20 settembre 2007

Santiago 11 settembre 2007




Santiago 11 settembe 2007

18 settembre 2007

Santiago, Cile: lettera dall'altro 11 settembre

il manifesto, 13.9.2007

L'altro 11 settembre a Santiago sembra una giornata come tutte le altre. C'è il sole, è quasi primavera. Un giornale dice che per sicurezza le università più turbolente oggi stanno chiuse. Ma per chilometri e chilometri nelle strade commerciali del centro la gente va per fati suoi, negozi e passeggiate. Non ci sono manifesti ne' altri segni. Si avvicina il 18 settembre, grande festa nazionale, e lungo weekend di ponte. A tre isolati dalla Moneda, il palazzo del governo dove fu assassinato Allende, incrocio un piccolo corteo – bandiere rosse, della pace, arancioni, slogan (uniti possiamo, uniti vinciamo). Dietro di loro, la polizia chiude le transenne: non si passa, alla Moneda non si può avvicinare nessuno. Polizia dapertutto, dovunque transenne. Intorno, zona pedonale e negozi, ordinaria amministrazione.Faccio il giro e sbuco sulla larga avenida O'Higgins, e mi trovo in pieno stato d'assedio. Furgoni militari che paiono enormi, camionette, blindati, plotoni schierati, poliziotti a cavallo, e gruppetti di ragazzi con passamontagna e maschere antigas. Faccio qualche foto, registro qualche slogan/. Sembra che non stia succedendo niente, non c'è corteo. Improvvisamente i ragazzi prendono a correre come se avessero visto qualche cosa. Ho i riflessi meno pronti e resto solo io al bordo dell'avenida. Prima di are in tempo a girarmi mi investe un getto di acqua intrisa di lacrimogeni e mi ritrovo per terra, accecato e bagnato fino al midollo. Mi pare che passi un tempo lunghissimo prima di sentire voci intorno a me, gli occhi non li riesco a aprire, poi qualcuno di aiuta a tirarmi su, sono preoccupatissimo che la caduta e l-acqua mi abbiano rovinato il prezioso registratore, mi passano scottex e limone e finalmente ricomincio a vedere. Qualcuno ritrova i miei occhiali / con gli occhi accecati non mi ero neanche accorto di non averli addosso. Sono l'unico che è stato beccato – forse perché i ragazzi sono scappati prima, forse perché quello che gli dava più fastidio era una persona dall'apparenza normale che li fotografava. Come che sia, sono circondato da decine di registratori, macchine fotografiche, macchine da presa, taccuini – ero venuto con l'idea di intervistare, finisco intervistato. Comunque, sanno quasi tutti che cos'è il manifesto.Ricomincio a andare in giro, gli occhi tornano a posto, basta non strofinarli (la ragazza dell'internet poi da vado a scrivere, come entro, dice: che è questa cosa acre? La puzza del lacrimogeno ce l'ho ancora addosso, due ore dopo), mi avvicino alla Moneda, circondata da tre file di soldati, poi dietro le transenne un'altra fila di cavallerizzi da guerra. Vedo tre signore coi fiori rossi in mano, a colpo sicuro gli chiedo se sanno dov'è il monumento a Allende (non c'era ancora l'altra volta che sono stato qui). Ma non si passa. Provano a negoziare coi militari, mostrano non so che tesserini, niente da fare. "Siamo in dittatura," dice la più giovane. Esagera parecchio, ma insomma certe cose te le tirano. Certo che se per commemorare il golpe e il potere militare volevano darci un'idea di che cosa succedeva in quelle strade quel giorno, un poco ci sono riusciti.Rifaccio il giro, con un gruppetto di sbandati