30 luglio 2015

Lampedusa, Calais, Ventimiglia...

il manifesto 30.7.2015 Da Lampedusa non si entra. Da Calais non si esce. Da Ventimiglia non si passa. Dalla Serbia a Budapest si viaggia in vagoni piombati. A Ceuta e Melilla, enclave spagnole in terra d’Africa, come al confine fra Bulgaria e Turchia o al confine fra Ungheria e Serbia, si alzano reticolati e muri. Un po’ per volta l’Europa sta ritrovando le sue radici: confini inviolabili, egoismi e pregiudizi nazionali e razziali, l’eredità di un secolo e mezzo di colonialismo, le conseguenze di guerre dissennate a cavallo del terzo millennio, gli effetti del pensiero unico occidentale in forma di liberismo sfrenato. Il tunnel di Calais è una vivida metafora di tutto questo: pensato per unire, è diventato una invalicabile barriera divisoria per chi non ha i soldi del biglietto – anzi, una barriera fra chi i soldi ce li ha e chi no. Scrivendo su un altro confine e un altro muro – quello fra Stati Uniti e Messico, la scrittrice chicana Gloria Anzaldúa conclude: il confine “es una herida abierta”, è una ferita aperta, dove il Terzo Mondo si strofina con il Primo, e sanguina. Come il Rio Grande e il muro che lo costeggia, anche Lampedusa, Calais, Ventimiglia sono ferite aperte, il sanguinante confine fra un Primo Mondo sempre più selvaggio e un Terzo Mondo che non ce la fa più a sopportare fame, guerra e dittature come destini ineluttabili e viene a chiedercene il conto. Adesso questi due mondi non si strofinano più soltanto ai confini fra loro, ma anche dentro l’Europa stessa, e la insanguinano tutta; ma il senso è sempre quello: l’insopportabilità di un mondo in cui ricchezza e risorse si ripartiscono in misura sempre più ingiusta e disuguale. Un tempo, di queste ingiustizie si occupava la sinistra. Oggi, ci raccontano, sono finite le ideologie; ma la lotta di classe continua, in forme insolite e drammatiche. Da un lato, quella guerra di classe dei ricchi contro i poveri di cui ha scritto eloquentemente Luciano Gallino (e di cui la vicenda greca è una variante significativa). Dall’altro, la più antica lotta dei poveri per avere anche loro quello che hanno i ricchi: l’immigrazione di massa è infine (ed è sempre stata) proprio questo, l’arma estrema dei dannati della terra per un minimo di accesso ai beni della terra su cui viviamo tutti. A differenza delle forme di lotta e dei conflitti sociali del secolo scorso, questa lotta non è mossa dal progetto di abbattere un sistema, ma dall’ansia di condividerlo; non dall’ostilità ma dal desiderio, dal sogno, se non dall’amore idealizzato. Solo che siccome il sistema che vorrebbero condividere è in realtà retto da egoismo ed esclusioni, la richiesta di condivisione ne mette a nudo limiti e ipocrisie, impone inevitabilmente il cambiamento e per questo l’Europa la percepisce come invasione e minaccia e cerca in tutti i modi di fermarla. Ma fermare un simile cambiamento epocale è come provare a fermare il mare con le mani. E’ difficile dire come possiamo noi svolgere un ruolo in questa nuova lotta di classe . Il lavoro di tante forme di volontariato e di intervento di base è prezioso, aiuta, salva vite, crea rapporti; ma le dimensioni del dramma sono almeno per ora superiori alle forze che può mettere in campo da solo. Io credo che dobbiamo comunque tutti accettare che le nostre vite non possono continuare uguali come se nulla fosse, magari con un po’ di tolleranza e benevolenza in più. Né noi né i migranti ci possiamo salvare da soli: quelli che dicono “prima gli italiani” non hanno capito che entrambi abbiamo bisogno delle stesse cose – casa, lavoro, salute, scuola, diritti, tutte cose che i migranti cercano e che noi stiamo un poco per volta perdendo, e che possiamo forse salvare e recuperare insieme, per tutti. Dobbiamo ritrovare alla democrazia il suo significato profondo, che non sta nella politica e nelle istituzioni ma nelle anime: democrazia come solidarietà, come capacità di riconoscere nell’umanità degli altri la nostra umanità stessa. C’è ancora qualcuno che lavora su questo? Diceva un testo sacro del pensiero liberale: la mia libertà finisce dove comincia quella del mio vicino: che è precisamente un invito a vedere il vicino, specie si diverso e nuovo, come un limite alla propria libertà, come un ostacolo e un potenziale nemico. Io credo che dovremmo riformularlo: la nostra libertà comincia dove comincia la libertà del nostro vicino, i nostri diritti e quelli dei migranti sono per sempre inseparabili, la libertà di tutti noi finisce, e comincia, a Lampedusa, a Ventimiglia e a Calais.

