23 aprile 2010

Novara 1922: una città operaia contro i fascisti

il manifesto 21.4.2010

E il luglio del 1922, Novara. I fascisti sono alle porte, ci sono stati già scontri armati, morti, scorrerie, aggressioni. Novara è la chiave del triangolo industriale, sfondare qui significa per i fascisti avere le porte aperte per la conquista delle roccaforti operaie del triangolo industriale. “Vi fu in quel periodo una riunione alla Camera del Lavoro del Biellese”, racconta Alfonso Leonetti, che all’epoca era redattore dell’Ordine Nuovo: ma quando il rappresentante del partito comunista bordighiano si rese conto che era presente Giacinto Serrati, sospetto di riformismo, nonostante le insistenze degli altri partecipanti, se ne andò, “ciò che rese impossibile anche solo l’iniziare la discussione”. E intanto i fascisti avanzavano.
Cesare Bermani riporta questo documento nel suo La battaglia di Novara. 9-24 luglio 1922. L’ultima occasione di una riscossa antifascista, ripubblicato e ampliato ora da Derive Approdi (347 pagg., 22 euro). E’ il racconto minuziosamente documentato della (poco conosciuta) resistenza popolare nella provincia rossa di Novara all’aggressione fascista, e di come esitazioni, divisioni, cecità, compromessi, errori delle forze politiche della sinistra contribuirono a questa sconfitta, decisiva anche sul piano nazionale. L’episodio raccontato da Leonetti è un esempio. Ma nelle conclusioni, Bermani insiste soprattutto sulla responsabilità dei partiti riformisti che, convinti come sempre che “l’opposizione si fa in parlamento” e non nel paese, divisero l’Alleanza del Lavoro e fecero sospendere lo sciopero generale proclamato in Lombardia e in Piemonte per fare argine all’aggressione delle squadre fasciste. Caduto lo sciopero, divisi i lavoratori, si aprì ai fascisti la strada di Novara, la vittoria su tutto il Nord, e la Marcia su Roma.
La responsabilità di questo esito, scrive Bermani, ricade dunque su quelle forze politiche che divisero la resistenza popolare e non capirono che l’unico modo di fermare i fascisti era la lotta dal basso. Ora, come scrive Bermani nell’introduzione, non si fa la storia coi “se”, e non è detto che la lotta dal basso avrebbe potuto davvero impedire la vittoria fascista in Italia – ma il fatto è che non fu provata, o almeno non fino in fondo. In un certo senso, La battaglia di Novara evoca quella che è stata chiamata “ucronia”: una narrazione secondo cui la storia sarebbe potuta andare diversamente, e se questo non accadde dipese da noi. L’ucronia, insomma, è un modo per dire che siamo noi e non altri i responsabili della storia, per rivendicare il nostro protagonismo e anche le nostre responsabilità e i nostri errori. E magari alludere al rischio di ripeterli al presente.
Come sempre nella pratica storiografica di Bermani, una tesi interpretativa forte non impedisce, anzi consolida, una pratica documentaria e narrativa scrupolosa ai limiti di una benvenuta pignoleria. I documenti originali – di archivio, di fonte giornalistica, e di fonte orale (compreso un uso intelligente di fonti fasciste) - sono riportati con un’ampiezza insolita, sostenuti da abbondantissime note, e intrecciati in un montaggio quasi cinematografico. Se dovessi dire il libro che più gli somiglia, direi La breve estate dell’anarchia di Hans Magnus Enzensberger, un montaggio di fonti che l’autore collega fra loro “come quando da bambini si faceva passare l’acqua aprendo canali da una pozzanghera all’altra”. Meno letterario e più documentale, La battaglia di Novara può sembrare una lettura faticosa, fino a che uno non si lascia prendere dal gioco dei linguaggi: la retorica fascista rigonfia di iperboli e superlativi, i suoi echi anche nella stampa antifascista del tempo, la concretezza quotidiana delle fonti orali e la passione coinvolgente del dialetto riportato con precisione filologica.
Uno dei momenti alti del libro è la lunga narrazione di Fenisia Baldini, che stava andando a ballare con le amiche quando si trovò nel mezzo della battaglia. Vale la pena di rendere omaggio a questa donna, militante proletaria, alla quale (tramite le registrazioni di Cesare Bermani negli anni ’60) dobbiamo molte delle canzoni politiche entrate poi nel movimento della canzone popolare e nella nostra memoria comune: è fatto di persone come lei il midollo dell’identità operaia e della cultura di resistenza del nostro paese (la sua voce la possiamo sentire adesso in un altro lavoro prezioso recente di Cesare Bermani, Vieni o maggio. Canto sociale, racconti di magia e ricordi di lotta della prima metà del XX secolo nella Bassa Novarese, Novara, Interlinea 2009, con due CD di registrazioni originali).
Come sempre, il linguaggio veicola il senso profondo degli avvenimenti narrati, lo sato d’animo di chi li vive e li racconta. Il resoconto fascista di una scorreria contro il paese di Recetto: “Senza colpo ferire rimaniamo padroni assoluti della posizione…” E’ il linguaggio militare, che domina queste narrazioni di gesta. A fine giornata, le squadre fasciste “dopo tredici ora di lavoro, di assalti, senza posa e senza cibo, vittoriose, con i cimeli di guerra, esauste per la fatica, ma non per lo spirito, ritornano cantando i loro inni all’accampamento di Borgo Vercelli…” Sembra di sentire gli echi del famoso comunicato della vittoria di Armando Diaz. E infatti: stiamo raccontando uno scontro politico, o stiamo raccontando una guerra? Non è tanto il dato materiale dei morti (otto antifascisti, tre fascisti), quanto lo spirito implicito nel linguaggio dei vivi a suggerire che davvero a Novara in quei giorni, e forse non solo lì, ci si sentiva come nel pieno di una vera e propria guerra civile, in cui l’obiettivo era l’annientamento dell’altro da un lato, e la sopravvivenza per lottare ancora dall’altro.
Tempo fa, raccontandomi un sanguinoso sciopero, la violenza padronale e la resistenza sindacale, un operaio di Detroit mi diceva: “non fu una passeggiata di pistoleri” – anche i lavoratori risposero a tono a chi gli sparava addosso. Scrivendo di Novara, ancora nella sua fase antifascista, Giampaolo Pansa parlava di “una passeggiata, sia pure violenta”: come dire che gli unici protagonisti sulla scena furono i fascisti, e l’opposizione o non ci fu o non li intralciò più di tanto. Raccntando minuziosamente una miriade di episodi di quei giorni, Bermani ci fa vedere che no, non fu affatto una passeggiata di pistoleri: per prendersi Novara e la sua provincia, i fascisti dovettero confrontarsi con un proletariato combattivo, spesso armato, tutt’altro che remissivo e rassegnato. La “passeggiata” avvenne dopo, e si chiamò Marcia su Roma, Ma ad aprirgli la strada fu (anche?) l’abbandono di quella lotta dal basso che conobbe a Novara uno dei suoi momenti più alti, e meno raccontati.