incalzati dai soldati a cavallo – "circolare, circolare!" Torno alle transenne dall'altra parte. Adesso che il corteo è passato la polizia è un po' più rilassata. Faccio il turista ingenuo che non sa dove si trova e mi fanno passare. Il monumento è coperto di fiori e di inserti floreali con le insigne dei partiti e delle organizzazioni. La cerimonia ufficiale c'è stata la mattina, quindi adesso siamo poco più di un capannello. La statua non e[ bellissima, d-altra parte come si fa a fare un monumento a un'icona dell'antiretorica_ Due signore conversano – "ti ricordi quant'era bello? Nessuno aveva fame, eravamo tutti coinvolti…" "E la cultura? E la musica? Adesso la democrazia c'è, ma non é quella di allora, e non é quella che sognavamo…" Partono gli slogan, echi di un altro tempo, el pueblo unido jamas serà vencido, rituale di resistenza e memoria, se siente, se siente, Allende està presente. Cantano un po' stonati una solenne canzone patriottica. Si alzano pugni chiusi. Le due signore compagne mi danno appuntamento: a Villa Grimaldi, luogo storico della repressione, dove i pinochettisti hanno torturato e ammazzato migliaia di persone, ci sarà una cerimonia con discorsi e musica; poi allo Stadio Nazionale, ad accendere candele.Villa Grimaldi non e' facile da trovare - provarci coi mezzi é un'odissea - persino a pochi isolati di distanza la gente dice di non averla mai sentita nominare. Alla fine mi affido a un tassista peruviano che neanche lui sa dov'e' ma almeno sa che cosa e' e simpatizza. Arrivo e la gente sta entrando alla spicciolata. La Villa Grimaldi e' un posto bellissimo, verde, ampio. Adesso e' un parco della pace e della memoria. Steli bianche portano i nomi delle vittime, sovrastate da una frase di Mario Benedetti> l'oblio e' pieno di memoria. Parole sante. C'e' un gran silenzio, anche se la gente continua ad arrivare, e il silenzio e' sottolineato dalle candele che a mano a mano si vengono accendendo. Vedo una famiglia, con due bambini che reggono candele, che si avvicina al muro curvo dove pure sono incisi i nomi - mi domando se hanno qualcuno lì. A mano a mano che scende la sera le candele e il silenzio crescono, attorno alla piccola sala della memoria con una parete di fotografie e cassetti aperti con gli oggetti ritrovati di alcune delle vittime. E' un silenzio intenso come un momento sacro, anche se non ci sono segni religiosi. La musica non e'niente di speciale, ma le persone l'ascoltano assorte, sedute intorno con le candele in mano. Il tassista peruviano mi ha detto di non restare da queste parti dopo le otto, e' pericoloso, e mi ha dato appuntamento. Sono troppo stanco e sbattuto per andare allo stato nazionale, e chiudo così questo altro undici settembre.Questo e' quello che ho visto. Poi mi alzo la mattina,leggo i giornali: scontri tutta la notte nelle poblaciones povere della periferia, assalti ai commissariati, un poliziotto ferito grave (morirà più tardi), saccheggi, sparatorie, vetrine e macchine sfasciate. Par che la polizia sia stata sorpresa dal livello di organizzazione, anche se dicono i giornali che negli anni precedenti era peggio. Insomma tutto si può dire meno che si tratti di una città pacificata e tranquilla. Un cardinale ieri ha benedetto il sacrario che l'esercito sta erigendo a Pinochet. Il compagno che mi era venuto a prendere all'aeroporto la mattina mi aveva detto:

