31 gennaio 2010

Il "giovane" Holden

il manifesto 30.1.2010

Ha perfettamente ragione Tommaso Pincio: né il giovane Holden Caulfield né tanto meno il suo autore sono dei ribelli, dei rivoluzionari: non denunciano l’ingiustizia, non si schierano nelle lotte, non enunciano alternative e certamente non hanno letto Marx. Il loro rifiuto estetico e morale della falsità della società di massa li induce a se mai a quella che Albert Hirschmann ha chiamato “uscita”: andarsene, nascondersi. Che poi è coerente con le analisi sociologiche funzionaliste che prevalevano negli anni ’50, secondo cui l’uscita era l’unico modo di sottrarsi a un sistema creduto compatto e privo di contraddizioni. La differenza fra i progetti rivoluzionari europei e i movimenti americani si è fondata in gran parte proprio su questo: fra una cultura antagonista, che faceva leva sulla contraddizioni del sistema, e una cultura alternativa che cercava altre strade e altri mondi al di fuori di esso. Anche per questo un altro libro tutt’altro che rivoluzionario di un autore tutt’altro che rivoluzionario, come On the Road ha generato lo stesso “equivoco” di cui parla Pincio a proposito di Salinger. Che però mi interessa di più e cerco di spiegare perché.
La cosa più curiosa e rivelatrice è proprio il titolo della traduzione italiana – il giovane Holden. A me par di ricordare che Holden Caulfield non tenda a dirsi mai “giovane” – e non sarà un caso se Salinger ce lo descrive come precocemente incanutito, dall’aspetto più anziano della sua età anagrafica. Oscilla se mai fra un’infanzia perduta (quella della sorellina, che guarda caso chiama sempre la vecchia Phoebe: un termine non anagrafico ma di tenerezza sentimentale, che pure non è senza risonanze in questo contesto) e un’età adulta che lo spaventa: basta guardare i suoi gusti musicali. Da una parte, sta il jazz degradato a “fasullo” che va a sentire nei locali e negli hotel dove lo fanno entrare perché lo prendono per più vecchio di com’è. Dall’altro stanno le canzoni per bambini: da quella reinventata da un bambino sentito per strada che dà il titolo al libro, al disco (che non a caso gli si rompe) comprato per la sorellina Phoebe, alla canzone sempre ripetuta che accompagna il girotondo finale. E d’altronde la figura del disco e della giostra, cerchi che ruotano sempre uguali su se stessi accompagnano l’immagine principale, quella del catcher che cerca di fermare i bambini nel campo di avena prima che caschino nell’abisso dell’età adulta; e accompagnano la forma di cerchio del romanzo che comincia e finisce tornando sul suo inizio, nello stesso luogo. Si tratta di fermare il tempo, che va inesorabilmente in una direzione sola: quella della perdita dell’innocenza entrando nel mondo degli adulti, quella dell’entropia (che infatti diventa la figura centrale della letteratura americana negli anni successivi, trionfando naturalmente proprio con Pynchon) o – e in questo sì, oltre che nel linguaggio non standard e nell’età, Holden somiglia a Huckleberry Finn – la direzione inesorabile della corrente del Mississippi che invece che verso la libertà porta nel più profondo della schiavitù, e che mette in crisi Mark Twain quando deve trovare un finale alla sua storia.
La scena più angosciosa del libro è quella in cui Holden sta sull’orlo di un marciapiede, deve attraversare la strada per arrivare dall’altra parte, e a paura di sprofondare nel mezzo. Quello che manca a Holden è proprio quello spazio intermedio che sta fra l’innocenza dell’infanzia e la falsità dell’età adulta. E’ uno spazio che ancora non esiste nel tempo in cui Salinger scrive, ma che proprio Salinger aiuta a inventare: lo spazio dell’adolescenza in cui si collocherà neanche un paio d’anni dopo la “rivoluzione” del rock and roll (Holden lo avrebbe trovato irrimediabilmente volgare, ma se i miei calcoli sono giusti Elvis Presley aveva la sua stessa età) e da cui nascerà subito dopo l’identità generazionale di movimenti alternativi e pacifisti portatori di uno slogan che a Holden sarebbe piaciuto: “non fidarti mai di nessuno sopra i trent’anni”.
Allora, la differenza rivelatrice fra The Catcher in the Rye e Il giovane Holden sta nel fatto che il romanzo di Salinger contribuisce a creare una categoria che ancora non esiste quando lo scrive ma che si è pienamente imposta quando lo traduciamo pochi anni dopo: la categoria, appunto, del giovane. E’ una categoria ambigua, contemporaneamente morale, politica e di consumo (fra le tante cose che la rendono possibile, per esempio, c’è che i giovani hanno adesso i soldi in tasca per comprarsi i dischi dei loro coetanei, i blue jeans, e magari le scarpe blu di camoscio rivendicate con furore di rivoluzionario consumismo da Elvis e da Carl Perkins (aggiungerei che in questo processo svolge un ruolo centrale un protagonista che Salinger e Holden ignorano completamente: gli afroamericani. Non a caso, il vagabondare di Holden si ferma all’orlo di Central Park che dà su Harlem).
Se Holden avesse conosciuto Howard Zinn, che abbiamo perduto nello stesso giorno in cui è morto il suo autore, avrebbe saputo che si può smettere di essere giovani senza per questo diventare falsi (e senza smettere di essere ribelli). Se avesse sentito Elvis – o, salvognuno Willie Dixon – li avrebbe trovati senz’altro volgari e selvaggi. Ma se avesse letto Ernesto deMartino li avrebbe forse visti come un aspetto di fase di “imbarbarimento” che accompagna l’irruzione sulla scena del mondo delle masse rurali, coloniali, subalterne. Da loro, Holden sarebbe scappato, come infatti è scappato il suo creatore; ma ha contribuito, intenzionalmente o no, ad aprire nella corazza del sistema la falla da cui sono entrati.