19 luglio 2015

Dov'è la sinistra a Casale San Nicola? - il manifesto 19.7.2015

L’altro giorno la nostra strega preferita, Angela Merkel, ha fatto piangere una bambina palestinese dicendole senza peli sulla lingua: “non possiamo accogliere tutti”. Insensibilità teutonica. Noi latini siamo più umani e bonari: non è che non possiamo accogliere tutti; più semplicemente, non vogliamo accogliere nessuno. Adesso ci sorprendiamo e ci scandalizziamo per le schifezze esplose a Treviso e alla periferia di Roma, con tanto di contorno a braccio teso di Forza Nuova e Casa Pound. Io però mi vorrei fare anche un’altra domanda: com’è che a Casal San Nicola i fascisti c’erano per aizzare le fiamme, e invece non c’era traccia di soggetti democratici, civili e antirazzisti a contrastarli, a spiegare, a offrire ragionamenti alternativi, e magari a sostenere i migranti in questo momento difficile delle loro vite? Dov’erano le brave persone del PD locale, che conosco e rispetto e che ho visto attivarsi solo per organizzare le primarie? Dov’era Sel? E lasciamo stare gli altri. E’ la stessa storia che ho visto, dall’altro lato dello stesso quartiere, qualche anno fa, quando l’allora amministrazione Rutelli cercò di decentrare i campi rom istituendone uno di dimensioni limitate anche da queste parti: blocchi stradali, indignazione, grida rivoltose, Forza Italia e gli ultras della Lazio in strada, e della sinistra non una traccia. E alla fine, come a Treviso, come a viale Morandi, vincono loro. Il senso comune, il mescolarsi di paura, egoismo, vittimismo, ignoranza che si respira nell’aria di oggi è anche il risultato della nostra abdicazione dalla politica come pratica quotidiana nella società e nei territori, direi come didattica ed educazione di massa come è stata per tanta parte della nostra storia. Ci siamo riempiti la bocca con Syriza, ma in paese ben più difficile e con più immigrati del nostro, Syriza nelle strade e nei quartieri c’era, ed è per questo che finora Alba Dorata non egemonizza le piazze. I manifestanti di Casale San Nicola non sono innocenti e la “comprensione” da più parti manifestata per le loro “ragioni” è pericolosamente vicina alla complicità. Ma sono soggetti subalterni e manipolati, capaci di ribellarsi solo contro gente più debole di loro. La colpa più grave è la nostra, la colpa è di una sinistra che ha un’idea rattrappita, separata, specialistica e mediatica della politica, che ha scelto di lasciare impolverare una democrazia costituzionale basata sulla partecipazione attiva dei cittadini – e che anche per questo si è ampiamente lasciata contaminare da settarismo, da affarismo e corruzione, e anche in buona parte dalla stessa mentalità egoistica e proprietaria di cui vediamo anche in questi episodi i risultati. I nostri governanti non hanno per migranti e rifugiati più rispetto dei rivoltosi trevigiani e romani. Basta vedere come li gestiscono: non sono persone ma problemi, da collocare dove capita, nella prima discarica che viene sotto mano, senza progettare, senza coinvolgere, senza attivare pratiche democratiche che possano prevenire i conflitti e aiutare l’accoglienza, senza assicurarsi che dove li mettono ci possano davvero vivere. Chi sta al governo lo sa benissimo che aria tira. Operazioni improvvisate, dilettantistiche e autoritarie come queste sembrano – magari, sapendo chi c’è al ministero degli interni, sono – fatte apposta per aizzare il peggio che c’è nel paese. Poi si mandano i poliziotti coi caschi blu, a menare e a farsi menare. Le vere priorità di governo sono altre. Eppure io resto convinto che questo paese non è rappresentato dai facinorosi di Quinto e di Casale San Nicola. Sono convinto che siano minoranze che monopolizzano il discorso pubblico e mediatico solo perché glielo consente il silenzio di tutti gli altri. La possibile ricostruzione della sinistra passa da qui. Vanno benissimo gi accordi politici, le sinergie fra notabili e gruppi dirigenti. Ma fino a quando in strada ci saranno solo quelli di Casa Pound, tutto questo – al meglio – resterà chiuso fra le solite quattro mura. A proposito. All fine, la bambina palestinese che Angela Merkel ha fatto piangere e la sua famiglia, in Germania ci potranno restare