L'11 settembre infinito

il manifesto, 11.9.2007

Dice una frase fatta cara a molti americani che “due torti non fanno una ragione.” Dopo l’11 settembre 2001, gli Stati Uniti avevano una possibilità: raccogliere la solidarietà del mondo, e dare un segnale di civiltà rispondendo alla violenza che li aveva colpiti in senza lasciare impuniti i colpevoli ma riaprendo il dialogo civile con il mondo che gli attentatori abusivamente pretendevano di rappresentare, e che con la loro azione infangavano. Fecero un’altra scelta, e quella guerra che, con la rapida vendetta, avrebbe dovuto sanare la ferita dell’11 settembre non ha fatto altro che farla suppurare e marcire. Nel mondo il prestigio degli Stati Uniti (nonostante Sarkozy e Angela Merkel) non è mai stato così in basso. E al loro interno, la spaccatura fra sfera politica e vita quotidiana ha preso dimensioni tali che i timori italiani sull’antipolitica al confronto sono una barzelletta.
La scoperta che una guerra basata sulle menzogne va verso il disastro si è innestata sulla scoperta, dopo il disastro di Katrina, dell’incapacità colpevole dei governanti e del loro disprezzo verso i governati. E adesso si aggiunge la catastrofe dei mutui, la scoperta che le banche e chi dovrebbe controllarle avevano ingannato i cittadini proprio su quel terreno – la casa – attorno a cui si addensa il “sogno americano” della proprietà privata e della famiglia.
Sotto pelle, proprio in quell’America con la testa ancora piantata nel mondo rurale, nel Kansas o nell’Oklahoma che hanno votato repubblicano in odio alle elite liberali urbane, vive forse ancora la memoria populista delle banche come nemici immediati della gente comune, dai movimenti di lotta rurali d’inizio ‘900 alla Depressione degli anni ‘30 – basta rileggersi i primi capitoli di Furore di Steinbeck, o riascoltare Woody Guthrie. E forse c’è ancora memoria delle casse di risparmio (“Savings and Loans”) salvate dalla bancarotta negli anni ’90 dal governo con i soldi dei contribuenti (e anche lì, i conflitti d’interesse erano più che giganteschi).
Adesso che si trovano con insostenibili debiti sulle carte di credito, i cittadini americani forse cominciano a ragionare su un governo che dopo l’11 settembre li incitava a combattere il terrorismo comprando e consumando il più possibile, nell’euforia di una American way of life basata sul debito dei cittadini verso le banche, delle banche verso altre banche, e del paese intero verso i lresto del mondo.
Per forza che i sondaggi dicono che la gente è stanza di commemorazioni vuote, che crolla la fiducia nel governo, e che aumenta la fiducia nei militari – non nel senso di governo militare (in un certo senso, quello c’è già), ma come istituzione che credono separata dalla politica. Sarà antipolitica, ma le cause sono tutte politiche, ed è la debolezza delle politiche alternative che gli lascia spazio.
E’ il segno di una crisi vera della democrazia rappresentativa, della crescente separazione in tutto l’Occidente fra eletti ed elettori (votanti e astenuti). La favola parla anche di noi. Se temiamo come “antipolitici” chi va in piazza con Beppe Grillo, e pensiamo che versare un euro per scegliersi il capo del “non-ideologico” partito democratico sia partecipazione democratica, siamo sulla stessa strada.
Scrivo queste righe un po’ di corsa, su invito della redazione, prima di correre all’aeroporto e andare in Cile. Anche lì è un 11 settembre, anniversario del golpe. Chissà però che non si raccontino altre storie.

Grace Paley e Annie Napier contro il silenzio

il manifesto, 14.9.2007
(con aggiunta di tre poesie di Grace Paley, a cura di Annalucia Accardo)

Le famiglie di pecore sono fuori al pascolo
Caddy e i suoi due grossi agnelli Gruff e Veronica
Veronica alza la testa riccioluta poi si china sull’erba
Fruttuosamente scacazza l’erba verde e la lana è il suo mestiere

Gruff invece se ne andrà diventerà qualcos’altro
Padre di generazioni? Cosa? Più probabilmente carne ciò
è un maschio in guerra o al pascolo il suo mestiere è carne
(Grace Paley; trad. ital. di R. Duranti)

Praticamente nello stesso giorno di fine agosto, senza che in tanti se ne accorgessero, l’America e noi abbiamo perso due grandi narratrici. Una era relativamente famosa, anche se molto meno di quanto sarebbe stato giusto: Grace Paley, di New York, grande maestra del racconto, dell’ascolto, della voce, e dell’interrogarsi. Aveva 85 anni. L’altra la conoscevano solo la sua famiglia, i suoi vicini, e io (che qualche volta l’ho nominata su questo giornale): si chiamava Annie Napier, era di Harlan, Kentucky, manteneva la famiglia guidando lo scuolabus sulle strade contorte di quelle montagne; ascoltava, parlava, raccontava, suonava, cantava, parlava. Non taceva mai. Aveva 65 anni. Un’amica che le ha conosciute entrambe mi diceva: peccato che Grace e Annie non si siano mai incontrate, si sarebbero volute bene. Grace era la città, la strada, i palazzi affollati; ed era la Palestina, il Nicaragua, il Vietnam. Annie era le montagne, gli alberi, le valli strette, la solitudine; il suo corpo era segnato e scavato come la sua terra ferita. E anche lei odiava la guerra.
Pochi giorni prima che morisse Grace Paley, era uscita una sua intervista su Repubblica. Parlava del suo ultimo libro, una raccolta di saggi e articoli usciti in tanti anni, tradotta con un intelligente titolo italiano: L’importanza di non capire tutto. Proprio perché era convinta che restasse sempre qualcosa che non avevamo ancora capito, Grace non ha mai smesso in tutta la sua vita di provarci, di interrogarsi, di indagare. La struttura profonda sottostante a tutto quello che scriveva era quella ebraica del midrash: lo svolgersi inesauribile delle implicazioni di ciascuna parola, un viaggio attraverso i significati con destinazione ignota e affascinante. Spiegava il mondo guardando le donne (e di sguincio gli uomini) sulle panchine e nelle cucine dei quartieri popolari di New York, come nei villaggi del Vietnam e del Nicaragua; in ciascuno scambio di domande e risposte dei suoi testi erano in gioco il quotidiano e l’universale. Pacifista indomabile, femminista ironica, socialista investigativa, ebrea profondamente errante, carica di curiosità e di amori, se tutta la sinistra le somigliasse di più saremmo assai migliori e staremmo assai meglio.

