Sarebbe stato facile, per uno che a 17 anni era partigiano in montagna, dire che la coscienza ce l’aveva innata. E invece il suo era un racconto essenzialmente ironico, animato dalla distanza fra l’uomo maturo che narrava e il ragazzo incerto, in una lunga fase evolutiva, di cui parlava. L’orgoglio stava proprio in questo processo lungo di formazione e trasformazione sempre parziale, in cui tutto cambiava e niente veniva rinnegato. Non è un caso che, nell’altro racconto iniziatico della sua esperienza partigiana, Mauri invita espressamente chi ascolta a interpretare da sé la storia raccontata:

Tant' è che io quando - ecco, qui l'esempio poi costruitelo come ve pare - io andetti in montagna la sera stessa dell'8 settembre. Dopo ci fu un fatto a Narni: uno di Narni uccise un tedesco, e venne a rifugiarsi dove stavamo noi, su a San Pancrazio. All'epoca, credo che fosse nel gennaio o febbraio del 1944. Questo, siccome lo conoscevo già da Narni, me fece, disse, "qui stiamo bene, posso sta' sicuro, qui siamo tutti comunisti". "Ma che comunisti, che comunisti, - dissi, qui no, qui siamo antitedeschi", insomma. Per dirti, io ancora nel gennaio del '44, pur essendo passato nella trafila della fabbrica, non riuscivo ad essere - ero un ragazzo de diciassett'anni, indubbiamente, con tutte le carenze politiche culturali di un ragazzo de diciassett'anni, ma, non ero un comunista. lo me ricordo 'na cosa: io la prima sera che andetti a San Pancrazio, sul monte, siccome venivo da 'n certo tipo de famiglia, non borghese, ma nemmeno poverissima, ecco, nemmeno poverissima, come educazione, io da ragazzetto avevo frequentato anche la parrocchia insomma, no; al Sacro Cuore. E per me la sera si concludeva sempre col nome del padre e il bacio del padre e della madre prima d'anda' a dormi', no. Ma io per lunghe notti, le prime notti, a San Pancrazio, non ho mai dormito perché me vergognavo da fàmmi il nome del padre e fàmme vede', insomma, no.

Ferruccio Mauri non è comunista all’inizio della sua esperienza partigiana; ma continua a cambiare. Dopo la liberazione di Terni, si arruola nel gruppo di combattimento “Cremona” per continuare la guerra di liberazione fino al nord; e la sua immaginazione è già diversa. Ricorda un momento difficile, “in cui ci stavamo prendendo un mucchio di botte dai tedeschi, e stavamo lì lì per scappare”. L’ufficiale grida tre volte “avanti Savoia!” e nessuno si muove. “S’alzò in piedi un compagno - repubblicano – dice: ‘Avanti Stalin!’ Si spostò tutta la compagnia”.

Quarant’anni dopo, raccontando quest’episodio, probabilmente Mauri non pensava più a Stalin negli stessi termini di quel momento (e d’altra parte, sottolineando che il grido veniva da un repubblicano, suggerisce anche che già allora Stalin appartenesse più all’immaginario che alla politica in senso stretto). Comunque, non rimuove, non dimentica. La sua storia – che continua dopo, nell’impegno sindacale, nel partito, nel lavoro, nelle istituzioni – è tutto il contrario della rigida fissità che abbiamo imparato ad associare con lo stalinismo: è la storia di una persona che cambia, che impara, che si trasforma e che si evolve, e che di tutte le vicende che attraversa – la famiglia, la parrocchia, la scuola, la fabbrica, la resistenza, il partito… - porta dentro di sé un insegnamento, mai subito ma sempre filtrato da una coscienza critica e da uno sguardo intelligente. Tanti dicono “la mia vita è un romanzo”; se un romanzo non è tanto un cumulo di vicissitudini quanto la storia della crescita di una coscienza, allora poche vite sono più “romanzo” di quella di Ferruccio Mauri raccontata da lui stesso.