10 aprile 2010

Sulla miniera di Mountcoal

il msnifesto 9 aprile 2010

Mercoledì scorso il corrispondente da New York di Radio 24 apriva la sua rubrica con la notizia del disastro minerario nella miniera della Massey Energy a Mountc oal, West Virginia, in cui sono morti almeno 25 minatori. La cosa è molto encomiabile: basta pensare che gli ha dato la precedenza anche rispetto alle novità di Obama sulla limitazione delle armi nucleari. Ma era più problematico il commento, basato sul paradosso fra queste tragedie apparentemente arcaiche e la moderna, tecnologica America - come se l’idea stessa della miniera di carbone rinviasse automaticamente a un passato premoderno di pala e piccone.
Questa è una modalità tipica dei media italiani, che spettacolarizzano gli Stati Uniti come paese di estremi e di contrasti, grandi ricchezze e grandi povertà, estreme modernità e sorprendenti arretratezze. In realtà, l’industria mineraria è oggi un settore tecnologicamente avanzato, e la miniera di Mountcoal ne è un esmepio – con il suo continuous miner, la gigantesca macchina dentata rotante che scavando le gallerie strappa il carbone, lo mastica e lo risputa sulla cinghia di trasmissione, e con il suo intrico binari, cavi, fili elettrici, carrelli in movimento. Molte tragedie recenti sono proprio un esito specifico di questa modernità: il continuous miner genera una quantità inusitata di polvere che va a cementificare i polmoni dei minatori che, nella modernità tecnologica, crepano di pneumoconiosi più di prima, e per di più è altamente esplosiva (una delle violazioni della sicurezza rilevate a Mountcoal riguardava proprio il mancato controllo delle polveri).
Anche questo viene reso meno percepibile dalla spettacolarizzazione mediatica sull’eccezionalità di ciascuna singola tragedia (“la più grave dell’ultimo quarto di secolo”). Si tratta piuttosto di tragedie ordinarie, che si ripetono con modalità quasi invariate ogni anno. I “disastri” (definizione ufficiale: un incidente con almeno cinque vittime) fanno notizia, ma la stragrande maggioranza delle morti in miniera avviene al disotto di questo radar, per crolli (spesso provocati – come l’anno scorso in Utah – dall’avidità di estrarre fino all’ultimo grammo di carbone), cortocircuiti, investimenti da materiale mobile, eccetera. A parte le centinaia che muoiono a casa, in media tre al giorno, con i polmoni neri di carbone. La morte in miniera non è eccezionale, ma sistematica: un disastro di massa come questo non è un’eccezione, ma un’ accelerazione della regola.
Oggi volta che una miniera scoppia o crolla, il governo vara nuove norme di sicurezza; e dopo ogni disastro leggiamo che l’azienda era stata beccata centinaia di volte in violazione. A questo punto, la responsabilità si allarga alle istituzioni: che conclusioni dovrebbero trarre gli organi di sorveglianza davanti a una violazione così sistematica delle leggi? qual ‘è il costo di queste ammende (conviene pagare e andare avanti, e magari come in tantissimi casi, compreso Mountcoal, non pagare per niente)?; o le ispezioni servono solo ai burocrati per dire “noi l’avevamo detto” , e lavarsene le mani? Varare leggi e non applicarle è o no una forma di complicità?
