26 maggio 2013

In ricordo di Luigi Pintor

il manifesto 15.5.2013 Non posso dire di avere veramente conosciuto Luigi Pintor. Non sono mai riuscito a superare la soggezione per una storia, un’intelligenza, una serietà così alte. Nemmeno quando cercavo di scrivere una storia orale della Resistenza romana ho avuto il coraggio di chiedere a lui, che ne era stato protagonista, un’intervista. Solo di fronte all’ultimo dei lutti dolorosi che gli hanno segnato la vita ho osato avvicinarmi e dirgli che gli volevo bene. Me lo ricordo una sera, in una affollata assemblea dei tempi del manifesto gruppo politico. Con un’improvvisa accentuazione delle sue vocali sarde, in una frase sola, senza cattiveria ma senza appello, sgonfiava la retorica di un giovane rivoluzionario non tanto diverso da me. Ti faceva sentire, scrivendo o parlando, che le parole sono fatti, e che te ne devi prendere la responsabilità. Ne ha dette e scritte tante, in decenni di politica e di giornalismo; non credo che ne troveremmo una vanvera o una di troppo. Ogni volta che ho scritto un articolo per il manifesto – quotidiano comunista fondato da Luigi Pintor – ho pensato: queste parole andranno sullo stesso giornale dove vanno le sue. Le leggerà lui, probabilmente. Devono valerne la pena; non lo devono annoiare; come le sue, il più possibile, non devono sprecare la carta su cui sono scritte e gli alberi con cui è fatta. Per il solo fatto di esserci, per gli standard che ci ha dato, è stato maestro. E’ questione di stile, ovviamente; ma ascoltando e leggendo Luigi Pintor capivi che lo stile è una questione morale. Il suo stile è il rigore di un’Italia rara e migliore, di una sinistra senza retoriche, e migliorava col tempo, con l’indignazione e col dolore. I suoi libri – Servabo, La signora Kirchgessner – sono gioielli rari in una letteratura italiana che conosce poco l’arte dell’aprire abissi dicendo il meno possibile. Era anche un musicista, e si sente, non fosse altro che nella capacità di far risuonare il silenzio. Come avrei voluto che l’Italia fosse come lui, avesse il suo rigore ma anche il suo senso dell’umorismo – che è sempre stato per Luigi Pintor l’esatto opposto delle buffonerie di chi cerca la risata complice per fare il simpatico. Era uno strumento di conoscenza, una lama che tagliava l’assurdo in nome di una sensatezza della ragione che è tutt’altra cosa dal senso comune. E avrei voluto che la sinistra fosse come lui, realista e non rassegnata, autoironica e non disfattista, appassionata e senza sentimentalismi. Forse, avrei voluto essere io come lui, ed è per questo che non mi permettevo di prendermi confidenze. Si domandava se eravamo destinati a morire democristiani. Ci ha lasciato in giorni fra i più cupi di quella repubblica che aveva aiutato a fondare. Nella Signora Kirchgessner, ricordando i giorni passati nelle mani degli aguzzini fascisti e nazisti, scrive: “Il tenente in divisa, che maneggiava il frustino al piano di sopra, era in cuor suo un patriota e sarebbe oggi un senatore.” E’ una profezia ironica e sconsolata, e accurata. Ma non è un’ammissione di sconfitta, è solo la constatazione che non è finita e che c’è da combattere ancora. Dice un personaggio di Faulkner, dopo una guerra perduta:”Ci hanno ammazzato, ma non ci hanno ancora battuto.” In tanti modi diversi e lungo tanto tempo, la morte ha toccato spesso Luigi Pintor, ma la rassegnazione mai. Noi, che l’abbiamo avuto con noi, cerchiamo di meritarcelo.