Tutto a un tratto frecce
dritte come Broadway furono conficcate
nel grande cuore degli indiani

Poi siamo arrivati noi dall’Est
col mal di mare ma salvi le
tormentate genti bianche
ingrassarono con il
sangue di quella ferita
(trad. ital. Di R. Duranti)

Annie l’avevano operata ai polmoni due anni fa. Ma ogni volta si ripeteva la stessa scena: io seduto sul divano sdrucito di lato sotto la finestra, lei su quello davanti alla televisione che nessuno guardava, con in una mano una tazza di velenoso caffè kentuckiano e nell’altra una sigaretta dopo l’altra. In mezzo a noi, sempre acceso, quasi sempre dimenticato e sempre in ascolto, il registratore. E da lei a me e da me a lei di ritorno, la voce: “Allora, a quei tempi, non avevamo la TV, o la radio, o nient’altro e la sera quando faceva buio toccava rientrare in casa perché fuori uscivano i serpenti. Così la sera ci chiudevamo in casa e accendevamo il fuoco e mamma e papà si mettevano lì e raccontavano storie di quando erano piccoli. E storie che i loro genitori avevano raccontato di quando erano piccoli loro. E’ così che è cominciato tutto questo raccontare storie.”
Raccontare storie, per Annie come per Grace, era un modo di spiegare il mondo, e di spiegarci quanto era inesplicabile. Il significato di una storia non si esaurisce mai, come il midrash; ogni racconto genera altri racconti, ogni racconto risponde alle domande del precedente e apre domande per quelli che verranno; ed entrare dentro ogni racconto, per semplice che sembri, significa inoltrarsi dentro un infinito di possibilità, “giardino dei sentieri che si biforcano” ad ogni parola, ad ogni sillaba. Come per Sheherazade, per Annie raccontare era un modo di lottare contro l’onnipresenza della morte: “Vedi, appena nasce un bambino, ha il modo intero schierato contro, almeno quando sono nata io. Prima cosa, la casa è tanto fredda che ci vuole fortuna solo a sopravvivere. Quasi tutti sono denutriti e sottopeso. Ma una volta che sei riuscito a farle arrivare fino a qui, quelle povere creature le cominciano a curare coi rimedi casalinghi – tè di cacca di pecora, infuso di erba gattaia, c’è mancato poco che ammazzava mia sorella Becky. E poi ci sono tutte le malattie dell’infanzia che ti devi fare: morbillo, scarlattina, varicella, tosse convulsa. Negli anni ’50, qui girava il tifo, portato dall’inondazione, anni ’50, fine anni ‘40, che c’è morto il bambino di mio zio. Tutte queste cose: ora che arrivi a due anni, hai già dovuto superare la scommessa della sopravvivenza.”
Quando arrivavo io piantava tutto e mi guidava ad ascoltare altri narratori: suo zio Plennie, che si portava nella gamba il piombo di una battaglia fra minatori e guardie padronali nel 1941; Will Gent, che raccontava forse con una dose di immaginazione gli orrori del suo Vietnam; James L. Turner, che ricordava ancora i suoi antenati schiavi nella stessa valle dove era cresciuta lei; Lewis Bianchi, imprenditore di pompe funebri con flebili memorie di antenati italiani, che ci spiegava come si fa a rendere presentabili i cadaveri dei minatori morti in miniera o uccisi dalla pneumoconiosi… Da una tappa all’altra, il suo flusso di racconto non si fermava. Appendevo il microfono