28 febbraio 2007

La Virginia si scusa per la schiavitù. E adesso? (Manifesto 28.2.07)

La schiavitù è stata abolita negli Stati Uniti nel 1863. Nel 2007, il parlamento dello stato della Virginia ha deciso che era stata un crimine e ha chiesto scusa agli afroamericani . Un atto dovuto, e tutto sommato giusto, anche se un po’ in ritardo. D’altronde, la Chiesa cattolica ha impiegato qualche secolo a riconoscere che Galileo aveva ragione e la terra gira intorno al sole; lo stato del Massachusetts ha aspettato mezzo secolo dopo la loro morte prma di ammettere che Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti non avevano avuto un giusto processo; e il presidente Clinton e la segretaria di stato Madeleine Albright hanno chiesto scusa per i bombardamenti all’Honduras quarant’anni dopo. Però, in questi anni di risorgente “medioevo”, con la riabilitazione della tortura, la cancellazione dell’habeas corpus, il risorgere delle teocrazie, il ritorno dell’accusa del sangue e revisionismi storici di ogni genere, che un’istituzione rinneghi almeno la schiavitù è a suo modo confortante.
La schiavitù evoca immediatamente immagini di orrore: la frusta, lo sfruttamento nei campi di cotone, le violenze sulle donne, le famiglie fatte a pezzi, i cani alla caccia dei fuggiaschi nelle paludi… Eppure, nel più importante romanzo moderno sulla schiavitù, Toni Morrison sceglie di rappresentare una piantagione modello, con un padrone umano che tratta gli schiavi come persone e non come cose – e lo fa per sottolineare un orrore più profondo, che sta nell’esistenza stessa dell’istituzione schiavista, negli Stati Uniti e altrove: la riduzione legale di un essere umano a proprietà un altro essere umano, giuridicamente equiparabile a un mobile o a un cane.
“Fummo tutti allineati insieme per l’inventario,” scrive Frederick Douglass, nella sua memorabile autobiografia di ex schiavo (1844): “Uomini e donne, giovani e vecchi, sposati e celibi, tutti messi in fila con I cavalli, le pecore, i maiali. C’erano cavalli e uomini, buoi e donne, maiali e bambini, tutti collocati sullo stesso piano di esistenza, e tutti soggetti allo stesso accurato scrutinio….”
Anche se il trattamento non è inumano, allora, questo dipende solo dalla soggettività del proprietario, che può cambiare ida quando gli pare. O dal fatto che, con il passaggio della proprietà ad altri, e ricomincino gli orrori.
Perciò, quelle che non senza ragione chiamiamo le moderne forme di schiavitù (e ce ne sono, in certi campi di lavoro nascosti in Florida, e in tante parti del “terzo mondo”) hanno in comune le violenze e le costrizioni, ma somigliano più a carceri, campi di lavoro forzato, lager che alla schiavitù in senso stretto: manca l’orrore freddo della proprietà dell’uomo sull’uomo. E sono fuori legge; la schiavitù per cui chiede scusa il parlamento della Virginia era non solo legale, ma era la pietra angolare di una società intera, in un paese per altri versi alfiere di libertà.
In Kentucky, un anziano signore, proprietario di miniere e discendente di piantatori dell’Alabama, mi mostra con orgoglio il libro-inventario della piantagione dei suoi avi, redatto in occasione della divisione della proprietà per eredità. Ben incolonnati, ci sono i nomi degli schiavi, età, valore di mercato e una colonna di commenti. Accanto a qualche nome c’è scritto “ruptured,” rotto; non c’è scritto né come né perché, ma solo che il suo prezzo cala in proporzione. Guarda caso, questo signore e suo padre sono stati gli ultimi proprietari di miniere in America ad accettare di firmare il contratto col sindacato minatori: le eredità della schiavitù durano a lungo.
In un altro straordinario romanzo recente, Legame di sangue(Kindred), Octavia Butler immagina una protagonista risucchiata nel tempo dalla California di oggi alla Virginia schiavista. Quando finalmente riesce a tornare indietro, lascia letteralmente un braccio, strappato dal suo corpo, laggiù in quel passato: se il viaggio nel tempo è una metafora della memoria, allora quel braccio rimasto nel passato significa che in quel passato ci stiamo ancora dentro, che è un pezzo di noi. Legami di sangue, appunto: non solo sul piano letterale, derivanti dalle violenze dei padroni sulle schiave, ma su un piano più profondo, per cui la schiavitù non è solo una trauma nella storia dei neri ma sta dentro le vene dell’America intera. Non basta un voto in parlamento per liberarsene.
“In quel momento,” scrive Douglass commentando la scena dell’inventario, “vidi più chiaramente che mai gli effetti disumanizzanti della schiavitù tanto sullo schiavo quanto sullo schiavista.” Sono intuizioni come queste che fanno della sua autobiografia un capolavoro. Perché Douglass si rende conto che, mentre negano giuridicamente che gli schiavi siano esseri umani, i padroni sanno benissimo che lo sono; e allora, per negare la loro umanità devono sopprimere anche la propria. Ed è in questo effetto disumanizzante sull’aguzzino che la piantagione somiglia a tutte le situazioni in cui una persona ha potere totale su un’altra, e può prendere un prigioniero iracheno e metterlo al guinzaglio insieme ai cani, neanche per “valutarlo” ma per divertirsi.
Per questo, chiedere scusa per la schiavitù va bene, ma bisogna pure trarne le conseguenze, e dire basta a tutte le situazioni del genere – cosa che il parlamento della Virginia si guarda bene dal fare. E poi, come in tutte queste richieste di scuse che abbiamo visto negli ultimi tempi, l’atto di chiedere scusa dovrebbe accompagnarsi al fare qualcosa per rimediar, se possibile, gli effetti dei crimini passati. La casa di produzione di Spike Lee si chiama “40 Acres and a Mule,” in ricordo della promessa non mantenuta di un po’ di terra e un mulo per coltivarla fatta agli ex schiavi dopo la guerra civile. Non alla lettera, certo, ma forse sarebbe ora di darglieli, questi quaranta acri, o il loro equivalente moderno: quaranta acri di giustizia, di uguaglianza, di cittadinanza, di rappresentanza politica. Nel corso del tempo, i discendenti degli schiavi hanno strappato molte conquiste ai discendenti degli schiavisti; sarebbe il caso di portare a termine l’opera, coi fatti e non con le parole.

