22 novembre 2007

Due segnalazioni


È disponibile in libreria, o direttamente sul sito dell'editore Donzelli, Storie orali il nuovo libro di Alessandro Portelli.

Inoltre è stato aggiornato il podcast delle Lezioni di Storia, che include anche la lezione Il bombardamento di San Lorenzo, tenuta da Alessandro Portelli il 28 settembre 2007. È possibile scaricare la lezione dalla barra laterale (il peso è di circa 43 MB), o ascoltarla con il player qui sotto.


18 novembre 2007

Mein Kampf in libreria

La Repubblica 13.11.2007
«Un segnale molto grave». Alessandro Portelli, consigliere delegato del sindaco alla Memoria, ha definito così la presenza sugli scaffali delle librerie delle stazioni Termini e Tiburtina di decine di copie del Mein Kampf di Adolf Hitler. Portelli, avvertito della ripubblicazione dai suoi studenti (insegna Letteratura americana alla Sapienza), in questi giorni è ad Auschwitz «il luogo in cui le idee espresse nel Mein Kampf si sono pienamente materializzate e realizzate». Insieme al consigliere, il sindaco Veltroni, i ragazzi delle secondarie e i sopravvissuti dei campi di concentramento - come Shlomo Venezia il cui libro-testimonianza Sonderkommando Auschwitz, appena uscito, si trova in libreria di fianco al testo di Hitler.«In questi giorni nel nostro Paese riprendono fiato ideologie razziali e pratiche discriminatorie» ha detto Portelli. «E le forme più estreme e incompetenti di revisionismo storico fanno di ogni erba un fascio e permettono di trattare questo ignobile libro come una merce tra le altre»

LaRepubblica 15.11.2007
È stato ritirato dalle librerie delle stazioni Termini e Tiburtina, entrambe gestite dalla Borri´s Books, il Mein Kampf di Adolf Hitler, presente fino a ieri in un numero consistente di copie tra gli scaffali. Anzi: esposto a formare una di quelle pile che dovrebbero attrarre di più il cliente. Ritirate dopo che il 12 novembre scorso il delegato del sindaco alla Memoria, Alessandro Portelli, aveva scritto una nota per denunciare il fatto «gravissimo» a lui segnalato proprio mentre si trovava ad Auschwitz nell´annuale visita ai lager con il sindaco, i ragazzi delle scuole secondarie e i sopravvissuti dei campi di concentramento. Tante le reazioni all´indomani della nota e di un articolo pubblicato da Repubblica. Tra queste, quella della comunit� ebraica, intervenuta sulla vicenda per mezzo del suo portavoce, Riccardo Pacifici. Accogliendo le proteste, Sabina Borri, titolare della libreria, ha tolto dagli scaffali il Mein Kampf «nel rispetto dei sentimenti che hanno pervaso la comunit� ebraica» specificando che del libro ne sono state vendute «solo otto copie». «Come ogni anno» ha poi concluso «il 28 gennaio creeremo nella nostra libreria un angolo della memoria a cui, ci auguriamo, collaborer� al comunit� ebraica romana».Eppure è almeno dal 2002 che la Kaos edizioni ripubblica il testo, catechismo della Gioventù hitleriana, vangelo delle SS, bibbia del popolo tedesco, come è stato alternativamente definito. E di recente lo ho ristampato la casa editrice La lucciola di Varese: è proprio questa ristampa quella arrivata nelle librerie romane. Una ristampa secca, senza alcuna introduzione, a differenza dell´edizione Kaos che presenta una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell´Aned, (Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti), ed è a cura di Giorgio Galli. «Esistono infatti due tipologie e due scuole di pensiero riguardo a testi come questo» ha sottolineato Riccardo Pacifici «Il primo è quello becero propagandistico, in alcuni casi legato a case editrici schierate politicamente con proprietari noti alle cronache per attivit� eversive nel nostro paese. La seconda scuola di pensiero è quella di far conoscere questi testi accompagnandoli con prefazioni che prendano le distanze dai contenuti e li inquadrino in un contesto storico. Un approccio utile alle nuove generazioni» ha concluso Pacifici «per capire dove è stata partorita l´ideologia nazifascista». Il Mein Kampf, insomma, a 82 anni dalla sua prima pubblicazione, continua a far parlare di sé. In esso un Hitler che aveva appena tentato il colpo di Stato a Monaco e stava trascorrendo un periodo in carcere (siamo nel 1924), elencava in nuce tutte le sue deliranti idee: l´antisemitismo, la gerarchia di razze con a capo ariani biondi con occhi azzurri, l´antisemitismo, la lotta di razza, nuovi spazi di vita nell´Est per i tedeschi, la creazione di un Führerstaat, uno Stato del Führer con conseguente eliminazione del parlamentarismo. Durante i 12 anni del regime furono vendute del libro oltre un milione e mezzo di copie.