allo specchietto, e via. E raccontava di quando anche lei aveva sconfitto, per sé e per la sua bambina, la scommessa della sopravvivenza contro il medico incompetente e ubriaco e contro la sua stessa famiglia che per motivi religiosi non voleva che facesse il cesareo; o quando, agli avvocati delle miniere secondo cui le inondazioni che avevano distrutto le case dei suoi vicini erano un “atto di Dio,” lei aveva risposto “la pioggia sarà pure un atto di Dio, ma non è stato Dio a mandare quei bulldozer a demolire le colline”; o quando il marito era rimasto invalido per un incidente sul lavoro, e lei era andata in fabbrica e al tempo stesso aveva tirato su due figlie, quattro nipoti e adesso cominciava con una bisnipote. Ma era stanca. Raccontava di sopravvivenza e intanto, sempre più pelle e ossa, con quelle incessanti sigarette nei polmoni distrutti, si lasciava distruggere, come se non ce la facesse più.
Triste il paese, triste il mondo, che perde i suoi narratori e soprattutto le sue narratrici. La scommessa per la sopravvivenza oggi, nel fragore incessante della comunicazione, è la scommessa contro il silenzio profondo, il silenzio di chi sente e non ascolta, parla e non dice, dice e non è ascoltato. Grace Paley e Annie Napier erano prova vivente della fiducia nella possibilità della parola, della propria parola intrisa di parole altrui ascoltate, interiorizzate, restituite in mille forme mutevoli. Io credo di essere stato utile ad Annie, perché la stavo a sentire. Anche per Grace Paley, raccontare non era mai un’attività solitaria, mettersi a scrivere chiusi nella propria stanza per lettori lontani e sconosciuti: raccontare voleva dire sempre offrirsi a chi voleva sentire, guardarsi in faccia, muoversi e smuovere. Un suo racconto parla di una bambina ebrea, Shirley Abramowitz, che ha una voce “capace di staccare le etichette,” una voce talmente insopprimibile che le chiedono di fare l’angelo annunciatore nella recita di Natale – e lei, e la sua famiglia, accettano e ne sono orgogliosi, perché non si può imporre a una simile voce di tacere. “Vedi, “ dice un suo personaggio, “per un ebreo la parola ‘chiudi il becco’ è un’espressione terribile, una parolaccia, come un peccato, perché all’inizio, se ricordo correttamente, era la parola.”
Una tipica notte di tregenda nella sua casa isolata in cima alla montagna, Annie mi chiese, “ci credi ai fantasmi?” “No,” dissi io. E lei: “neanch’io. Comunque: ce n’è uno che tutte le sere passeggia dalla veranda alla cucina.” Non ci credo, ma è vero: l’essenza dell’immaginazione. Esiste una relazione fra l’immaterialità e presenza della voce, e l’immaterialità e presenza dei fantasmi. Mi viene voglia di immaginarmi Grace e Annie che passeggiano tutte le sere dalla veranda alla cucina, sotto forma di voce – di voci che abbiamo ascoltato, che abbiamo fissato nei libri e nei nastri, e soprattutto voci che continuano a risuonarci nella memoria.

Alla Battery
sono ferma su un solo piede
alla prua della grande Manhattan
piegata in avanti
proiettata appena nel porto chiaro

Se solo un topografo in elicottero
sorvolasse la mia ombra
forse rimarrei impressa per sempre
sulle carte di questa città
(trad.ital. di D. Daniele)

