28 maggio 2010

Enti inutili: il Museo della Liberazione

il manifesto, 28.5.2010

Hanno ragione Berlusconi e Tremonti: il Museo della Liberazione di via Tasso a Roma è un ente inutile, anzi dannoso.
Dannoso, in primo luogo, per motivi sanitari e di immagine. Che figura ci facciamo, nel terzo millennio, a mettere un museo dentro un ex carcere (nazista), poco salubre perché le finestre sono ancora murate come le avevano lasciate Kappler e Priebke, e indecoroso perché non si è ancora provveduto a ripulire i muri dei graffiti lasciati dagli ospiti involontari che ci hanno trascorso mesi e giorni (spesso gli ultimi) della loro vita? Roba da terzo mondo, diranno all’estero.
E inutile. Il Museo della Liberazione non si vede mai in televisione, non dà appalti, non organizza Grandi Eventi, non offre ben retribuiti posti in consigli di amministrazione, non è lottizzato ai partiti politici e non distribuisce appetibili consulenze. Che esempio diamo ai giovani? Pensate che costa solo cinquantamila euro e ci lavorano tutti gratis meno il custode. Quasi immorale, si direbbe.
E ancora, dannoso perché coltiva argomenti sgradevoli di un passato sul quale sarà bene mettere una pietra sopra in nome del futuro, della riconciliazione e dell’ottimismo obbligatorio. L’ultima volta che ci sono stato, accompagnando studenti e docenti di un’università americana che non avevano la minima cognizione di che storia contemporanea avesse la città in cui si trovavano, ho visto che si sono fatti un’immagine di Roma poco turistica e poco consumistica– come anche la classe di liceali con cui ci incrociammo quella mattina. E qusto non possiamo permetterlo. Certo, gli studenti americani e italiani di quel giorno (e le migliaia che ci passano nel corso dell’anno) sono anche venuti a sapere che in Italia c’erano persone di ogni idea politica e di ogni classe sociale che hanno pagato col carcere, con le torture e in tanti anche con la vita la loro volontà di essere liberi e di dire di no al potere. Un brutto esempio anche questo, per le giovani generazioni.
Non ne parliamo più, insomma. Nell’immediato dopoguerra, le vedove degli uomini uccisi alle Ardeatine giravano per Roma in gramaglie, in cerca di un modo per sopravvivere insieme con le loro famiglie. In tante hanno raccontato che la città ne aveva pena, ma non se le voleva vedere intorno. Davano fastidio – e danno fastidio ancora adesso perché, come via Tasso, ricordano il dolore e la sofferenza a un paese che ha il dovere di non vederli. A metà anni ’50, per non turbare le relazioni con la Germania nostra alleata nella guerra fredda, tutte le carte dei processi contro i criminali nazisti furono chiuse in un armadio che venne nascosto in uno scantinato; oggi si compie l’opera: con lo scopo dichiarato di “mettere fine alle tensioni nei rapporti internazionali”, il governo azzera per decreto tutte le rivendicazioni che familiari delle vittime delle stragi e perseguitati dal nazismo hanno avanzato nei confronti del governo tedesco. Come se le tensioni con Angela Merkel e il suo governo riguardassero i quattro soldi di persone che hanno sofferto ferite terribili, e non poste in gioco assai più alte e problematiche. Davvero, l’ordine è stato eseguito, la pace è ristabilita, e regna il silenzio.
Sono tante le cose di cui non si parla più in questo paese. Le isole di autonomia nella televisione pubblica, gli enti (anch’essi “inutili”) che svolgono riflessioni e proposte non subalterne in campo economico, e soprattutto la scuola – che, dicono, meno ci stanno i ragazzi e meglio è, perciò via il tempo pieno e ricominciamo un mese più tardi così chi se lo può permettere alimenta il turismo che è tanto più importante, e tutti gli altri sono sottratti all’influenza nefasta di un’istituzione dove qualcuno ancora crede all’indipendenza di pensiero. Giustamente, si è parlato di un attacco alla memoria; ma quello a cui assistiamo è un attacco generalizzato all’intelligenza, alla conoscenza, al pensiero.
Non ci sono poche decine di migliaia di euro per il Museo della Liberazione. Nel frattempo Roma si candida per le Olimpiadi del 2020. Se l’amministrazione cittadina avesse un minimo di spina dorsale non si limiterebbe alle parole, ma dovrebbe dire: i soldi ce li mettiamo noi. Perché senza il museo di via Tasso Roma non sarebbe la stessa. Ma forse è questo che vogliono.