Gli ultras percepiti

il manifesto 16.11.2007

Forse la chiave per leggere gli eventi di questi giorni l’ha data il geniale corsivo di qualche giorno fa di Alessandro Robecchi sul “giovane percepito.” A New York, la polizia ammazza con venti colpi di pistola un giovane nero: lui aveva in mano una spazzola, loro hanno percepito una pistola (e ricordate Amadou Diallo, aveva un portafoglio, hanno percepito un’arma e l’hanno ammazzato con 41 colpi). Percepisco nero, percepisco giovane, percepisco pericolo. E sparo. Chissà che cosa ha percepito l’agente della stradale a Badia al Pino vedendo partire la macchina col povero Gabriele Sandri: percepisco giovane, percepisco ultrà, e sparo (però prendiamo atto che i tentativi di depistaggio e copertura stavolta sono caduti, uno dopo l’altro). E quando le istituzioni percepiscono “terrorismo” e “assalto ai poteri dello Stato” nella disgraziata jacquerie di domenica sera, be’, il tragico e il ridicolo si alimentano fra loro. Chissà che percepirebbero davanti a un attentato terroristico vero.
Però: c’è anche una modalità speculare, che percepisce un rivoluzionario in chiunque per qualunque ragione tira un sasso a un poliziotto. C’è sasso e sasso, direi. Leggo sul manifesto che la cultura ultra fa paura perché è cultura di strada. Io vorrei intanto dire sommessamente che spesso alcuni suoi aspetti e alcuni suoi elementi fanno paura a me: per esempio, ho paura di aprire la bocca allo stadio per lamentarmi delle mostruosità razziste e xenofobe gridate tutto intorno a me; tanto che, per paura, finisco per andarci sempre meno. Ho paura di quei giovanotti che partivano da piazza Vescovio con mazze ferrate e bastoni, e che sono contigui, se non gli stessi, a quelli che da piazza Vescovio sono andati ad aggredire, ricordiamo?, il concerto di Villa Ada. E ho paura di quelli che, in nome del povero Gabriele Sandri, hanno riempito di svastiche Ponte Milvio e dintorni.
I “giovani percepiti” di cui parla Robecchi sono quelle figure immaginarie di “fancazzisti ubriachi potenziali serial killer drogati e maniaci sessuali” che nella vulgata paranoica prendono il posto di tutta una generazione. Non vorrei che noi facessimo lo stesso con il giovane percepito con sciarpa ultrà e sasso in mano facendone nel nostri immaginario il volto non solo di tutti i tifosi ma di una generazione intera.
Certo che esistono il disagio delle periferie (ma piazza Vescovio è un tranquillo quartiere di classe media. E Balduina?), la mancanza di luoghi di aggregazione, il deserto della politica. Però, da un lato, non tutti i ragazzi di periferia vanno allo stadio coi bastoni; dall’altro, vogliamo spiegare col disagio giovanile delle periferie anche i ragazzi che hanno provato a linciare i rumeni a Tor Bella Monaca (e la domenica dopo lo stadio gridava insulti al giocatore rumeno Mutu), o i tifosi della mia stessa squadra che anni fa massacrarono un africano (e lo stadio era pieno di volantini di sostegno)? Siamo in una città dove le aggressioni fasciste, proprio in periferia (mi arrivano e mail spaventate da Casalbertone), sono all’ordine del giorno; e vogliamo delegare a quegli ultras che sono egemonizzati dai fascisti, una legittimità rappresentativa di un’intera realtà sociale?
Perciò per favore, ragioniamo, e distinguiamo. Ha profondamente ragione Alessandro Del Lago quando dice che ai disastri da cui nascono gli ultras non si pone rimedio con i decreti, e tanto meno con le cavolate della tolleranza zero e del pugno duro. Però non credo che gli si ponga rimedio neanche con l’impunità, l’indulgenza e le strizzate d’occhio.

