Rossi a Manhattan, e molto altro
IL MANIFESTO 9.5.2013
Certe volte, raccontare la storia di una persona o di una famiglia significa trovare un punto di vista sulla storia di un secolo e di metà del mondo: sono storie “rappresentative” proprio perché sono storie eccezionali che diventano storie comuni perché ci siamo dentro tutti. E’ quello che succede con la storia di Michele Salerno, comunista, e della sua famiglia, raccontata dal figlio Eric in un libro – Rossi a Manhattan - che dà molto di più di quanto dica il già promettente titolo.
Eric Salerno sceglie di non seguire uno stretto ordine cronologico degli eventi, ma di organizzare il testo nella forma di una ricerca e di un lavoro di memoria. Il libro infatti è costruito soprattutto nelle forme della memoria, in cui tutto il passato è contemporaneo e il rapporto fra un ricordo e l’altro non è dato solo dalla sequenza temporale ma anche dall’associazione dei significati e delle emozioni. La ricerca comincia con l’arrivo a casa di Eric Salerno di una spessa busta di documenti: sono le carte che, in obbedienza alla legge sulla libertà di informazione, l’FBI rende accessibili agli interessati (non senza qualche sbianchettatura). In quelle carte, Eric ritrova la figura del padre, attivista comunista e giornalista del giornale proletario italo-americano, La parola del popolo – attraverso il punto di vista degli informatori, della stampa e degli agenti (come quelli che fin dall’infanzia ricorda, riconoscibili e appaiati appostati di fronte alla casa dove cresce nel Bronx), fino alla sua espulsione dagli Stati Uniti in piena ondata maccartista, con la paradossale promessa che potrà rientrare se abiurerà pubblicamente il comunismo. Poi ci accompagna attraverso la storiografia, gli incontri, le interviste, gli archivi (commovente la visita all’ultimo archivio del partito comunista, di fronte allo storico Chelsea Hotel: ci sono stato anch’io tanti anni fa e, come a Eric, mi ha fatto male tornarci e scoprire che non c’è più). Eric era bambino all’epoca delle battaglie contro le deportazioni politiche, ma ricorda bene i campeggi estivi organizzati dalla sinistra e la visita del grandissimo cantore comunista nero Paul Robeson, e (c’è la foto in copertina) gli insulti e le uova che gli vengono scagliate addosso quando con la sua famiglia manifesta in pubblico per i diritti politici dei dissidenti.
Il titolo - rossi a Manhattan – potrebbe sembrare un ossimoro: i comunisti “contro” l’America. Ma negli anni ’30 e ’40 Manhattan eleggeva rappresentanti di sinistra, come il memorabile Vito Marcantonio, e New York era ancora una città industriale con forte presenza operaia; e soprattutto è proprio il fatto di essere comunisti a New York che colora la visione politica di Michele Salerno: a differenza di tanta sinistra italiana, lui non sarà mai antiamericano; piuttosto, leggerà il comunismo come sviluppo e coronamento di una democrazia della quale riconosce qualità e meriti. D’altronde, lo slogan del Pcusa negli anni ’30 era “il comunismo è l’americanismo del ventesimo secolo”; e brevemente, nel dopoguerra, sull’onda delle speranze accese dall’alleanza antinazista fra Stati Uniti e Unione Sovietica, il partito arrivò addirittura a pensare di sciogliersi e trasformarsi in associazione culturale. Anche per questo, nel libro c’è una presenza ricorrente della musica popolare, verso asse culturale di una sinistra radicale e americana insieme – da Paul Robeson a Pete Seeger, da Woody Guthrie a una premonizione dylaniana (Salerno ci racconta che Suze Rotolo, la sua storica fidanzata di Bob Dylan, che appare con lui sulla copertina di Freewheelin’ era figlia di una comunista italo americana, e gli insegnò molte cose negli anni di “Masters of War” e “Hard Rain”).
Peraltro, Manhattan è solo una fase nella vita di Michele ed Eric Salerno, e nel libro non ci sono solo loro. Da un lato, l’autore ricostruisce la storia familiare dalle radici e dall’adolescenza nel paese calabrese di Castiglione Cosentino (a Michele Salerno sarà dedicata, finché esisterà, la sezione Pci del paese), e la prosegue nei decenni di giornalismo agli esteri a Paese Sera, dove segue criticamente gli eventi dalla aggressione sovietica all’Ungheria nel 1956 (che lui attacca duramente, pur scegliendo di non uscire dal partito) alla guerra dei sei giorni e un tormentato rapporto di amore, speranza e delusione con Israele che continua nell’esperienza del figlio.
Dall’altro, al centro di questo rapporto sta l’altra indimenticabile figura del libro, la madre Betty. Nata in uno shtetl dell’Ucraina, Betty porta con sé le memorie dei pogrom antisemiti, dell’autodifesa ebraica, della rivoluzione bolscevica (fino a uno zio, rintracciato anni dopo, generale sovietico non pentito neanche dopo la caduta dell’Urss), delle migrazioni di massa verso Israele e di lì gli Stati Uniti o il Canada. Eric racconta il lavoro della madre nelle fabbriche tessili di New York e di Rochester e il difficile ambientamento in un’Italia anni ’50 che le pare estranea e pericolosamente sporca. Betty completa così una storia che va dall’inizio del ‘900 agli anni ’80, che attraversa Stati Uniti, Russia (adesso, Ucraina e Bielorussia, visitate all’ombra di Chernobyl), Italia, Israele, e che getta uno sguardo sul resto del mondo attraverso la passione internazionalista e la professione giornalistica.
Qualche anno fa, leggendo le bozze di una tesi sugli scrittori di sinistra americani degli anni ’30, sentivo che tutti i fatti e le notizie stavano al posto giusto, ma c’era comunque qualcosa che non andava. Poi capii: l’autrice, nativa post-anni ’80, parlava dei comunisti come io avrei parlato dei Templari: sono esistiti davvero ma non sembrava che ne avesse mai visto uno in carne ed ossa. Bene, questo libro – anche grazie alle immagini e alle riproduzioni di documenti e ritagli stampa che lo accompagnano – ci ricorda che invece sono parte ancora appassionante e dolente della nostra storia. L’insegna scomparsa della sezione comunista “Michele Salerno” di Castiglione Cosentino è la metafora di un vuoto: sangue, intelligenza, passioni negate e cancellate, senza che niente prendesse il loro posto, ma da qualche parte ancora orgogliosamente presenti in forme segrete e imprevedibili. Per Michele Salerno e quelli che stanno dentro la sua storia potrebbero valere le parole di un personaggio di Faulkner dopo la guerra civile: “ci hanno ammazzati, ma non ci hanno ancora sconfitti”.
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