08 maggio 2010

25 aprile 2010

il manifesto 24.4.2010

“A combattere contro i tedeschi a Porta San Paolo non ci sono andata perché me l’ha detto il partito, ma perché l’ho deciso io”: così raccontava Maria Teresa Regard, partigiana. La Resistenza che coincia in quei giorni e culmina il 25 aprile è una storia di liberazione delle coscienze, prima ancora che del territorio e delle istituzioni: dopo venti anni di credere obbedire e combattere, di “lasciate fare a li”, il meglio dell’Italia riprende in mano il proprio destino e si fa protagonista della propria storia.
Il 25 aprile è in primo luogo rivendicazione di una storia falsata, revisionata e negata (è di ieri lo sfregio del presidente della provincia di Salerno: la liberazione la dobbiamo solo agli americani. Ma, partigiani a parte, che ne è di inglesi, francesi, polacchi, brasiliani, neozelandesi, nepalesi venuti a morire da noi? Davvero una festa di libertà deve servire a ribadire ancora una volta un obsoleto servilismo atlantico, oltre che l’ignoranza?).
Ma il 25 aprile è anche, forse oggi soprattutto, affermazione di una democrazia partecipata, quella democrazia che fu praticata nella Resistenza armata e non armata di centinaia di migliaia di italiani, che è sancita nei principi fondanti della nostra Costituzione. Questa Resistenza si incarna oggi nella resistenza contro progetto, spesso anche bipartitici, che da cittadini partecipi vogliono ritrasformarci in cittadini governabili; si manifesta nel rifiuto di un liberismo che vede il cittadino solo come individuo isolato e in competizione con tutti gli altri; si esprime nella opposizione alle pretese di restaurare forme di leaderismo carismatico delegato a decidere per tutti; e si materializza nella resistenza contro i rigurgiti discriminatori e razzisti, contro le pretese dei forti di azzerare i diritti di tutti gli altri.
Dicono questo i tantissimi ragazzi che scelgono di iscriversi all’ANPI (“partigiani ieri, antifascisti oggi” dicono le belle facce di ragazzi in un volantino distribuito nel mio quartiere), che chiedono di tenere aperte le scuole per fare del 25 aprile un giorno di riflessione e di conoscenza invece di una vacanza. Dice questo anche l’ ostinata vivacità di un’associazione come l’ARCI: evidentemente, di “radicato sul territori” non c’è solo la Lega. Sono forme di partecipazione sociale che vanno apparentemente controcorrente in un contesto di abbandono dei partiti e di astensionismo elettorale, e che ci fanno capire come che il disincanto non viene da assuefazione e passività ma dalla ricerca di forme di presenza e di rappresentazione politica che prendano il posto di quelle che sono state svuotate e abbandonate proprio da quelle forze politiche che, nate dall’esperienza partecipata dell’antifascismo, avrebbero dovuto coltivarle e invece hanno troppo spesso lavorato attivamente per smontarne la memoria e il senso.
In un’Italia dove sembra che il pluralismo politico si riassuma nelle baruffe interne alla destra, questo 25 aprile rinnovato significa che in tanto non ce la facciamo più a fare solo da spettatori. Come Teresa Regard quel giorno, non possiamo più aspettare che qualcuno ci dica dove dobbiamo andare, che cosa dobbiamo fare. Riprendiamoci la memoria, la democrazia, la partecipazione – e il 25 aprile durerà tutto l’anno.