14 novembre 2007

Linciaggio aTor Bella Monaca

Nella sua autobiografia, Black Boy, Richard Wright ricorda la paura con cui cresceva un ragazzo nero nel Sud razzista degli Stati Uniti: ogni volta che succedeva qualche cosa, scrive, “non era un crimine commesso da un nero, ma dai neri.” Tutti i neri erano colpevoli, qualunque nero andava punito, e la forma della punizione era il linciaggio.
Ai linciaggi ci siamo arrivati. Il delitto di Tor di Quinto non è stato commesso da un rumeno, ma dai rumeni, e dieci cittadini italiani purosangue, con coltelli e bastoni, e incappucciati come il Ku Klux Klan, fanno giustizia a Tor Bella Monaca. Ed è inutile condannare queste cose a posteriori, bisogna pensarci prima alle conseguenze di certi discorsi. Ma è ben avviato sulla strada della punizione collettiva, a colpevoli e innocenti indiscriminatamente, anche lo sbaraccamento del campo di Tor di Quinto; è una punizione collettiva e preventiva il “trasferimento” dei rom oltre il raccordo anulare, spostare il problema un po’ più in là, come la polvere sotto il tappeto.
Perché è vero che il problema esiste, non nascondiamoci dietro un dito. L’associazione che gestisce un campo sportivo accanto al terreno di Tor di Quinto da anni denunciava furti continui, scriveva al sindaco e non riceveva risposta. La Romania (ma non era l’Albania, fino a qualche mese fa?) europea e democratica liberatasi dal comunismo non ci ha mandato soltanto il meglio di sé, come d’altronde l’Italia dell’emigrazione non ha mandato e non manda soltanto il meglio di sé in America o in Germania. Le migrazioni sono fiumi che si portano appresso anche un sacco di detriti, e non c’è diga che tenga. Ed è vero che la sicurezza è un requisito importante della vita civile, un diritto democratico: di che altro parlavano le donne che, almeno trent’anni fa, prima che ci fossero albanesi o rumeni a Roma, manifestavano con lo slogan “riprendiamoci la notte”?
Ha detto il segretario del Partito Democratico che la sicurezza non è né di destra né di sinistra. Giusto. Però sono di destra o di sinistra le definizioni che ne diamo, e le risposte che proponiamo. Tutte e tutti abbiamo il diritto di uscire da una stazione di sera senza avere paura; ma tutte e tutti abbiamo anche il diritto di non essere ammazzati in carcere a Perugia o a Ferrara, di manifestare senza finire torturati a Bolzaneto. Certo, per le persone ordinarie il rischio di strada è più immediato e concreto del rischio in carcere o in piazza; ma c’è uno scivolamento pericoloso, quando lo stato che chiamiamo a garantirci la sicurezza dai crimini dei marginali si considera al di sopra delle leggi e delle inchieste. Tanto che uno esita prima di dire che, in certi luoghi e in certi tempi, prima che i delitti avvengano, ci vorrebbe più polizia (polizia, dico: non vigilantes privati).
Io non so se sarebbe stato di destra o di sinistra illuminare meglio quella strada e quella stazione (quelle stazioni: io e la mia famiglia frequentavamo quella successiva, a Grottarossa, e avevamo paura di scendere la sera, anche se non c’erano ancora rumeni nei dintorni). Fra l’altro, sono convinto che l’abbandono è anche conseguenza (di destra o di sinistra?) della rinuncia a fare delle ferrovie urbane una seria alternativa al feticcio automobile, ma questa è anche un’altra storia. E non so se sarebbe di destra o di sinistra accorgersi prima che sia troppo tardi delle condizioni criminogene in cui vivono migliaia di nostri concittadini europei, e fare qualcosa per i diritti umani di quella maggioranza di loro che non è venuta qui per delinquere. Anche loro hanno diritto alla sicurezza. Dopo il linciaggio di Tor Bella Monaca, il ministro degli interni Amato dice, “è quello che temevo”; il prefetto di Roma Mosca dice, “era quello che temevamo.” Bene: che cosa avete fatto per prevenirlo?
E poi, ovviamente, la punizione ci vuole: personale e col dovuto processo di legge, non collettiva e vendicativa; ma ci vuole. Stavolta, anche grazie all’aiuto di una donna del campo, il colpevole è già in prigione e sconterà la giusta pena, con la dovuta certezza. Ma gridare al “pugno duro” è infantile e strumentale. Sappiamo benissimo, e se ne stanno accorgendo persino gli Stati Uniti, che nemmeno la pena di morte fa veramente da deterrente alla criminalità. Inseguire la destra sul piano della repressione è come la corsa di Achille e la tartaruga: loro stanno sempre un po’ più in là, un po’ oltre. Più parliamo il loro linguaggio, più facciamo propaganda alle loro idee, più gli prepariamo la rivincita. Se non vogliamo ritrovarci, come da più parti già si annuncia, con Fini sindaco di Roma, proviamo a fare nostre le sagge e preoccupate parole di Stefano Rodotà: “Serve davvero, con ‘necessità e urgenza’, un’altra forma di tolleranza zero. Quella contro chi parla di ‘bestie’ o invoca metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere la ‘fabbrica della paura’. E’ il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce.”
il manifesto 8.11.2007