13 febbraio 2007

Una sentenza insostenibile

· Comunicato stampa del Consigliere Delegato per la Memoria Storica

Una recente sentenza del Tribunale di Roma, ripresa anche da alcuni giornali, ha sancito che non costituisce reato accusare il dottor Rosario Bentivegna di essere "il vero autore" della strage delle Fosse Ardeatine, come affermato da un esponente di Forza Nuova. Come tutti sappiamo, gli autori della strage furono gli occupanti nazisti, con il fattivo contributo dei loro alleati e subalterni italiani. La decisione di compiere la strage fu una scelta politica autonoma e cosciente dei comandi nazisti; nulla li obbligava o costringeva a rispondere con un simile crimine all'atto di guerra compiuto contro di essi dai partigiani romani a via Rasella. Non esiste peraltro nessun rapporto automatico fra azioni partigiane e stragi nazifasciste, tale da affermare che i partigiani ne siano anche indirettamente responsabili: sia a Roma sia in altre parti d’Italia si sono verificate stragi naziste non connesse a nessuna azione partigiana, e azioni di guerra partigiane a cui non è seguita una simile rappresaglia. Inoltre, va ricordato che sentenze del tribunale militare di Roma riconobbero che la strage delle Fosse Ardeatine fu comunque una azione talmente sproporzionata e condotta in modo talmente efferato da non poter in alcun modo essere definita una legittima rappresaglia, bensì un omicidio continuato.

Nel rispetto tanto dell’autonomia della magistratura quanto della serietà della ricerca storica, preso atto del fatto che comunque la sentenza in questione non afferma che il dottor Bentivegna fu autore della strage, ma ritiene soltanto di tutelare il diritto di affermarlo da parte di un esponente di Forza Nuova; e preso atto dell’intenzione del dottor Bentivegna di porre ricorso, il Consigliere del Sindaco per la Valorizzazione e la Tutela della Memoria Storica esprime solidarietà al dottor Bentivegna, oggetto di tale infamante accusa, da sempre impegnato a difendere la propria onorabilità e il rispetto della verità storica.

