Beniamino Placido, mio maestro
Beniamino Placido amava i paradossi, e forse da un paradosso dobbiamo partire: in molti hanno scritto che fu professore di letteratura americana alla Sapienza e io, suo allievo, devo precisare che professore non lo fu mai: l’università non fu capace di accogliere un’intelligenza come la sua, e questo già dice qualcosa su com’era l’università e su come si stava preparando a diventare. Più che professore, Beniamino Placido fu un maestro, uno che insegnava perché amava farlo e che oltre ai testi e ai fatti insegnava un modo di ragionare in cui il rigore era piacere e il piacere era rigore. Per esempio, fece rinviare la pubblicazione del suo fondamentale Le due schiavitù perché aveva deciso che bisognava scrivere una nota – che poi diventò quasi mezzo libro e fu la critica più devastante alle scorciatoie quantitative della storia “cliometrica” alla moda. Su quella nota, fra l’altro, io ho fondato non poche delle cose che ho scritto e insegnato poi.
Beniamino teneva in facoltà dei seminari di storia degli Stati Uniti, e ci faceva capire il senso di quella storia usando tutti i mezzi necessari, dalla storiografia alla letteratura, al cinema. Non parlerei neanche di “interdisciplinarietà”: direi piuttosto che non esistevano barriere e separazioni fra i campi del sapere, che le connessioni andavano e venivano seguendo la logica imprevedibile di un’intelligenza capace di creare connessioni evidenti dove gli altri vedevano solo distanze e gerarchie. Benito Cereno e La capanna dello zio Tom erano le chiavi per ragionare sulla schiavitù, Via col Vento, romanzo e film, per la Depressione e il New Deal: semplicemente perché (e fu lui a farmelo capire partendo da Benjamin) non esiste un “rapporto fra” letteratura e società, ma esistono una cultura, un tempo, un mondo in cui la letteratura agisce come vi agiscono con le proprie forme e modi la politica, il cinema, l’economia. Per forza che l’università non riusciva a inquadrarlo.
Perciò Beniamino non aveva niente di quello snobismo modaiolo che pretende di scandalizzare e meravigliare proclamando che il “basso” è in realtà altissima arte. Il basso restava basso: prenderlo sul serio significava rispettarlo come tale secondo le sue categorie e i suoi progetti. E’ indimenticabile la lezione (ma erano poi “lezioni”? erano già qualcosa di diverso, con un senso dell’umorismo, un gusto della sorpresa e del dialogo che sarebbe poi diventato lo stile inimitabile dei suoi interventi in televisione) in cui ci raccontò la strategia usata dal produttore David Selznick per trasformare nella percezione del pubblico il film da prodotto di massa e quindi di seconda categoria a “opera d’arte”: prendendo atto della “bassa” necessità di permettere agli spettatori di andare in bagno durante un film di quella durata, e di ritrovare il posto rientrando, ebbe l’intuizione geniale di fare un intervallo e di vendere le poltrone numerate, cosa fino allora associata solo con la cultura d’elite del teatro e dell’opera. Raccontava dello scandalo delle persone perbene quando scoprirono che i poveri qualche volta spendevano i soldi dell’assistenza per andare al cinema – e richiamava quei versi del Re Lear che spiegano che se si toglie il “superfluo” alle persone gli si toglie anche il diritto di sentirsi pienamente umani, non ristretti alla mera sussistenza. e con il diritto di scegliere. Io a quel tempo lavoravo in borgata e sbattevo sempre contro il pregiudizio secondo cui i baraccati erano tali per scelta, perché poi avevano beni voluttuari come la televisione. Furono quel discorso di Beniamino e quei versi di Shakespeare che mi aiutarono a capire la signora del Borghetto Prenestino che mi raccontava di non avere mangiato per comprare al figlio il televisore perché non si sentisse umiliato dai suoi coetanei a scuola.
O ancora, sempre sul New Deal: a partire dal passo manzoniano in cui gli astanti si alzano tutti sulle punte dei piedi per vedere meglio la carrozza del governatore, e quindi vedono esattamente come se fossero rimasti a terra, rese tangibile la necessità di un intervento dello stato che trascendesse l’istinto dei singoli capitalisti di rispondere alla crisi facendo tutti la stessa cosa (in quel caso, abbassare i salari e l’occupazione), finendo così per trovarsi di nuovo tutti nella stessa condizione competitiva di prima.