01 luglio 2015

Charleston - South Carolina - June 20, 2015

Before he started shooting, white terrorist Dylann Roof told the congragation in Charleston’s Emanuel African Methodist Episcopal Church: “You rape our women and are takng over our country”. These are two distinct paranoias – sexuality and power – harking to different historical times and yet connected by an undercurrent of meaning. The image of the “black rapist” has deep roots in history, so much so that it sounds even slightly anachronistic today. Of course, it never disappeared from American (and Italian) imagination: we still remember the use of Willie Horton in Bush’s 1988 campaign. Yet, it harks back mostly to the years of mass lynching between Reconstruction and the 1930s, and has not been as visible recently. The fact that Dylann Roof mentioned it first is a sign of the deep atavistic pathologies he was swimming. On the other hand, the belief that black people are taking over America is closely linked to the present moment. The election of Barack Obama, far from being a sign of the erosion of racial barrier, has unleashed fears of black domination, with African Americans on top and white people reduced to the status of second-class citizens. Whether intentional or not, even the recent wave of police killings of black people is part of this paranoid context. The white suprematist vision of the world cannot countenance coexistence, equality, multiplicity. Either we are on top, or them. So, each time white power appears to have been checked in the slightest manner, it is perceived as an apocalyptic change. Likewise, a few thousand migrants represent an “invasion” to paranoid white Europe. What keeps these two historically distinct paranoias together is the obsession with purity. The obsession with rape evokes the terror of “miscegenation”: in racial ideology, one sixteenth or less of black “blood” makes a person entirely black. Likewise, even the slightest fragment of power by back in society is perceived as a contamination that makes the whole public sphere dirty and impure. An anthropological definition of “dirt” is “matter out of place”: nothing is more out of place than black Trevor Martin in a white neighborhood, or black Barack Obama in the White House. This is why I think that the question whether Dylann Roof acted alone or not is irrelevant. Even if he turns out to have acted alone, his action s not an isolated event. We may have forgotten the white terrorist who broke into a Sikh temple in Wisconsin in 2012 and killed six people: he hated Muslims and Arabs, and the fact that Sikhs are neither was irrelevant, they were out of place anyway, like all immigrants, like this week’s migrants perched on the shoals at the French border or camping around the stations in Rome or Milan (and our peculiar obsession with purity and dirt has invented the paranoia of migrants as bearers of scabies). Dylann’s is not an isolated case: have we forgotten the black church burnings of the mid-90s? ,or the four children killed in Church in Birmngham in 1963? We ought to investigated the relationship between the obsession with the dirt and the aggression to the sacred in all these cases. Charleston is a special place. In slavery times, South Carolina used to be the one state with a blck majority population. Here, in 1821, the ex-slave Denmark Vesey and his comrades organized the most important black revolt in slavery’s history – important not for what they did (they were discovered and killed before they could act) but for what they thought. Charleston is connected to the Caribbeans, and Denmark Vesey had heard from the Haitian sailors in Charleston harbor the story of their revolution and the ideas of the French revolution. In elegant reactionary Charleston, black slaves were the bearers of the ideas of freedom and modernity. Today, it is their descendants who help us salvage some traces f a progressively eroding sense of humanity.