12 maggio 2013

La terra a chi la lavorerebbe - il manifesto 12.5.2013

In questi giorni a Roma “coraggio” vuol dire Cooperativa Romana Giovani Agricoltori. Insieme con altre cooperative e collettivi legati al rilancio dell’agricoltura multifunzionale (legata alla qualità della vita, all’occupazione giovanile, a un uso intelligente e sostenibile delle risorse), i ragazzi della cooperativa hanno avuto il coraggio di picchettare il Borghetto San Carlo, un vasto terreno agricolo abbandonato sulla via Cassia, poco oltre il raccordo anulare per rivendicarne l’apertura e l’uso agricolo, come previsto dal piano d’assetto del parco di Veio, in cui la zona rientra. Da qualche tempo, ci rendiamo sempre più conto che la città moderna non è un’uniforme distesa di asfalto e cemento, ma è tempestata di orti di tutte le dimensioni e di spazi importanti di terre inutilizzate. Nel volantino che i giovani delle cooperative distribuiscono a chi si ferma a parlarci, si legge: ”Sono in pochi a sapere che in via Cassia 1450, a ridosso del tuo quartiere, ci sono 22 ettari di pregiato territorio agricolo e un casale dei primi del novecento acquisiti in proprietà dal comune di Roma nel marzo 2010 e da allora in stato di abbandono”. Io passo tutti i giorni davanti a quel cancello arrugginito e chiuso da un pesante lucchetto dove le cooperative hanno posto i tavoli e gli striscioni del picchetto, e non mi ero mai davvero fatto domande su quello spazio verde e vuoto al di là: era quasi come se accettassi implicitamente il senso comune che dà per scontato l’abbandono di tante preziose risorse. Ci sono voluti i picchetti perché ci facessi caso, io come non poche altre persone del quartiere che si sono fermati a parlare, a chiedere informazioni, a dare solidarietà a appoggi (questo è un quartiere difficile, che anni fa insorse in furibondi blocchi stradali contro l’ipotesi di ospitare un piccolo insediamento Rom. Ma certe volte basta che qualcuno si muova per far uscire fuori anche la sua nascosta anima civile). Il Borghetto San Carlo, continua il volantino, è un “bene comune già acquisito in proprietà pubblica grazie a una compensazione urbanistica, un contratto che con un contratto che prevede la completa ristrutturazione del casale per metterlo a disposizione dei cittadini”, a carico del precedente proprietario, il costruttore Mezzasoma che, cedendolo al comune, ha acquisiti diritti di edificazione in altre parti della città. Naturalmente, l’amministrazione Alemanno si è “dimenticata” di far rispettare il contratto. I lavori di ristrutturazione del casale, che avrebbe dovuto essere riconsegnato due mesi fa, non sono neanche cominciati e adesso anche quell’edificio (già svuotato di tutto quello che conteneva) di pregio cade in pezzi. La Cooperativa Coraggio, insieme con altre cooperative e associazioni (Cobragor, me&tree, Biosfera, Amaltea) ha presentato al comune un progetto che prevede i pieno utilizzo agricolo dei terreni, orti sociali per il quartiere, vendita diretta dei prodotti, ristorazione a chilometro zero, attività ricreative e culturali, un agri-asilo pubblico, e la creazione di trenta posti di lavoro. Sono proposte in piena linea con la formazione e le biografie degli attivisti: laureati in agronomia o in economia agraria, insieme con giovani che hanno già un’esperienza di lavoro contadino e bracciantile. Il presidio davanti al cancello chiuso del Borghetto San Carlo è una delle molte espressioni quel movimento che pensa al “ritorno” alla terra non come un passo indietro verso il passato ma come un elemento cruciale di una diversa e più vivibile modernità . Per ora, è pensato soprattutto come un modo per richiamare l’attenzione. Poi, si vedrà. Nel frattempo, i partecipanti al presidio invitano tutti a una festa con cibo e musica , a partire dalle 10 e per tutta la giornata di domenica 12 maggio davanti al Borghetto San Carlo sulla via Cassia, mezzo chilometro oltre la stele che ricorda i 14 antifascisti massacrati in quel punto dai nazisti il 4 giugno 1944.