30 gennaio 2010

Howard Zinn, il prof che insegnava anche come fare un picchetto

da Liberazione del 29.1.2010 - intervista a cura di Tonino Bucci

Howard Zinn, il prof che insegnava anche come fare un picchetto

Howard Zinn era un punto di riferimento della sinistra radicale statunitense. Un attivista politico, una voce più che critica verso l'istituzione accademica. E, ancora, un esponente del movimento pacifista, fin dalla guerra del Vietnam. Ora che è scomparso a 87 anni, a Santa Monica, in California, a causa di un infarto, restano i suoi libri, i suoi saggi innovativi sul lato della storiografia americana.
Soprattutto l'opera che lo ha reso più celebre, Una storia del popolo americano , scritta non dal punto di vista delle élites e dei governi, ma da quello dei nativi, degli schiavi di colore, delle vittime di genocidi e discriminazioni razziali.

Ricordiamo pure - prima di lasciare la parola ad Alessandro Portelli, docente universitario di letteratura americana alla Sapienza di Roma - gli altri titoli di Zinn: Non in nostro nome , Disobbedienza e Democrazia. Lo spirito della ribellione e Marx a Soho. Un monologo sulla storia .

Howard Zinn lo ricordiamo soprattutto come lo storico che ha riscritto la storia americana dal punto di vista degli sconfitti, dei nativi e degli schiavi di colore. Possiamo etichettarlo come l'inventore della storiografia dal basso?

Faceva parte di un clima e di una tradizione. Se uno pensa a storici come Eric Foner esisteva già una storiografia alternativa che termina con Howard Zinn. Non è tanto che lui inventi la storia dal basso, quanto che lui ci si accosti con gli strumenti più sofisticati, più articolati e con una passione straordinari. E' impossibile separare lo studioso dall'attivista. E' uno di quei casi il rigore della ricerca si accompagna a uno schieramento politico e di classe. Ma il suo discorso non diventa mai un discorso di pura propaganda.

Siamo poco abituati oggi a questo tipo di intellettuale. Esiste un cliché secondo cui l'intellettuale fa politica è poco serio nel rigore dei suoi studi. Non è così?

Pensiamo che va in cattedra neanche vent'anni dopo essersi iscritto all'università. Negli anni Cinquanta scrive una serie di libri di storiografia delle élites, di storiografia politica classica. Aveva una formazione rigorosa. Il punto è che Howard Zinn non scriveva per l'accademia. Il suo linguaggio, il suo modo di rivolgersi al lettore è completamente diverso da quello di una storiografia autoreferenziale. Se uno crede che il rigore consista nel numero di note a margine, allora non capito niente. Quella di Howard Zinn era una scrittura piana, comprensibile e nitida ma sorretta da un sapere totale.