Alcuni giornali hanno riportato il cinico memorandum del padrone di Mountcoal, Don Blankenship: “ogni volta che vi si chiede di fare lavori diversi dall’estrarre carbone (cioè: lavoro per mettere in sicurezza la miniera) ignorateli. Ricordatevi che è il carbone che paga i conti”. Don Blankenshipo non è un qualsiasi avido padrone: è una vera e propria piovra che tiene in tasca tutte le istituzioni e i politici del West Virginia, e a nessuna istituzione salterà in mente di interferire con i suoi affari. La sua compagnia, la Massey è riuscita a sbarazzarsi del sindacato, con ogni genere di pratiche – sparando addosso ai minatori durante lo sciopero del 1984-85, e ricorrendo a ricatti, mance, pressioni e mobbing per indurre proprio i lavoratori di Montocoal a rinunciare alla tutela sindacale. Un libro appena uscito - Coal River di Michael Shnayerson – ha un capitolo intero dedicato proprio alle pratiche antisindacali alla miniera di Montcoal. Non è una questione locale e marginale: la scomparsa del sindacato ha determinato lo spostamento del West Virginia dal campo democratico a quello repubblicano, che fu decisivo nella prima elezione di George Bush – che ringraziò mettendo un lobbyista dell’industria del carbone alla guida dell’ente di sorveglianza sulla sicurezza in miniera.
Comunque, anche se ci fosse stato il sindacato non è che avrebbe interferito più di tanto: preoccupata dei posti di lavoro dei suoi iscritti (il West Virginia ha perso seicentomila posti di lavoro in miniera dal 1960, su una popolazione di meno di due milioni) e delle quote che versano alle casse sindacali, la UMW ha sempre sostenuto gli interessi e i profitti dell’industria mineraria anche a scapito della sicurezza (quando un’esplosione uccise 79 minatori a Fairmont , West Virginia, nel 1969, il presidente del sindacato elogiò la compagnia e disse che sì, certe cose c’è da aspettarsele, lavorare in miniera è pericoloso).
La subalternità del sindacato investe un altro aspetto della politica energetica e ambientale: il mountaiontop removal, l’estrazione del carbone non scavando gallerie ma facendo saltare le cime delle montagne fino a lasciare allo scoperto la vena, rovesciando il terriccio inquinato nelle valli e nei fiumi. In questga pratica, Blankenship e la Massey sono all’avanguardia, tanto che proprio Blankenship ha sostenuto sull’argomento un dibattito con Robert Kennedy, Jr. all’università del West Virginia, affermando che il mountain top removal è fondamentale per l’occupazione e per l’ indipendenza energetica degli Stati Uniti. I movimenti ambientalisti e la popolazione locale hanno messo in rilievo i danni spaventosi di questa pratica: il danno climatico, la distruzione ambientale (nel 2000, da un’altra miniera della Massey di Blankenship, fuoruscirono 1,16 bilioni di fanghiglia velenosa, trenta volte di più dal disastro petrolifero della Exxon Valdez, che avvelenò terra e fiumi per mezzo Sudest degli Stati Uniti), i pericoli per la popolazione circostante, il fatto che il mountai top removal occupa molto meno forza lavoro delle miniere tradizionali. Ma il sindacato – abbagliato dall’elemosina di pochi posti di lavoro – appoggia le pretese di Blankenship, compresa quella di spianare la storica Blair Mountain, luogo della battaglia campale del 1922 dove nel corso di una battaglia campale fra minatori ed eserciti privati delle compagnie intervenne a bombardare gli scioperanti addirittura l’aeronautica militare degli Stati Uniti.
Il disastro di Mountcoal non migliorerà l’immagine della Massey – ma non è detto che ne metta in discussione il potere. Don Blankenship è perfettamente capace di dire che la tragedia in galleria dimostra che il mountain top removal è meno pericoloso (per chi ci lavora, non certo per chi ci vive intorno), e servirsene per accelerare le concessioni che va chiedendo su tutto il territorio dello stato. Segno che per certi poteri non tutti i mali vengono per nuocere.