La Repubblica Romana e i diritti di cittadinanza

12.5.2013 Qualche giorno fa in un piuttosto farneticamente post, il blog di Casa Pound se la prendeva con Sandro Medici e i suoi sostenitori, rei di usare abusivamente il nome della Repubblica Romana. Citava la frase di Sandro Medici - “Ci batteremo per la cittadinanza universale” – e aggiungeva: “prima avrebbe fatto bene chiedere cosa ne pensano i giovani volontari caduti per difendere Roma dall’arroganza dello straniero sugli spalti del Gianicolo. O cosa direbbero Manara e i suoi bersaglieri, o i legionari italiani di Garibaldi, se sapessero che le loro cariche all’arma bianca al Vascello, contro un esercito più numeroso e meglio armato, 160 anni dopo sarebbero state vanificate da qualcuno che a nome loro avrebbe foraggiato l’introduzione dello Ius Soli”. Non varrebbe la pena di stare a discutere con questa gente, se non fosse che echeggiano pericolosamente il senso comune di questi giorni, le aggressioni verbali e gli insulti alla ministra Kyenge, le farneticazioni leghiste di Salvini, le idiozie reazionarie di Grillo, persino le esitazioni e i freni anche da parte della maggioranza. E allora, andiamoci davvero a guardare che cosa pensavano i fondatori della Repubblica Romana del 1849, e che cosa hanno scritto nella loro Costituzione. . Cominciando dall’articolo 1: Sono cittadini della Repubblica: Gli originarii della Repubblica; Coloro che hanno acquistata la cittadinanza per effetto delle leggi precedenti; Gli altri Italiani col domicilio di sei mesi; Gli stranieri col domicilio di dieci anni; I naturalizzati con decreto del potere " La prima riga del primo articolo dice dunque: gli “originarii” della repubblica – non dice “i figli legittimi di cittadini a loro volta originarii” (che per essere tali devono a loro volta essere figli di “originarii” e via su per le generazioni). No: i diritti non pertengono alla discendenza ma alla persona, originario e quindi cittadino è colui la cui esistenza origina nella Repubblica. In altre parole, la prima cosa che fanno i costituenti della Repubblica Romana è precisamente di proclamare lo ius soli. Per questo dunque combattevano Garibaldi, Manara, Pisacane, Armellini e i loro compagni d'armi: un'idea aperta di cittadinanza fondata sulla persona, e in subordine sulla presenza sul luogo e sulla scelta personale. Le voci successive infatti non fanno che ribadire che la cittadinanza si acquista con la legge e con la presenza: in un'epoca in cui l'Italia ancora non esiste, prevedono termini più brevi per "gli altri italiani" ma anche la cittadinanza data agli stranieri (a tutti gli stranieri. Non importa nati dove) dopo un certo periodo, non come concessione ma come diritto – e magari anticipandola "con decreto del potere". A pensarci bene, né Garibaldi né Mazzini erano romani per diritto di sangue: avevano genitori nati da tutt'altra parte. Ma diventano romani perché con Roma si identificano, per Roma combattono. Proprio come nell’Italia che abbiamo in mente noi: italiani si nasce perché si nasce nel territorio della repubblica, e italiani si diventa perché in Italia si vive, si lavora e si lotta. Tutto il resto della Costituzione della Repubblica Romana è coerente con questa visione ampia e inclusiva e con la concezione aperta dei diritti: abolisce la pena di morte, la carcerazione per debiti; scioglie i diritti del cittadino dall’appartenenza o meno a una fede religiosa; proclama la libertà di associazione, di pensiero, di parola e l’inviolabilità della persona, del domicilio, della corrispondenza; vieta l’istituzione di corti o tribunali speciali (che ne dicono i fascisti del terzo millennio, nostalgici del Tribunale Speciale di regime?), e ribadisce che “i giudici nell'esercizio delle loro funzioni non dipendono da altro potere dello Stato” (che ne dicono i revisori berlusconiani che vogliono sottoporre la magistratura al potere esecutivo? A proposito: i costituenti avevano previsto anche il conflitto d’interessi: “Non può essere rappresentante del popolo un pubblico funzionario nominato dai consoli o dai ministri”). Ma forse la cosa più radicale sta in una parola che non c’è. L’articolo 17 sancisce che “Ogni cittadino che gode i diritti civili e politici” è (a una certa età) elettore ed eleggibile. La parola mancante è “maschio”: al di là dei generi grammaticali, la Repubblica Romana non riconosce preminenza di diritti a uno specifico genere sessuale. Dovremo arrivare al secondo dopoguerra per recuperare questa visione. Dunque quando parliamo di Repubblica Romana parliamo di questo: cittadinanza aperta e inclusiva, diritti intangibili e condivisi, libertà fra pari. Ne para anche la Costituzione della Repubblica Italiana. Ne parla sempre meno la politica contemporanea. Ed è ora di ricominciare a parlarne.