Si trovò molte volte in contrasto con l'istituzione accademica. Da qualche parte denunciò anche i contratti che legano alcune università con il Dipartimento della difesa per sovvenzionare la ricerca in campi di interesse militare. O no?

Come no. Si è scontrato con la commissione dell'università di Boston. E' stato messo più volte sotto processo. Di nuovo, è un esempio di docente che intende l'insegnamento come una missione di formazione democratica e non come fabbricazione di nuova carne da mandare al mercato del lavoro. Ha sempre avuto molto chiaro che le sue lezioni servivano a creare cittadini critici e consapevoli e non dei piccoli professorini in erba o falliti. Per farcene un'idea pensiamo che nella sua ultima lezione concluse mezz'ora prima per andare a fare un picchetto. E si portava dietro gli studenti. Il picchetto è parte della lezione. Come fai a insegnare storia del movimento operaio o storia della democrazia o storia dei diritti sociali a gente che non ha mai visto o fatto un picchetto? Un'esperienza didattica oltre che politica.

Dalla guerra del Vietnam fino al conflitto iracheno è stato sempre un mobilitatore del movimento pacifista nelle università. Incontri, conferenze, discussioni con gli studenti, manifestazioni... E riusciva ad aggregare consensi, vero?

E' stato in Vietnam con Daniel Berrigan perché il governo del Vietnam del nord lo riconobbe come interlocutore a cui consegnare dei prigionieri che stavano rilasciando. Il governo vietnamita non li consegnò al governo Usa bensì, appunto, a Zinn e Berrigan che erano esponenti del movimento per la pace. Basta pensare come lui dienta il direttore del dipartimento di storia di un'università nera, in Georgia. Una scrittrice importante come Alice Walker lo ricorda come il più grande insegnante che abbia mai avuto. La sua adesione al movimento per i diritti civili non era un'adesione a parole, ma significava mettersi in gioco ed essere presente là dove si formano le radici del movimento.

Mai indulgente verso le mode. Le sue analisi erano sempre molto schiette. Negli ultimi tempi, ad esempio, non si lasciò mai trascinare nell'entusiasmo facile per Obama. Ne parlava come di un politico dei compromessi che non avrebbe mai cambiato veramente le cose, né nella guerra afghana né in politica economico-sociale. Farà solo «metà del male peggiore che gli verrà richiesto», disse. Esagerava?

Io ricordo un'altra sua dichiarazione durante le primarie. Guardate - disse - io cinque minuti per andare a votare per Obama ce li perdo pure, ma non è questo il gesto più importante che possiamo compiere. I gesti poitici importanti sono quelli che compiamo nel nostro agire sociale, nelle strade e nei movimenti. Certo, non cadeva nella trappola di un qualunquismo astensionista, però ci ricordava una cosa che stiamo dimenticando anche qui da noi. Che la politica non è che si faccia solo nelle elezioni o nelle istituzioni e che esiste una società nella quale siamo chiamati ad agire.

Non c'è un cambiamento diretto dall'alto, cioè dall'establishment?

I limiti attuali della politica di Obama hanno a che fare col fatto che quelli che l'hanno eletto stanno lì fermi ad aspettare quello che fa, invece di mobilitarsi.

Era intervenuto anche nella questione dei rapporti tra Usa e Cuba. Partecipava alla campagna di liberazione dei cinque cubani ancora nelle prigioni americane...
Non mi stupisce. Una politica pacifista è anche una politica antimperialista. Era in dialogo con le realtà sociali dell'America Latina.

Lascia dietro di sé una scuola di studiosi attivisti?

Non ha mai pensato di fare lo studioso individuale in una torre d'avorio. Ha sempre pensato che la professione storiografica dovesse organizzarsi anche politicamente.