Stati Uniti: l'ambiguità dell'ida di progresso

Alias, settembre 2007

Verso la fine degli anni ’60, in una conversazione con una compagna americana a fine anni ’60: qualcuno menzionò il Signore degli anelli, e ci accorgemmo con reciproco stupore che quello da noi era allora un libro di culto della destra fascista era stato negli Stati Uniti un testo fondamentale dei movimenti alternativi, pacifisti, controculturali. Fu questa sorpresa a indurmi a leggerlo per la prima volta; e questa lettura ad aprirmi uno spiraglio sulle differenze profonde fra l’America e noi. Uscito da un ambiente di destra cattolica accademica a metà degli anni ’30, il Signore degli anelli era fra le tante cose anche un duro manifesto antiprogressista: l’uso che Saruman si prepara a fare dell’anello prefigura come minimo la bomba atomica; e lo sgomento con cui Frodo ritrova il suo Shire avvolto nei fumi di un’industrializzazione distruttiva è solo il momento più evidente di questa polemica. Non a caso, il Signore degli anelli ha smesso di essere patrimonio esclusivo dei fascisti attorno al 1973, alla prima scoperta dei limiti dello sviluppo, dell’emergenza ambientale, della crisi energetica - insomma, nel momento in cui ci siamo accorti che il progresso non era un tutto inscindibile e un bene assoluto. I nostri compagni americani se ne erano accorti ben prima di noi, non perché fossero necessariamente più intelligenti, ma perché fin dalle origini avevano con il progresso un rapporto diverso.
Semplificando. Noi venivamo da una storia di feudalesimo e oscurantismo delle classi dominanti, per cui il progresso era stato una bandiera delle lotte sociali, rivendicato dal pensiero di opposizione laico, socialista, popolare. La tradizione marxista ci aveva insegnato, poi, che progresso tecnico e progresso sociale andavano essenzialmente insieme: anche se le tecnica e la scienza non erano neutrali, tuttavia era lo sviluppo delle forze produttive il processo che avrebbe generato dal suo interno le forze della liberazione dal capitalismo e dallo sfruttamento.
Negli Stati Uniti le cose erano andate diversamente. Fin dall’inizio, il progresso era stato una bandiera delle classi dominanti, non necessariamente in simbiosi con il progresso sociale. Lo scontro formativo degli Stati Uniti moderni era stato quello di fine ‘700 fra Thomas Jefferson, fautore di una società egualitaria di produttori indipendente rurali, e Alexander Hamilton, sostenitore di uno sviluppo urbano, industriale, capitalistico, e tutt’altro che “progressista” sul piano sociale. Difficile dire chi dei due fosse, nei nostri termini, “conservatore” e “progressista”: la nostra inscindibile endiadi fra uguaglianza e progresso, negli Stati Uniti era radicalmente scissa.
Pendiamo un luogo familiare dell’immaginazione americana, e quindi della nostra: il classico western con il piccolo contadino pioniere che si oppone disperatamente all’invasione della ferrovia sulle sue terre. Non c’è dubbio su da che parte sta il progresso: le forze produttive sono destinate a spazzare via queste resistenze antimoderne. Però non c’è dubbio neanche su da che parte stessero le simpatie dei film e le nostre di spettatori: tutte dalla parte del contadino, perché percepivamo quel conflitto non tanto in termini di conservazione e progresso quanto in termini di potere e diritti, che i cittadini si sforzavano di conservare e la modernizzazione del capitale schiacciava senza scrupoli. A differenza che nel nostro Sud, insomma, le ferrovie non venivano ad aprire il mondo ai contadini ma a spazzare via i pionieri che avevano aperto quel mondo a loro.
Gli esempi si possono moltiplicare, naturalmente (sempre semplificando e trascurando le non trascurabili contro tendenze). Per esempio, per un paio di secoli, sono stati progressisti a dichiarare desiderabile o inevitabile in nome del progresso l’estinzione dei nativi americani – da Benjamin Franklin a un antirazzista specchiato come Mark Twain – mentre conservatori come Washington Irving o James Fenimore Cooper coltivavano se non altro la nostalgia e un rispetto a posteriori. Un darwinismo d’accatto legittimava in nome della scienza e del progresso dell’umanità non solo la scomparsa o sottomissione delle “razze” inferiori (dagli indiani ai filippini ai portoricani), ma