Mi affascinava la concretezza con cui spiegava grandi fatti partendo da piccoli oggetti: le idee, le teorie, erano qualcosa a cui si tendeva; mai un a priori da cui partire (una volta, quando tutti erano extraparlamentari, disse che stava cercando di diventare marxista. Non lo è mai diventato, non come i marxisti immaginari o dogmatici di allora, ma ha sempre tenuto Marx nella sua cassetta degli attrezzi, tirandolo fuori quando, e solo quando, serviva. Che mi pare una cosa molto marxiana). Mi sembrava che vedesse la storia e la letteratura, e poi la televisione (e la teologia: non so se sia mai stato cristiano, ma aveva anche la Bibbia nella stessa cassetta in cui teneva Marx) come un gomitolo da svolgere tirandone induttivamente uno dei molti bandoli possibili; e li andava a cercare nei luoghi più imprevedibili, in dettagli che proprio perché marginali sfuggivano al controllo ideologico e rivelavano la sostanza degli oggetti e dei rapporti. Una volta che l’aveva trovato lo tirava – mi ricordo l’incredibile percorso che fece seguendo la parola “nepenthe” da Poe e Lovecraft – in modo così logico da far apparire come ovvie e semplici anche le avventure più ardue della sua immaginazione intelligente. Una volta che le cose le vedeva lui, ci diventava incredibile il fatto che non le avevamo già viste noi – erano così chiare…
Quella che a me sembra la sua intuizione americanistica più feconda sta in un saggio che uscì in occasione di una Mostra del Cinema di Venezia, dedicato al western. Placido rileggeva la scena dell’Ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper in cui l’eroe Natty Bumppo vede un indiano che si appresta a colpirlo ma è più veloce di lui e spara per primo, e la definiva come la “scena primaria” del western, e di tutto quello che il western significa per l’immaginazione e la politica americana: il fondamento, ribadito in un’infinità di film e romanzi, di quella giustificazione della violenza in nome di una superiorità morale che legittima tutte le guerre americane, precedenti o successive, come risposte ad aggressioni altrui vere o inventate - dal presunto affondamento della corazzata Maine nel porto dell’Avana nel 1898 alla presunta aggressione vietnamita nel golfo del Tonkino alla tragedia dell’11 settembre alle presunte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein – e che rende così necessari e problematici film come Minority Report, o anche certi racconti che ho ascoltato di battaglie partigiane, in cui i nostri sparano solo dopo, ma meglio, degli altri. L’ultima volta che vidi Beniamino erano in corso svariate “operazioni giusta causa”, e lui disse: per far venire la pace sulla terra, basterebbe proibire solo le “guerre giuste” – cioè, togliere la legittimazione morale che copre la nuda violenza della guerra.
Non ricordo se Beniamino aveva messo in rilievo un altro aspetto di quella scena, che discende comunque dalla sua lettura: non solo Natty Bumppo spara più svelto, ma usa armi tecnologicamente superiori. Il suo saggio mi tornò subito in mente vedendo la scena dei Predatori dell’Arca perduta in cui Indiana Jones ammazza a pistolettate l’arabo che l’attacca con la scimitarra – una scena che entusiasmò tanti amatori del nuovo e del moderno comunque, e che andrebbe rivista alla luce di Iraq e Afganistan. Quella scena, peraltro, era la riscrittura di una pagina di un romanzo di cent’anni prima, il Connecticut Yankee di Mark Twain, altro libro in cui di Beniamino aveva saputo cogliere non solo la polemica della moderna democratica America contro la feudale arretrata Europa, ma anche una palese allegoria (palese a lui, e a tutti dopo che lui la vide dove non se ne era accorto nessun altro!) del genocidio dei primitivi indiani da parte della progressista civiltà occidentale – il che ci riportava ancora una volta a Cooper e ai mohicani (e anticipava ancora una volta il moderno scontro di civiltà).
Non era necessario essere sempre d’accordo con lui (per esempio lui, nato nella Lucania rurale, era scettico verso la mia passione per le culture popolari; io non ero convinto che La capanna dello zio Tom fosse davvero così reazionario) per sapere che parlavo comunque il linguaggio che lui aveva insegnato, che era sempre lui il mio lettore implicito. Per questo, a ogni disaccordo ho sofferto come per un’incomprensione con una persona amata. Perché dopo tanti discorsi sull’intelligenza, la critica, la cultura, c’è un’altra cosa da dire: che a Beniamino Placido non si poteva non volere bene.