Musica popolare e storia sociale

Segnalo qusto video su youtube on una mia intervista:

Graffiti romani

il manifesto 28.1.2010

Sui muri del Museo della Liberazione di via Tasso a Roma, in occasione del 27 gennaio, è apparsa una scritta di ovvia matrice fascista, che dice: "Ho perso la memoria". Allo stesso modo della vicenda recente del furto della scritta "Arbeit macht frei" ad Auschwitz, questa scritta mi pare un esempio da manuale di come cancellazione della memoria ed eccesso di memoria siano la stessa cosa: uno che si ricorda di avere perso la memoria o che si affanna a farne sparire i segni è uno che la memoria se la porta cucita addosso, non riesce a liberarsene, e nel suo darsi da fare per rimuoverla non fa che richiamarla ossessivamente.
Basterebbe questo per poter dire che la giornata della memoria, con tutto il sovrappeso di liturgie e di cerimonialità che gli si è incrostato addosso, è comunque ancora portatrice di senso. Se non altro, serve a dire a fascisti, nazisti e razzisti che non ci dimentichiamo di loro, di quello che hanno fatto, di quello che stanno facendo e di quello che sono capaci di fare.
Se noi pensiamo alla memoria solo come a un deposito di fatti appartenenti al passato, allora la giornata della memoria è davvero un cerimoniale ripetitivo e stanco. Ma se riconosciamo la memoria come la rielaborazione incessante del nostro rapporto attuale con il passato e con la storia, come a una faticosa ricerca di senso, allora questa giornata non può essere la stessa da un anno all'altro, ma deve entrare in relazione con quello che stiamo vivendo, servire da strumento interpretativo per il presente. E allora, - in una città che ha accolto il sindaco con camicie nere e grida di Duce Duce, che ha accompagnato con saluti romani l'inizio della campagna elettorale per le regionali, in un anno che è culminato con la caccia al nero di Rosarno - serve a ricordarci che alla Shoah non si è arrivati tutto d'un colpo. In Italia come in Germania il il genocidio è stato l'orrizonte a cui tendevano un'infinità di passi e tappe intermedie - leggi, schedature, esclusioni, manipolazioni e corruzioni del senso comune, silenzi, indifferenze, opportunismi, guerre. La storia non si ripete mai identica e non immagino un ripetersi della catastrofe nelle stesse forme e negli stessi luoghi di allora; ma i segni quotidiani intorno a noi vanno in direzione di un altro abisso la cui forma non riusciamo a immaginare. Ma che non per questo siamo meno responsabili di fermare finché siamo in tempo.
Perciò dobbiamo ringraziare gli autori di queste scritte perché, in tempi di razzismo anti-immigrati, anti-rom, anti-rumeni e anti-gay, ci ricordano che non si dà razzismo senza antisemitismo e che le forme più arcaiche di questo grado zero, modello e matrice di tutti i razzismi sono vive, vegete e postmoderne, Perché la memoria non serve a pacificare e farci sentire tutti buoni, ma a di disturbare le coscienze: le coscienze degli eredi e dei complici dei massacri, che negano memorie che non possono sopportare, ma anche le coscienze di quelli che credono che tutto questo appartenga a un passato che non ci riguarda più, a una “barbarie” che non ha niente a che fare con le moderne radici dell'Europa – un passato sia pure da deprecare ma da chiudere col rituale "mai più" per poi ricominciare a occuparci di altro.
E soprattutto, questa giornata serve a respingere gli inviti interessati di chi, dalla stessa parte di questi graffitari orrendi, ci invita a minimizzare e a tacere. Direi che dobbiamo fare proprio il contrario: bisogna parlare, e parlare chiaro – tanto alla sinistra esitante, quanto a quella destra che ha cercato una rispettabilità corteggiando la comunità ebraica. Deve farci capire se queste schifezze stanno ancora nel suo ambito e nel suo bacino elettorale, se le tollera o addirittura le va a cercare, o se ha il coraggio di rompere e di rifiutarle non a parole ma con fatti concreti. Come finora non ha fatto.