Luoghi comuni ed errori sulle Fosse Ardeatine: una lettera al Corriere della Sera

· Lettera di Alessandro Portelli al Corriere della Sera
Gentile Direttore,

Nello stesso giorno e nella stessa pagina in cui tornava ad avvalorare l’accusa del sangue contro gli ebrei, il Corriere della Sera pubblicava il seguente corsivo di Ernesto Galli della Loggia: “«Lo scopo dell' attentato in via Rasella era in realtà quello di provocare una rappresaglia»: così vede le cose Joachim Staron, autore di Fosse Ardeatine e Marzabotto (a p. 44), appena uscito dal Mulino. Naturalmente ora ci aspettiamo l' indignata risposta da parte dei custodi dell' ortodossia resistenzial-antifascista. Ci aspettiamo di vedere Staron, cultore di storia e filologia a Gottinga, addottorato alla Freie Universität di Berlino, additato come manutengolo dell' anticomunismo viscerale, fautore della riscossa della destra berlusconiana, complice della sua volontà di riabilitare il fascismo e così via, secondo il paradigma inquisitorio tanto spesso adoperato in passato da Nicola Tranfaglia, Mario Pirani e altri paladini della verità storica. O vuoi vedere invece che stavolta ci sarà il silenzio, perché la Germania è troppo distante da Arcore e le accuse suonerebbero un po' troppo ridicole?” Io quel libro l’ho letto, e mi sono soffermato sulle pagine (42-44) a cui fa riferimento lo storico ed editorialista Ernesto Galli della Loggia. Senza indignazione alcuna nei confronti di Joachim Staron, propongo alcune considerazioni professionali.

1.Effettivamente Staron afferma quanto riportato dal professor Galli della Loggia, ma non prova neanche a dimostrarlo. Senza apportare un solo fatto ma ripercorrendo castelli di congetture e illazioni di seconda mano, sostiene che i partigiani avrebbero dovuto sapere che ci sarebbe stata una rappresaglia. Da ciò salta, senza argomentarlo e con un notevole balzo logico, ad affermare che quindi hanno agito con l’intenzione di provocarla.
2. Il libro di Staron è complessivamente dignitoso; ma in questo caso l’addottorato cultore usa fonti poco attendibili, e le usa male. La sua autorità principale è un discutibile libro di Benzoni (che sosteneva la stessa cosa sulla base delle stesse illazioni), a cui non aggiunge niente; per di più, dà addirittura dignità di “studioso” a Pierangelo Maurizio, autore di un pamphlet indegno non perché (legittimamente, ma contrariamente a quello che sembra credere Staron), si tratta di un cronista molto vicino alla destra radicale, ma perché è inattendibile e al di sotto di ogni dignità storiografica. Cosa su cui anche Galli della Loggia credo converrebbe se trovasse il tempo di leggerlo. Ho l’impressione che il dottor Staron non abbia chiara, in questo caso, la natura e la qualità dei suoi rinvii bibliografici italiani.
3. Mi sorprende che, nelle prestigiose università germaniche in cui si è addottorato, nessuno abbia insegnato al dottor Staron che le fonti vanno viste tutte. Staron adduce indizi a sostegno della sua ipotesi, ma si dimentica di menzionare i fatti che la contraddicono: per esempio, il fatto che negli anni ’90 un giudice romano aprì un procedimento contro Bentivegna, Capponi e Balsamo precisamente con l’accusa di avere agito per provocare la rappresaglia e, al termine di indagini approfondite e a largo raggio, dovette concludere che non esisteva uno straccio di fatto a sostegno di questa accusa. Il dottor Staron ha tutto il diritto di ritenere che Pierangelo Maurizio sia più attendibile del tribunale di Roma; ma non nominarlo affatto (magari per confutarlo) significa non aver fatto bene il proprio mestiere.
4. Tanto per capire l’uso delle fonti e delle documentazioni: l’indizio più grave a carico dei partigiani, che Staron cita acriticamente da Benzoni, è avere scelto di agire in quella data “anche perché a Via Tasso e a Regina Coeli in quel momento non c’erano comunisti.” L’addottorato culture di storia, e il professor Galli della Loggia, potrebbero allora spiegarci come mai ci sono quaranta comunisti del Pci fra le persone uccise alle Fosse Ardeatine (in caso di necessità, posso fornire la lista). Anche questo fatto (come la suddetta sentenza) è menzionato in più di una delle pubblicazioni che, stando alle sue note e alla sua bibliografia, il dottor Staron afferma di avere letto.
5. In questi giorni, un giudice romano ha dichiarato che accusare Rosario Bentivegna di essere “il vero autore” della strage delle Fosse Ardeatine non costituisce calunnia. Dalla lettura della sentenza si evince che il giudice non ritiene affatto che l’accusa sia veritiera ma che siccome ci sono da sempre molte polemiche ognuno può dire quello che gli pare. Ferma restando l’autonomia della magistratura, come storici dovremmo esercitare maggior cautela.