09 maggio 2013

Rossi a Manhattan, e molto altro

IL MANIFESTO 9.5.2013 Certe volte, raccontare la storia di una persona o di una famiglia significa trovare un punto di vista sulla storia di un secolo e di metà del mondo: sono storie “rappresentative” proprio perché sono storie eccezionali che diventano storie comuni perché ci siamo dentro tutti. E’ quello che succede con la storia di Michele Salerno, comunista, e della sua famiglia, raccontata dal figlio Eric in un libro – Rossi a Manhattan - che dà molto di più di quanto dica il già promettente titolo. Eric Salerno sceglie di non seguire uno stretto ordine cronologico degli eventi, ma di organizzare il testo nella forma di una ricerca e di un lavoro di memoria. Il libro infatti è costruito soprattutto nelle forme della memoria, in cui tutto il passato è contemporaneo e il rapporto fra un ricordo e l’altro non è dato solo dalla sequenza temporale ma anche dall’associazione dei significati e delle emozioni. La ricerca comincia con l’arrivo a casa di Eric Salerno di una spessa busta di documenti: sono le carte che, in obbedienza alla legge sulla libertà di informazione, l’FBI rende accessibili agli interessati (non senza qualche sbianchettatura). In quelle carte, Eric ritrova la figura del padre, attivista comunista e giornalista del giornale proletario italo-americano, La parola del popolo – attraverso il punto di vista degli informatori, della stampa e degli agenti (come quelli che fin dall’infanzia ricorda, riconoscibili e appaiati appostati di fronte alla casa dove cresce nel Bronx), fino alla sua espulsione dagli Stati Uniti in piena ondata maccartista, con la paradossale promessa che potrà rientrare se abiurerà pubblicamente il comunismo. Poi ci accompagna attraverso la storiografia, gli incontri, le interviste, gli archivi (commovente la visita all’ultimo archivio del partito comunista, di fronte allo storico Chelsea Hotel: ci sono stato anch’io tanti anni fa e, come a Eric, mi ha fatto male tornarci e scoprire che non c’è più). Eric era bambino all’epoca delle battaglie contro le deportazioni politiche, ma ricorda bene i campeggi estivi organizzati dalla sinistra e la visita del grandissimo cantore comunista nero Paul Robeson, e (c’è la foto in copertina) gli insulti e le uova che gli vengono scagliate addosso quando con la sua famiglia manifesta in pubblico per i diritti politici dei dissidenti. Il titolo - rossi a Manhattan – potrebbe sembrare un ossimoro: i comunisti “contro” l’America. Ma negli anni ’30 e ’40 Manhattan eleggeva rappresentanti di sinistra, come il memorabile Vito Marcantonio, e New York era ancora una città industriale con forte presenza operaia; e soprattutto è proprio il fatto di essere comunisti a New York che colora la visione politica di Michele Salerno: a differenza di tanta sinistra italiana, lui non sarà mai antiamericano; piuttosto, leggerà il comunismo come sviluppo e coronamento di una democrazia della quale riconosce qualità e meriti. D’altronde, lo slogan del Pcusa negli anni ’30 era “il comunismo è l’americanismo del ventesimo secolo”; e brevemente, nel dopoguerra, sull’onda delle speranze accese dall’alleanza antinazista fra Stati Uniti e Unione Sovietica, il partito arrivò