11 gennaio 2010

Beniamino Placido, mio maestro

Beniamino Placido amava i paradossi, e forse da un paradosso dobbiamo partire: in molti hanno scritto che fu professore di letteratura americana alla Sapienza e io, suo allievo, devo precisare che professore non lo fu mai: l’università non fu capace di accogliere un’intelligenza come la sua, e questo già dice qualcosa su com’era l’università e su come si stava preparando a diventare. Più che professore, Beniamino Placido fu un maestro, uno che insegnava perché amava farlo e che oltre ai testi e ai fatti insegnava un modo di ragionare in cui il rigore era piacere e il piacere era rigore. Per esempio, fece rinviare la pubblicazione del suo fondamentale Le due schiavitù perché aveva deciso che bisognava scrivere una nota – che poi diventò quasi mezzo libro e fu la critica più devastante alle scorciatoie quantitative della storia “cliometrica” alla moda. Su quella nota, fra l’altro, io ho fondato non poche delle cose che ho scritto e insegnato poi.
Beniamino teneva in facoltà dei seminari di storia degli Stati Uniti, e ci faceva capire il senso di quella storia usando tutti i mezzi necessari, dalla storiografia alla letteratura, al cinema. Non parlerei neanche di “interdisciplinarietà”: direi piuttosto che non esistevano barriere e separazioni fra i campi del sapere, che le connessioni andavano e venivano seguendo la logica imprevedibile di un’intelligenza capace di creare connessioni evidenti dove gli altri vedevano solo distanze e gerarchie. Benito Cereno e La capanna dello zio Tom erano le chiavi per ragionare sulla schiavitù, Via col Vento, romanzo e film, per la Depressione e il New Deal: semplicemente perché (e fu lui a farmelo capire partendo da Benjamin) non esiste un “rapporto fra” letteratura e società, ma esistono una cultura, un tempo, un mondo in cui la letteratura agisce come vi agiscono con le proprie forme e modi la politica, il cinema, l’economia. Per forza che l’università non riusciva a inquadrarlo.
Perciò Beniamino non aveva niente di quello snobismo modaiolo che pretende di scandalizzare e meravigliare proclamando che il “basso” è in realtà altissima arte. Il basso restava basso: prenderlo sul serio significava rispettarlo come tale secondo le sue categorie e i suoi progetti. E’ indimenticabile la lezione (ma erano poi “lezioni”? erano già qualcosa di diverso, con un senso dell’umorismo, un gusto della sorpresa e del dialogo che sarebbe poi diventato lo stile inimitabile dei suoi interventi in televisione) in cui ci raccontò la strategia usata dal produttore David Selznick per trasformare nella percezione del pubblico il film da prodotto di massa e quindi di seconda categoria a “opera d’arte”: prendendo atto della “bassa” necessità di permettere agli spettatori di andare in bagno durante un film di quella durata, e di ritrovare il posto rientrando, ebbe l’intuizione geniale di fare un intervallo e di vendere le poltrone numerate, cosa fino allora associata solo con la cultura d’elite del teatro e dell’opera. Raccontava dello scandalo delle persone perbene quando scoprirono che i poveri qualche volta spendevano i soldi dell’assistenza per andare al cinema – e richiamava quei versi del Re Lear che spiegano che se si toglie il “superfluo” alle persone gli si toglie anche il diritto di sentirsi pienamente umani, non ristretti alla mera sussistenza. e con il diritto di scegliere. Io a quel tempo lavoravo in borgata e sbattevo sempre contro il pregiudizio secondo cui i baraccati erano tali per scelta, perché poi avevano beni voluttuari come la televisione. Furono quel discorso di Beniamino e quei versi di Shakespeare che mi aiutarono a capire la signora del Borghetto Prenestino che mi raccontava di non avere mangiato per comprare al figlio il televisore perché non si sentisse umiliato dai suoi coetanei a scuola.
O ancora, sempre sul New Deal: a partire dal passo manzoniano in cui gli astanti si alzano tutti sulle punte dei piedi per vedere meglio la carrozza del governatore, e quindi vedono esattamente come se fossero rimasti a terra, rese tangibile la necessità di un intervento dello stato che trascendesse l’istinto dei singoli capitalisti di rispondere alla crisi facendo tutti la stessa cosa (in quel caso, abbassare i salari e l’occupazione), finendo così per trovarsi di nuovo tutti nella stessa condizione competitiva di prima.