Due paradossi sulla proposta del pubblico ministero in Cassazione, che chiede di assolve gli ufficiali nazisti imputati per la strage di Sant’Anna di Stazzema.In primo luogo, a me pare giustissimo che il massimo organo giudiziario ci ricordi che la responsabilita’ penale e’ personale e che va dimostrata al. di fuori di ogni possible dubbio attraverso il procedimento giudiziario. Il paradosso e’ che questa affermazione di principio casca nel mezzo di furori sicuritari in cui la nostra societa’ risponvera il principio delle punizioni collettive, delle rappresaglie, dei trasferimenti forzati, delle espulsioni di massa, e della pulizia etnica. Non sarebbe male se le garanzie giuridiche che invochiamo per i nazisti valessero per tutti, come diritti umani prima che come norme di legge, che dovrebbero valere pure per gli immigrati. (Corollario: nel caso di sant’Anna di Stazzema, il pubblico ministero ribadisce che non si puo’ condannare una persona sulla base del teorema “non poteva non sapere” e sulla base di una chiamata di correo – in questo caso, la testimonianza di altri soldati nazisti che hanno partecipato alla strage. Chiunque di noi abbia memoria del processo “7 aprile” e dintorni negli anni ’70-’80 sa bene quanti anni di carcere sono stati comminati precisamente su questa base che adesso si dichiara inadeguata.) Secondo paradosso. Da troppo tempo, direi proprio dagli anni ’70 ad oggi, abbiamo eccessivamente delegato all’ordine giudiziario non solo la nostra memoria storica ma anche la nostra morale politica. Conosco giudici, anche giudici militari, che sulla memoria storica lavorano con competenza e scrupolo degni dei migliori storici; ma non e’ questo il loro compito. Il risultato e’ che la responsabilita’ politica e la responsabilita’ morale spariscono quando non sia possible dimostrare una responsabilita’ criminale: non condanniamo gli ufficiali nazisti, quindi nessuno ha colpa della strage, quindi quella strage non e’ stata commessa; “non c’e’ nulla di penalmente rilevante,” “non sono mai stato condannato per nessun reato” sono mantra autoassolutori usati da tutta la nostra classe dirigente: e, come sanno Andreotti e Berlusconi, una prescrizione per decorrenza dei termini equivale a una prova di innocenza. Se non c’e’ condanna penale, non e’ successo niente. Ma gli innocenti di Sant’Anna di Stazzema e di centinaia di altre stragi naziste in Italia sono morti davvero, e li hanno uccisi i nazisti e i loro alleati e complici, su questo non ci piove. Ammesso (e non del tutto concesso) che non sia possible dimostrare in modo soddisfacente le responsabilita’ personali dei singoli, questo non significa che non siano gia’ ampiamente dimostrate le colpe condivise di un’ideologia, di un sistema politico, di un insieme di istituzioni. Pensare di non poter condannare questi vecchi nazisti non autrorizza a riscattare il nazismo e il fascismo suo alleato e servo.Infine, i processi per le stragi naziste sono un atto doveroso di ricerca di verita’ e di giustizia, ma anche una condanna non risarcisce il dolore e il danno. C’e’ negli Stati Uniti tutta una retorica sulla “closure,” sul “punto finale” che la condanna (specie la condanna a morte) dovrebbe costituire per le vittime e i sopravvissuti – salvo poi scoprire che non e’ cosi’. Giustamente, i familiari delle Fosse Ardatine si sono battuti in tribunale per provare la colpevolezza di Erich Priebke; ma anche quando la condanna e’ arrivata, la sofferenza e’ rimasta. Percio’ non possiamo delegare ai tribunali il risanamento delle ferite, la serenita’ d’animo di chi ha sofferto. Forse non ci si arrivera’ mai, il danno inflitto e’ irrisarcibile e interminabile. Per questo, qualche che sia infine la sentenza, e’ importante che Sant’Anna non resti sola, che la fine dell’iter giudiziario non dia adito al silenzio. I processi stanno a dimostrare che lo stato, e la societa’ che rappresenta, non abdica ai suoi doveri e alle sue leggi. Ma la solidarieta’ per le comunita’ e per le persone offese (compresi tutti noi, come esseri umani e come cittadini) non puo’ dipendere da questo, non puo’ fermarsi li’. La cosa piu’ importante che dovremmo fare, che potremmo fare, e’ costruire un mondo in cui la logica che ha condotto a quei crimini scompaia dal senso commune e dai rapporti fra noi esseri umani. Ma mi pare che stiamo facendo proprio il contrario

Post scriptum: La Casazione non ha accolto le richieste del pubblico muinistero e ha confermato i tre ergastoli (sia pure simbolici, dato che non verranno cmunque scontati).