Beniamino teneva in facoltà dei seminari di storia degli Stati Uniti, e ci faceva capire il senso di quella storia usando tutti i mezzi necessari, dalla storiografia alla letteratura, al cinema. Non parlerei neanche di “interdisciplinarietà”: direi piuttosto che non esistevano barriere e separazioni fra i campi del sapere, che le connessioni andavano e venivano seguendo la logica imprevedibile di un’intelligenza capace di creare connessioni evidenti dove gli altri vedevano solo distanze e gerarchie. Benito Cereno e La capanna dello zio Tom erano le chiavi per ragionare sulla schiavitù, Via col Vento, romanzo e film, per la Depressione e il New Deal: semplicemente perché (e fu lui a farmelo capire partendo da Benjamin) non esiste un “rapporto fra” letteratura e società, ma esistono una cultura, un tempo, un mondo in cui la letteratura agisce come vi agiscono con le proprie forme e modi la politica, il cinema, l’economia. Per forza che l’università non riusciva a inquadrarlo.
Perciò Beniamino non aveva niente di quello snobismo modaiolo che pretende di scandalizzare e meravigliare proclamando che il “basso” è in realtà altissima arte. Il basso restava basso: prenderlo sul serio significava rispettarlo come tale secondo le sue categorie e i suoi progetti. E’ indimenticabile la lezione (ma erano poi “lezioni”? erano già qualcosa di diverso, con un senso dell’umorismo, un gusto della sorpresa e del dialogo che sarebbe poi diventato lo stile inimitabile dei suoi interventi in televisione) in cui ci raccontò la strategia usata dal produttore David Selznick per trasformare nella percezione del pubblico il film da prodotto di massa e quindi di seconda categoria a “opera d’arte”: prendendo atto della “bassa” necessità di permettere agli spettatori di andare in bagno durante un film di quella durata, e di ritrovare il posto rientrando, ebbe l’intuizione geniale di fare un intervallo e di vendere le poltrone numerate, cosa fino allora associata solo con la cultura d’elite del teatro e dell’opera. Raccontava dello scandalo delle persone perbene quando scoprirono che i poveri qualche volta spendevano i soldi dell’assistenza per andare al cinema – e richiamava quei versi del Re Lear che spiegano che se si toglie il “superfluo” alle persone gli si toglie anche il diritto di sentirsi pienamente umani, non ristretti alla mera sussistenza. e con il diritto di scegliere. Io a quel tempo lavoravo in borgata e sbattevo sempre contro il pregiudizio secondo cui i baraccati erano tali per scelta, perché poi avevano beni voluttuari come la televisione. Furono quel discorso di Beniamino e quei versi di Shakespeare che mi aiutarono a capire la signora del Borghetto Prenestino che mi raccontava di non avere mangiato per comprare al figlio il televisore perché non si sentisse umiliato dai suoi coetanei a scuola.
O ancora, sempre sul New Deal: a partire dal passo manzoniano in cui gli astanti si alzano tutti sulle punte dei piedi per vedere meglio la carrozza del governatore, e quindi vedono esattamente come se fossero rimasti a terra, rese tangibile la necessità di un intervento dello stato che trascendesse l’istinto dei singoli capitalisti di rispondere alla crisi facendo tutti la stessa cosa (in quel caso, abbassare i salari e l’occupazione), finendo così per trovarsi di nuovo tutti nella stessa condizione competitiva di prima.