anche il dominio baronale dei capitalisti alla Morgan e Carnegie sulla classe operaia. A metà ‘900, tanto i sindacati quanto la controcultura percepiscono quella che allora si chiamava “automazione” come una minaccia: per i posti di lavoro i sindacati; per il rischio di riduzione a macchine degli esseri umani la controcultura. (Un esempio, visto che in questi giorni si parla tragicamente di miniere: l’accordo sindacale che nel 1950 aprì la strada alla meccanizzazione delle miniere di carbone cancellò seicentomila posti di lavoro in cinque anni, produsse un’ondata migratoria senza precedenti, e accentuò gravemente la nocività del lavoro in miniera. Certo, a chi restava vivo e occupato, garantiva salari più dignitosi). Mentre da noi la sinistra e il movimento operaio costruivano l’opposizione e la lotta all’interno dei processi di modernizzazione, la risposta della controcultura fu, essenzialmente, la scelta di tirarsene fuori materialmente (le comuni, la strada, gli hippy) e intellettualmente (i beat, le filosofie orientali, il “neo-sciamanesimo).
Naturalmente, questa diversa declinazione del rapporto fra progresso tecnico e progresso sociale non manca di produrre effetti anche sull’immaginazione e l’autopercezione alternativa. Il contadino in lotta con la ferrovia è lui stesso un portatore di quel progresso che lo spazzerà via: non si chiama mica “pioniere” per caso. Soprattutto, è solo: nell’immaginario filmico western, sono rari i casi in cui l’arroganza del capitale ferroviario si incontra con un’opposizione sociale. Qui c’entra anche l’alternativa jeffersoniana a Hamilton: un’idea di uguaglianza basata sull’individualismo della piccola proprietà indipendente, che si trasferisce in un’idea individualistica e solitaria dei diritti. Così, il conflitto è sempre fra processi sociali da un lato e diritti individuali all’altro (ma persino nei film operai, o nei gialli alla Grisham, è sempre un singolo eroe – o eroina: Norma Rae, Erin Brokovich – che frustra i progetti dei padroni e delle mafie. Per questo nella letteratura e nel cinema sono così importanti gli avvocati). Persino nel movimento operaio, il principio di solidarietà di classe espresso dai Knights of Labor, dagli Industrial Workers of the World, dal primo Congress for Industrial Organizations, cede spesso a un business unionism con tratti corporativi, che tratta il lavoro come merce concorrenziale senza porsi grandi problemi di progresso sociale e di diritti e lascia i non iscritti al loro destino.
Ora, tutto questo era in prodotto di un preciso processo storico, di un paese nato guardando il futuro, sposando la modernità nell’atto stesso della sua creazione, e quindi un elemento di diversità fra la nostra realtà e quella degli Stati Uniti. Negli ultimi tempi, le cose sembrano complicarsi e mescolarsi. Anche in Italia e in Europa modernizzazione e progresso vanno sempre meno a braccetto con uguaglianza e solidarietà, e sempre più con precarietà, frammentazione dei legami sociali, aumento vertiginoso dei profitti. Come ci spiegava con meritevole franchezza Mario Pirani qualche settimana fa, “riformismo” oggi non vuol dire più sviluppo dei diritti dei lavoratori come è stato in tutto il ‘900, ma una loro progressiva riduzione: il riformista moderno è che taglia il welfare e combatte il sindacato, sia pure (diceva Pirani) per salvare il salvabile nel mondo globalizzato. Il risultato è che la confusione fra progresso e conservazione propria del ‘700 statunitense si riproduce adesso da noi: “conservatori” sono i sindacati, gli ecologisti, gli “alter-globalisti”; progressisti, Montezemolo e Berlusconi. E, senza fare nomi, anche parecchi di quelli che abbiamo votato.
Negli Stati Uniti, per converso, un minimo di progressismo” con toni anche sociali riprendere voce. Certo, quando Hillary Clinton ha il coraggio di dichiararsi “progressista” bisognerà pure aspettare di capire che cosa intenda per progresso. Ma se nella sua definizione rientra, come peraltro ha detto, un minimo di attenzione alle condizioni di chi lavora e un rinnovato tentativo di dare ai cittadini americani un poco di quel diritto alla salute che secoli di progresso gli hanno negato, allora merita attenzione. Nel frattempo,rileggiamoci pure, con un grano di sale, Il signore degli anelli.