addirittura a pensare di sciogliersi e trasformarsi in associazione culturale. Anche per questo, nel libro c’è una presenza ricorrente della musica popolare, verso asse culturale di una sinistra radicale e americana insieme – da Paul Robeson a Pete Seeger, da Woody Guthrie a una premonizione dylaniana (Salerno ci racconta che Suze Rotolo, la sua storica fidanzata di Bob Dylan, che appare con lui sulla copertina di Freewheelin’ era figlia di una comunista italo americana, e gli insegnò molte cose negli anni di “Masters of War” e “Hard Rain”). Peraltro, Manhattan è solo una fase nella vita di Michele ed Eric Salerno, e nel libro non ci sono solo loro. Da un lato, l’autore ricostruisce la storia familiare dalle radici e dall’adolescenza nel paese calabrese di Castiglione Cosentino (a Michele Salerno sarà dedicata, finché esisterà, la sezione Pci del paese), e la prosegue nei decenni di giornalismo agli esteri a Paese Sera, dove segue criticamente gli eventi dalla aggressione sovietica all’Ungheria nel 1956 (che lui attacca duramente, pur scegliendo di non uscire dal partito) alla guerra dei sei giorni e un tormentato rapporto di amore, speranza e delusione con Israele che continua nell’esperienza del figlio. Dall’altro, al centro di questo rapporto sta l’altra indimenticabile figura del libro, la madre Betty. Nata in uno shtetl dell’Ucraina, Betty porta con sé le memorie dei pogrom antisemiti, dell’autodifesa ebraica, della rivoluzione bolscevica (fino a uno zio, rintracciato anni dopo, generale sovietico non pentito neanche dopo la caduta dell’Urss), delle migrazioni di massa verso Israele e di lì gli Stati Uniti o il Canada. Eric racconta il lavoro della madre nelle fabbriche tessili di New York e di Rochester e il difficile ambientamento in un’Italia anni ’50 che le pare estranea e pericolosamente sporca. Betty completa così una storia che va dall’inizio del ‘900 agli anni ’80, che attraversa Stati Uniti, Russia (adesso, Ucraina e Bielorussia, visitate all’ombra di Chernobyl), Italia, Israele, e che getta uno sguardo sul resto del mondo attraverso la passione internazionalista e la professione giornalistica. Qualche anno fa, leggendo le bozze di una tesi sugli scrittori di sinistra americani degli anni ’30, sentivo che tutti i fatti e le notizie stavano al posto giusto, ma c’era comunque qualcosa che non andava. Poi capii: l’autrice, nativa post-anni ’80, parlava dei comunisti come io avrei parlato dei Templari: sono esistiti davvero ma non sembrava che ne avesse mai visto uno in carne ed ossa. Bene, questo libro – anche grazie alle immagini e alle riproduzioni di documenti e ritagli stampa che lo accompagnano – ci ricorda che invece sono parte ancora appassionante e dolente della nostra storia. L’insegna scomparsa della sezione comunista “Michele Salerno” di Castiglione Cosentino è la metafora di un vuoto: sangue, intelligenza, passioni negate e cancellate, senza che niente prendesse il loro posto, ma da qualche parte ancora orgogliosamente presenti in forme segrete e imprevedibili. Per Michele Salerno e quelli che stanno dentro la sua storia potrebbero valere le parole di un personaggio di Faulkner dopo la guerra civile: “ci hanno ammazzati, ma non ci hanno ancora sconfitti”.