Mi affascinava la concretezza con cui spiegava grandi fatti partendo da piccoli oggetti: le idee, le teorie, erano qualcosa a cui si tendeva; mai un a priori da cui partire (una volta, quando tutti erano extraparlamentari, disse che stava cercando di diventare marxista. Non lo è mai diventato, non come i marxisti immaginari o dogmatici di allora, ma ha sempre tenuto Marx nella sua cassetta degli attrezzi, tirandolo fuori quando, e solo quando, serviva. Che mi pare una cosa molto marxiana). Mi sembrava che vedesse la storia e la letteratura, e poi la televisione (e la teologia: non so se sia mai stato cristiano, ma aveva anche la Bibbia nella stessa cassetta in cui teneva Marx) come un gomitolo da svolgere tirandone induttivamente uno dei molti bandoli possibili; e li andava a cercare nei luoghi più imprevedibili, in dettagli che proprio perché marginali sfuggivano al controllo ideologico e rivelavano la sostanza degli oggetti e dei rapporti. Una volta che l’aveva trovato lo tirava – mi ricordo l’incredibile percorso che fece seguendo la parola “nepenthe” da Poe e Lovecraft – in modo così logico da far apparire come ovvie e semplici anche le avventure più ardue della sua immaginazione intelligente. Una volta che le cose le vedeva lui, ci diventava incredibile il fatto che non le avevamo già viste noi – erano così chiare…
Quella che a me sembra la sua intuizione americanistica più feconda sta in un saggio che uscì in occasione di una Mostra del Cinema di Venezia, dedicato al western. Placido rileggeva la scena dell’Ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper in cui l’eroe Natty Bumppo vede un indiano che si appresta a colpirlo ma è più veloce di lui e spara per primo, e la definiva come la “scena primaria” del western, e di tutto quello che il western significa per l’immaginazione e la politica americana: il fondamento, ribadito in un’infinità di film e romanzi, di quella giustificazione della violenza in nome di una superiorità morale che legittima tutte le guerre americane, precedenti o successive, come risposte ad aggressioni altrui vere o inventate - dal presunto affondamento della corazzata Maine nel porto dell’Avana nel 1898 alla presunta aggressione vietnamita nel golfo del Tonkino alla tragedia dell’11 settembre alle presunte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein – e che rende così necessari e problematici film come Minority Report, o anche certi racconti che ho ascoltato di battaglie partigiane, in cui i nostri sparano solo dopo, ma meglio, degli altri. L’ultima volta che vidi Beniamino erano in corso svariate “operazioni giusta causa”, e lui disse: per far venire la pace sulla terra, basterebbe proibire solo le “guerre giuste” – cioè, togliere la legittimazione morale che copre la nuda violenza della guerra.
Non ricordo se Beniamino aveva messo in rilievo un altro aspetto di quella scena, che discende comunque dalla sua lettura: non solo Natty Bumppo spara più svelto, ma usa armi tecnologicamente superiori. Il suo saggio mi tornò subito in mente vedendo la scena dei Predatori dell’Arca perduta in cui Indiana Jones ammazza a pistolettate l’arabo che l’attacca con la scimitarra – una scena che entusiasmò tanti amatori del nuovo e del moderno comunque, e che andrebbe rivista alla luce di Iraq e Afganistan. Quella scena, peraltro, era la riscrittura di una pagina di un romanzo di cent’anni prima, il Connecticut Yankee di Mark Twain, altro libro in cui di Beniamino aveva saputo cogliere non solo la polemica della moderna democratica America contro la feudale arretrata Europa, ma anche una palese allegoria (palese a lui, e a tutti dopo che lui la vide dove non se ne era accorto nessun altro!) del genocidio dei primitivi indiani da parte della progressista civiltà occidentale – il che ci riportava ancora una volta a Cooper e ai mohicani (e anticipava ancora una volta il moderno scontro di civiltà).
Non era necessario essere sempre d’accordo con lui (per esempio lui, nato nella Lucania rurale, era scettico verso la mia passione per le culture popolari; io non ero convinto che La capanna dello zio Tom fosse davvero così reazionario) per sapere che parlavo comunque il linguaggio che lui aveva insegnato, che era sempre lui il mio lettore implicito. Per questo, a ogni disaccordo ho sofferto come per un’incomprensione con una persona amata. Perché dopo tanti discorsi sull’intelligenza, la critica, la cultura, c’è un’altra cosa da dire: che a Beniamino Placido non si poteva non volere bene.
2 Comments:
questo bellissimo ritratto mi ha ricordato perchè mi sono appassionata tanto, durante l'università, alla storia degli stati uniti d'america. per fortuna oltre a lei e a placido ci sono ancora professori che la storia e la società li raccontano e, soprattutto, li vedono così.
Mi ha fatto molto piacere leggere questo ricordo, che si somma ai (pochi) miei su Placido, e all'indimenticabile esperienza del Processo a Rambo in cui vi coinvolgemmo...
Rudi Ghedini
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