Charleston, South Carolina. - il manifesto 20.6.2015

Prima di iniziare il massacro, Dylann Roof ha detto ai fedeli neri della Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston, South Carolina: “stuprate le nostre donne e vi state impadronendo dell’America”. Sono due paranoie diverse – la sessualità e il potere - connotate da epoche diverse ma infine connesse da un sottofondo di senso. La figura del nero violentatore affonda radici profonde nella storia, e questo le dà oggi un curioso sapore anacronistico. E’ vero che non è mai del tutto scomparsa dall’immaginario americano (e neanche dal nostro): la campagna elettorale che portò all’elezione di Bush padre nel 1988 fu tutta imperniata sulla figura di Willie Horton, un afroamericano che, in libera uscita dal carcere, aveva violentato una donna bianca. Tuttavia, rinvia soprattutto agli anni dei linciaggi di massa, fra la guerra civile e gli anni ’30, ed è stata relativamente meno presente in epoca più recente. Il fatto che Roof l’abbia riesumata rivela da quali paure ataviche è stato mosso, in quali profondità oscure è andato a pescare. L’idea che i neri stiano impadronendosi dell’America invece è strettamente legata alla contemporaneità. La presidenza Obama, lungi dal segnare il superamento delle tensioni razziali, ha finito per acutizzarle, generando la convinzione che i neri stiano prendendo il potere e si preparino a ridurre i bianchi a cittadini di seconda classe. Intenzionale o meno, anche l’ondata di assassinii di neri da parte della polizia fa parte di questo quadro paranoico. La visione del mondo dei ”suprematisti” bianchi non ammette vie di mezzo coesistenze, sfumature: se non dominiamo noi, domineranno loro. Per questo, ogni volta che il potere bianco viene sia pure minimamente intaccato, è percepito come l’inizio di un capovolgimento apocalittico. E poche migliaia di profughi rappresentano un’”invasione” agli occhi di un Europa bianca paranoica. Quello che tiene insieme queste due paranoie storicamente diverse è l’ossessione della purezza. L’atavica paranoia dello stupro si collega al terrore della miscegenation, la “mescolanza” che contamina la purezza del “sangue” della stirpe dominante. Nell’ideologia razziale americana, basta avere un sedicesimo di “sangue” nero per essere considerati cento per cento neri. La moderna ossessione per la “conquista” o l’”invasione” nera è anch’essa fondata su un analogo terrore della contaminazione : basta che i neri ottengano un frammento di potere perché l’intera sfera del potere sia percepita come sporcata e impura. Se è vero che lo sporco è “materia fuori posto”, ebbene, niente è più fuori posto di Treyvor Martin in un quartiere per bianchi o di un nero alla Casa Bianca. I puri devono correre ai ripari. Per questi motivi mi sembra mal posta la domanda se il terrorista Dylann Roof sia un isolato o faccia parte di un’organizzazione. Anche se avesse agito tutto da solo, comunque non è un isolato, perché è espressione di una patologia diffusa e attivamente coltivata da media e politici di destra. Non è comunque isolato il suo gesto. Forse ce ne siamo già scordati, nel succedersi incessante di tragedie di cronaca, ma nel 2012 un altro terrorista bianco è entrato un tempio Sikh nel Wisconsin e ha ammazzato sei persone: odiava gli arabi e i musulmani, che i Sikh non fossero né l’uno né l’altro era irrilevante. Erano comunque gente fuori posto nell’America bianca e cristiana, come sono fuori posto tutti i migranti, accampati sugli scogli di Ventimiglia o attorno alle stazioni di Roma o di Milano (e la nostrana ossessione della purezza si è inventata pure l’emergenza scabbia). Non è un gesto isolato non solo perché, come in tanti hanno ricordato, echeggia la strage di Birmingham, Alabama, le quattro bambine uccise in chiesa da una bomba terrorista bianca nel 1963, ma anche perché – e anche questo fatichiamo a ricordarcelo – a metà anni ’90 l’America fu segnata da un’ondata di incendi dolosi di chiese nere. E c’è da domandarsi che relazione esista fra l’ossessione dello sporco e l’aggressione ripetuta al sacro. Charleston, dove è successa questa strage, è un posto un po’ speciale. Al tempo della schiavitù, il South Carolina era l’unico stato in cui i neri fossero maggioranza. Fu qui che nel 1821 l’ex schiavo Denmark Vesey e un gruppo di suoi compagni organizzarono il più importante tentativo di rivolta della storia della schiavitù – importante non tanto per quello che fecero (furono scoperti e uccisi prima di poter agire) quanto per quello che pensavano. Orientata verso il Sud, verso i Caraibi, Charleston era “contaminata” dalle idee rivoluzionarie e di liberazione che arrivavano dall’appena compiuta rivoluzione di Haiti. Denmark Vesey era stato in contatto con i marinai haitiani, conosceva il pensiero della rivoluzione francese. Nella raffinata reazionaria Charleston, gli schiavi e gli ex schiavi erano i portatori delle idee di modernità e di libertà. Oggi, sta ai loro discendenti salvare un senso di umanità di cui sempre più, ogni giorno, perdiamo le tracce.