Non capisco cosa c’entra Arcore. Letto il libro, libro non penso affatto che il dottor Staron sia un manutengolo dell’anticomunismo viscerale. Penso semplicemente che nelle pagine in questione non abbia fatto bene il proprio mestiere e, nonostante sia tedesco, non possiamo assumere le sue affermazioni a criterio inattaccabile di verità.
Con i migliori ringraziamenti, Alessandro Portelli
Consigliere delegato del Sindaco di Roma per la tutela della memoria storica

06 febbraio 2007

Il conformismo violento degli ultrà

Gli ultras amano dire che loro sono contro il “calcio moderno”. Io credo che loro stessi siano un prodotto e un’escrescenza di quel calcio moderno a cui dicono di opporsi. Intanto, per questioni cronologiche: il tifo organizzato, con lo stadio diviso in territori controllati da bande contrapposte e depositarie del monopolio della violenza, è un fenomeno relativamente recente, che non ha quasi niente in comune neanche con le occasionali “invasioni di campo” della massa tifosa di un tempo. Il tifo organizzato e separato ci ha privato della sfida e del piacere di sedere sugli spalti accanto a un tifoso dell’altra squadra, di discuterci e magari litigare (“Rigore!” “Ma se non l’ha nemmeno toccato!”) ma prendere atto che altri vedono in un altro modo (adesso, se quelli accanto a me gridano “Rigore” io non ho il coraggio nemmeno di sussurrare “mah, forse non c’era.” All’incolumità ci tengo).
In altre parole: lo stadio si trasforma in luogo di monoculture totalitarie, di conformismo imposto (anche per questo, negli ultras non ci vedo niente di trasgressivo. Sono conformisti fino al midollo, nei comportamenti, nei linguaggi e nell’ideologia). Una conseguenza naturalmente è che se poi l’arbitro il rigore non lo dà (magari perché non c’è) noi ci rinforziamo a vicenda nella convinzione di essere perseguitati e vittime di complotti degli arbitri o dei poteri forti o di chissà chi. E questa non solo è una convinzione che alimenta il furore ultra, ma si innesta direttamente dentro una radicata retorica della destra neofascista, che di una lamentela vittimistica e complottistica intrecciata con una pratica violenta si è alimentata fin dall’immediato dopoguerra. Naturalmente, questo vale anche per l’”altra” curva, il corral dei tifosi ospiti, pure loro corazzati in una identità conforme – e ben delimitati come bersaglio militare. Perciò, se proprio dovessi formulare una visione utopica direi: riportiamo il pluralismo allo stadio. Ricominciamo a mescolare i tifosi. Reimpariamo la difficile arte di stare insieme, come si fa in democrazia. Forse le botte, la scazzottata, non sparirebbero, almeno non subito; ma le violenze programmate e di gruppo, le bombe carta, la spranghe e i motorini tirati giù dalla curva, forse sì.
Punto due. Io allo stadio ci vado perché quando posso continuo a preferire di vedere le partite (e il mondo in genere) con gli occhi miei invece che attraverso lo sguardo altrui della telecamera. Ma ci sono momenti in cui mi vorrei nascondere e non esserci. Ne dico uno: lo schifoso rituale che accompagna sistematicamente il portiere avversario che rimette il pallone dal fondo con il grido scandito di “merda merda merda \ stronzo stronzo stronzo”. Come centinaia di bambini di quattro anni che tutti in coro gridano “cacca” e si sentono un sacco ribelli e antagonisti e invece sono infantili, volgari e subalterni. E lo gridano indipendentemente da chi è costui, da come gioca, da come si è comportato, semplicemente perché è un nemico. Anche qui la pratica della curva si intreccia con profonde correnti delle pulsioni di destra, con la costruzione a priori di una dinamica amico\nemico in cui il sostegno all’amico (il tifo per i tuoi) conta assai meno della guerra e dell’insulto al nemico. E questo atteggiamento resta di destra sotto qualunque simbolo o bandiera (quanto sono offensive le scritte che rivendicano la morte di Raciti come vendetta per Carlo Giuliani – una figura che la destra da stadio ha già tempo tentato di appropriarsi o di condividere, in nome di una presunta lotta comune contro la polizia).