01 aprile 2010

La Resistenza è futuro

il manifesto 1 aprile 2010

Sto lavorando a un CD e un libro sulla musica, la storia e le storie dei Castelli Romani. Faccio scorrere i file audio ricavati dai nastri di trenta o quarant’anni fa. Un operaio di un cantiere edile occupato che per spiegarmi che cos’è il “sorecchio” con cui andavano a mietere sulle terre incolte dice, “è la falce, come quella che c’è sull’emblema della bandiera rossa”. Le donne dell’UDI, l’8 marzo ’70, che cantano “noi siamo quella parte cosciente \ del popolo che lotta e lavora”. La festa dell’Unità di Albano, nel 1975, l’italiano solenne degli inni proletari: “ci han promesso una dimane \ la diman s’aspetta ancor”. Tiberio Ducci nel 1976 che racconta le storie dell’insurrezione per il pane del 1898. Renato Trinca in un’osteria di Rocca di Papa nel 1969, uno stornello: “vita da cani \ perché noi siamo tutti disoccupati”. Silvano Spinetti detto Cicala, con l’orchestrina (il violinista aveva imparato a suonare al confino a Ventotene): “uno, non lo può saper nessuno, manco Andreotti col curato può saper per chi ha votato e se mai si pentirà…” E suo padre Dandolo, che veniva a Roma a portare il vino e che nel 1910 aveva composto in carcere i “comandamenti del socialismo”: “Uno, evviva Giordano Bruno che diceva la verità…” E cantava la canzone dei partigiani dei Castelli: “Or che liberata è Roma \ il mondo intero insorgerà”…
Già, i partigiani. Apro il giornale e vengo a sapere che nei programmi dei licei la Resistenza non è nemmeno nominata. A risentire queste voci, sembra di parlare dei Templari, persone e passioni che sono esistite negli abissi della storia ma che non ci riguardano più. Eppure è passato così poco tempo, eppure queste sono persone che ho incontrato e ascoltato non secoli fa. “E’ implicita”, spiegano i funzionari della Gelmini – proprio come i Templari. Magari hanno ragione: anche nel programma del Partito democratico si erano scordati di nominarla, la Resistenza, e gli abbiamo dovuto tirare la manica perché almeno a parole ce la rimettessero.
Alla parte cosciente del popolo che lotta e lavora, la Resistenza aveva fatto sperare in un domani – un domani da condividere insieme, non uno per uno in concorrenza con tutti. “La storia, non lo vedi, marcia verso la libertà”, cantava “Cicala”. Ma Roma è stata liberata e il modo intero non è insorto, nessuno lavora con il sorecchio, e lasciamo perdere la bandiera rossa. E quanto alla storia, ci hanno persino detto che era finita.
Per questo, insistere sulla Resistenza oggi non è questione di nostalgie, né di combattere sulla carta le battaglie armate di settant’anni fa. E’ questione di capire dove possiamo andarla a cercare oggi quella speranza, quel domani, quella storia, e con quali strumenti e con quali simboli. Resistenza non significava passato, significava futuro (sono al futuro i verbi di quasi tutti gli inni proletari e di tante canzoni partigiane); ma è proprio il futuro quello di cui oggi sentiamo la mancanza. Arroganza del potere e rassegnazione dell’opposizione convergono: cancellare o dimenticare la Resistenza significa affermare o accettare che il mondo non cambierà mai, che il potere starà sempre nelle stese mani, che noi non possiamo fare altro che adattarci e rassegnarci a tirare avanti, ciascuno come può. E aggiungerei: per vivere così, non c’è bisogno di conoscenza. Possiamo far sparire la geografia dalle scuole, ridimensionare la letteratura nelle università, immiserire la storia, impoverire la lingua. E saremo sudditi disponibili e muti, senza visioni di altri mondi, altri luoghi, altri tempi.
Pure, la storia non è solo quella che sta scritta sui libri e che impongono i programmi ministeriali e che si ricordano i programmi dei partiti. Anche i Castelli sono cambiati, nei pochi decenni da quelle ricerche (mi ricordo dieci anni fa il figlio di un ucciso delle Fosse Ardeatine che si diceva comunista ma votava Berlusconi perché diceva che fa gli interessi della sua piccola azienda). Però: non sarà la stessa cosa, ma comunque in queste disastrose regionali Emma Bonino a Genzano ha preso il 61,9 per cento, e persino i rottami della sinistra fra loro hanno racimolato più dell’otto per cento. Forse da qualche parte, un po’ afona e un po’ vergognosa, un poco di resistenza con la minuscola si annida ancora.