Mi affascinava la concretezza con cui spiegava grandi fatti partendo da piccoli oggetti: le idee, le teorie, erano qualcosa a cui si tendeva; mai un a priori da cui partire (una volta, quando tutti erano extraparlamentari, disse che stava cercando di diventare marxista. Non lo è mai diventato, non come i marxisti immaginari o dogmatici di allora, ma ha sempre tenuto Marx nella sua cassetta degli attrezzi, tirandolo fuori quando, e solo quando, serviva. Che mi pare una cosa molto marxiana). Mi sembrava che vedesse la storia e la letteratura, e poi la televisione (e la teologia: non so se sia mai stato cristiano, ma aveva anche la Bibbia nella stessa cassetta in cui teneva Marx) come un gomitolo da svolgere tirandone induttivamente uno dei molti bandoli possibili; e li andava a cercare nei luoghi più imprevedibili, in dettagli che proprio perché marginali sfuggivano al controllo ideologico e rivelavano la sostanza degli oggetti e dei rapporti. Una volta che l’aveva trovato lo tirava – mi ricordo l’incredibile percorso che fece seguendo la parola “nepenthe” da Poe e Lovecraft – in modo così logico da far apparire come ovvie e semplici anche le avventure più ardue della sua immaginazione intelligente. Una volta che le cose le vedeva lui, ci diventava incredibile il fatto che non le avevamo già viste noi – erano così chiare…
Quella che a me sembra la sua intuizione americanistica più feconda sta in un saggio che uscì in occasione di una Mostra del Cinema di Venezia, dedicato al western. Placido rileggeva la scena dell’Ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper in cui l’eroe Natty Bumppo vede un indiano che si appresta a colpirlo ma è più veloce di lui e spara per primo, e la definiva come la “scena primaria” del western, e di tutto quello che il western significa per l’immaginazione e la politica americana: il fondamento, ribadito in un’infinità di film e romanzi, di quella giustificazione della violenza in nome di una superiorità morale che legittima tutte le guerre americane, precedenti o successive, come risposte ad aggressioni altrui vere o inventate - dal presunto affondamento della corazzata Maine nel porto dell’Avana nel 1898 alla presunta aggressione vietnamita nel golfo del Tonkino alla tragedia dell’11 settembre alle presunte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein – e che rende così necessari e problematici film come Minority Report, o anche certi racconti che ho ascoltato di battaglie partigiane, in cui i nostri sparano solo dopo, ma meglio, degli altri. L’ultima volta che vidi Beniamino erano in corso svariate “operazioni giusta causa”, e lui disse: per far venire la pace sulla terra, basterebbe proibire solo le “guerre giuste” – cioè, togliere la legittimazione morale che copre la nuda violenza della guerra.
Non ricordo se Beniamino aveva messo in rilievo un altro aspetto di quella scena, che discende comunque dalla sua lettura: non solo Natty Bumppo spara più svelto, ma usa armi tecnologicamente superiori. Il suo saggio mi tornò subito in mente vedendo la scena dei Predatori dell’Arca perduta in cui Indiana Jones ammazza a pistolettate l’arabo che l’attacca con la scimitarra – una scena che entusiasmò tanti amatori del nuovo e del moderno comunque, e che andrebbe rivista alla luce di Iraq e Afganistan. Quella scena, peraltro, era la riscrittura di una pagina di un romanzo di cent’anni prima, il Connecticut Yankee di Mark Twain, altro libro in cui di Beniamino aveva saputo cogliere non solo la polemica della moderna democratica America contro la feudale arretrata Europa, ma anche una palese allegoria (palese a lui, e a tutti dopo che lui la vide dove non se ne era accorto nessun altro!) del genocidio dei primitivi indiani da parte della progressista civiltà occidentale – il che ci riportava ancora una volta a Cooper e ai mohicani (e anticipava ancora una volta il moderno scontro di civiltà).
Non era necessario essere sempre d’accordo con lui (per esempio lui, nato nella Lucania rurale, era scettico verso la mia passione per le culture popolari; io non ero convinto che La capanna dello zio Tom fosse davvero così reazionario) per sapere che parlavo comunque il linguaggio che lui aveva insegnato, che era sempre lui il mio lettore implicito. Per questo, a ogni disaccordo ho sofferto come per un’incomprensione con una persona amata. Perché dopo tanti discorsi sull’intelligenza, la critica, la cultura, c’è un’altra cosa da dire: che a Beniamino Placido non si poteva non volere bene.