Punto tre. Gli ultras sono il prodotto del calcio moderno perché molto spesso hanno le mani in pasta nella sua gestione. Il merchandising, le trasferte, i rapporti ambigui con le società sono il business organizzato di gran parte del tifo ultra. Restando a Roma, basta pensare all’interruzione del derby romano dello scorso anno, alle pressioni e ricatti di capitifosi su una società per tante ragioni a sua volta criticabile ma che comunque minacciava il loro monopolio e il loro potere: sono esempi di una vera e propria lotta di potere resa possibile dalla crescente trasformazione del calcio in merce che genera merci. Per esempio, un aspetto minore del “calcio moderno” che a me dà fastidio: la numerazione personalizzata della maglie anziché i tradizionali numeri dall’1 all’11. Mi dà fastidio perché faccio più fatica a capire i ruoli in campo. Ma mi dà fastidio soprattutto perché serve a immettere in uno sport di gruppo una dimensione individualistica: il giocatore non è più designato per il posto che occupa nello schieramento della squadra ma ha un numero, un identità a priori.Le squadre sono assemblaggi di individui separati da esse, una modalità che facilita il divismo, il consumismo televisivo delle star da velina o da isola dei famosi, e la vendita delle magliette. Su cui i capi ultras ci vanno a nozze.
Io non lo so se davvero ci vogliano leggi più severe o leggi nuove (lasciamo perdere le “leggi speciali”: in Italia ci sono già state e non ne abbiamo nostalgia). A me pare che uno che tira una bomba carta e prende una persona a sprangate stia comunque facendo qualcosa che non può essere sopportato, e che va contro le leggi che ci stanno già. Dovremmo solo essere sicuri che le regole che esistono vengano rispettate e applicate, e l’intelligenza servirebbe più della durezza. Adesso tutti parlano del modello inglese, della repressione thatcheriana che ha eliminato gli hooligan. Benissimo. Io ho visto una partita del Manchester United stando seduto a quattro metri dalla linea del fallo laterale e senza neanche una rete fra me e il campo. Ma ho anche sentito che i tifosi del Manchester hanno applaudito la lettura della formazione ospite, invece di subissarla di fischi come si fa da noi. E facevano il tifo per i loro invece che contro gli altri. Non lo facevamo mica perché glielo imponeva la legge: lo facevano perché erano abituati così. Noi possiamo mettere tutta la polizia del mondo allo stadio, e magari per un po’ può anche servire, ma non caviamo un ragno dal buco se non cambiamo le pratiche culturali e rituali che allo stadio si manifestano.
Perciò io sono favorevole a una lunga interruzione del campionato, alle partite a porte chiuse (e ci metterei anche le partite in televisione). Sono favorevole, anche se lo stadio, e pure la TV, mi mancheranno assai, ma credo che abbiamo bisogno tutti di un periodo di disintossicazione, abbiamo bisogno di togliere l’acqua in cui nuotano i pescicani della violenza. Almeno per un po’.
Poi: per molto tempo abbiamo snobbato lo stadio, e quando abbiamo smesso di snobbarlo ci siamo accodati troppo spesso a un populismo di elite che per non demonizzare finisce per acconsentire. A me sta bene se proviamo a parlare con quegli ultras che ne abbiano ancora disponibilità, a cercare di sapere di più e di capire meglio; ma capire non significa sempre e necessariamente concordare. Non rendiamo un buon servizio neanche a loro. E poi, non possiamo identificare tutto lo stadio con gli ultras: è un posto pieno di altra gente che troppo spesso ne subisce l’egemonia. Abbiamo bisogno di parlare con la gente che va allo stadio, per cercare di costruire linguaggi e pratiche diversi. Ci sono altre modalità di aggregazione (non è detto che tifo organizzato coincida con gli ultras. I “circoli” di tifosi ci sono sempre stati e ci sono ancora), ci sono altri rituali possibili, altri atteggiamenti da immaginare, da ricordare, da costruire. Dopo tutto, il calcio è uno spettacolo divertente, un gioco e una festa.
La cosa più stupida di questi giorni l’ho letta in un’intervista dell’incredibile presidente della Lega Calcio, l’immarcescibile Matarrese. Prima dice “Noi siamo addolorati ma lo spettacolo deve continuare” (come se fosse un’incrollabile legge morale e di natura – ma chi l’ha detto?); e poi aggiunge: “I morti del sistema calcistico purtroppo fanno parte di questo grandissimo movimento”. Cioè: lo spettacolo deve continuare; i morti fanno parte dello spettacolo; ergo, lo spettacolo continua con i morti dentro. Signori miei, lo spettacolo è questo. Dicono, se fermiamo il calcio la diamo vinta agli ultras. E invece se andiamo avanti così chi ha vinto?