Huntington, Utah: disastro in miniera

“Quando cominciano ad abbattere i pilastri di carbone che reggono il soffitto della miniera, a tirarli giù a mano a mano che abbandonano la vena esaurita, sfidanola montagna per prendersi tutto il carbone che possono, fare soldi fino all’ultimo centesimo. Quella volta, si erano mangiato tutto finché il peso della montagna cominciò a piegarsi davanti a loro, era come un gran rombo di tuono nella galleria e sembrava che la montagna ci stesse sprofondando addosso. Fu allora che decisi di non andare più in miniera, buttai a terra gli attrezzi e scappai di corsa fino all’uscita.”
Tillman Cadle, negli anni ’30, ne uscì vivo. Non sappiamo se usciranno vivi i sei minatori che dal 7 agosto 2007 sei minatori sono bloccati sul fondo di una miniera di carbone a Huntington, Utah. Tre di loro sono immigranti messicani. Robert Murray, presidente della Murray Energy proprietaria della miniera, informa che le squadre di soccorso stanno usando “ogni mezzo conosciuto dall’umanità” e sostiene che la causa del crollo è stato un terremoto. Dicono sempre così, lo chiamano “atto di Dio,”; ma i geologi hanno verificato che la causa è tutta umana, ed è stato piuttosto il crollo sotterraneo a provocare le onde registrate dai sismografi.
La causa è ancora la stessa di cui parlava Tillman Cadle, la causa di morte più frequente nelle miniere d’America da un secolo e mezzo: l’avidità che “spoglia” i pilastri che reggono il soffitto della galleria per prendersi fino all’ultimo grammo di carbone prima di abbandonarla esaurita. Non c’è nulla di imprevedibile in queste tragedie: l’ente federale per la sicurezza delle miniere (MSHA) aveva segnalato non meno di 32 violazioni alle norme di scurezza, in quella miniera, nel solo 2007, e ben 325 dal 2002. “Non è poi così male,” commenta J. Davitt McAteer, ex direttore della MHSA: “siamo nella media”, le miniere americane sono più o meno tutte così.
Per la mancanza di una seconda via d’uscita dalla miniera, la Murray Energy è stata multata nel 2006 di ben 60 dollari. L’industria mineraria ha contribuito con 375.000 dollari alla campagna elettorale di Mitch McConnell, senatore del Kentucky, marito della ministra del lavoro Elaine Chao (il vice ministro è il suo ex coordinatore finanziario, Stephen Law). Sotto Elaine Chao, le già rare ispezioni e multe si sono diradate, e le morti in miniera sono tornate a crescere: il rischio di morte in miniera negli Stati Uniti è di almeno tre volte che in Inghilterra, e quasi dieci volte più che in Olanda. I dirigenti della MSHA che avevano denunciato le inadempienze di Murray sono stati trasferiti o licenziati. In una conferenza stampa, Murray ha accusato Hillary Clinton di essere “antiamericana” per aver detto che, se è eletta presidente, nominerà persone a cui “stanno a cuore i diritti e la sicurezza dei lavoratori.”
Non è solo questione dell’arroganza assassina di un capitalista e di un settore industriale, o dei criminali conflitti di interessi di politicanti che fanno sembrare la nostra “casta” un’accozzaglia di dilettanti. E’ che in tutto il mondo il lavoro è ridiventato una risorsa usa e getta, precario, sacrificato al dio della produzione, del progresso e delle fonti energetiche, con sempre meno diritti (e lo chiamano riformismo). Le parole di Hillary Clinton sono senz’altro da apprezzare. Ma forse è il caso di ricordarsi che non molto cambierà fino a quando la vita di chi lavora dovrà dipendere dal buon “cuore” dei politici e degli amministratori. Non era al cuore che si era affidato Franklin Delano Roosevelt all’inizio del New Deal, ma alla forza organizzata dei lavoratori, incentivando il riconoscimento e il rafforzamento della loro rappresentanza, sindacale e politica. In assenza di questo, non c’è benevolenza, non c’è capitalismo dal volto umano, non c’è buonismo che tenga. Sul lavoro si muore sempre di più, in Italia come negli Stati Uniti e in Cina; se ne parla un giorno o due, si proclama un’emergenza per qualcosa che è solo normalità, poi torna il silenzio - e la chiamiamo globalizzazione, e lo chiamiamo progresso.