Diario di viaggio (difficile) fra Kentucky e California
il manifesto 30 ottobre 2009
Lexington, Università del Kentucky. Sto raccontando a una classe di scienze sociali la mia ricerca in Appalachia, e mi viene di dirgli che ho sempre problemi a farmi rimborsare le spese di viaggio dall’università perché Harlan – equivalente di un nostro capoluogo di provincia – non è raggiungibile con nessun mezzo di trasporto pubblico e quindi non ho mai una normale pezza d’appoggio da presentare all’amministrazione. Chiede una ragazza, ma in Italia anche i paesi delle zone rurali ci si arriva coi mezzi pubblici? Dico, in linea di principio sì: almeno fino a quando non ci siamo messi in testa di privatizzare tutto, l’accesso al trasporto pubblico è stato pensato più o meno come un diritto del cittadino. Restano basiti: l’idea che il concetto di diritto si possa applicare a cose come i trasporti gli risulta del tutto sorprendente. Figuriamoci la salute, che è l’argomento del giorno.
La sera, Rhonda, che ha lasciato la carriera di medico per fare la musicista, mi chiede senza preliminari: com’è il vostro sistema sanitario? Glielo spiego – sprechi, cattiva politica e corruzione compresi, ma quello che fa lo fa per tutti. Qui non è così, molto dipende da chi sei. Jo Carson – poeta, performer, drammaturga straordinaria – ha un tumore al colon. Non ha assicurazione né assistenza. Per fortuna è famosa, e i suoi amici e lettori stanno facendo collette per farla curare, forse ce la faranno. Per chi è meno conosciuto e più solo, le cose sono peggio.
Gurney Norman, “poeta laureato” del Kentucky, mi racconta di un parente di sua moglie, anche lui con un tumore. L’assicurazione accetta di pagare solo un frammento delle spese. Gli oppositori della riforma sanitaria si dicono sconvolti al pensiero che dei burocrati statali possano decidere della vita e della morte; ma gli pare normale che lo facciano invece dei burocrati privati che puntano al profitto. Per fortuna, il paziente ha parenti aggiornati, ostinati e con buone relazioni, che armano un tale casino legale e di pubbliche relazioni che alla fine l’assicurazione cede. Ma è una lotta di potere, e la vincono in pochi.
Qualche giorno dopo, a Santa Rosa, California, la prima pagina del giornale locale informa che una delle maggiori HMO – le aziende sanitarie private che gestiscono le assicurazioni – ha rotto i rapporti con l’università di San Francisco e da ora in poi i suoi clienti non avranno più accesso ai servizi degli specialisti universitari. Università e HMO si scambiano insulti e accuse a colpi di inserti pubblicitari sui giornali. Lucia – psicoterapeuta, moglie di docente universitario – mi spiega l’ottimo programma di assicurazione di cui dispone la sua famiglia. Gli costa pochi dollari al mese, è deducibile dalla tasse, copre quasi tutto con un ticket di dieci dollari a visita (gratis per certi controlli preventivi). Lei e il marito hanno avuto ogni sorta di trattamenti chirurgici spendendo pochissimo. Dice: sarei ben contenta di pagare più tasse se questo vantaggio fosse applicabile a tutti.
Suo marito ha compiuto 65 anni, lei sta per arrivarci, e a quell’età tutti i cittadini hanno diritto a Medicare, un programma di assistenza abbastanza efficiente (dicono: se Barack Obama avesse formulato la sua proposta dicendo: Medicare per tutti prima dei 65 anni, lo avrebbero capito al volo e avrebbe avuto molti problemi di meno). Solo che Medicare non scatta automaticamente: negli Stati Uniti, molti diritti - a partire del diritto di voto – ti spettano a domanda, e non sempre il sistema ti facilita l’accesso, basta pensare a quanto è complicato registrarsi per votare. Così, Lucia mi racconta la trafila burocratica che ha dovuto fare per avere Medicare: moduli su moduli sempre più complicati, file, telefonate, lunghe attese per burocrati che ti buttavano giù il telefono… Dice Lucia: io sono istruita, ostinata e conosco i miei diritti, ma pensa alle persone anziane che non hanno tanta familiarità con la scrittura, che parlano poco inglese, che non hanno il coraggio di affrontare chi sta dietro una scrivania. Viene da pensare che gli Stati Uniti siano un po’ come il mondo immaginato da Ghedini, avvocato berlusconiano: anche quando il diritto è uguale per tutti, il suo esercizio e la sua applicazione restano disuguali, un’aleatoria questione di classe.
Da Lexington devo andare a Louisville. Sono le due città principali del Kentucky, grandi come Bologna e Firenze, e distanti uguale, una settantina di miglia. Nonostante il discorso fatto in classe la mattina prima, sono ancora talmente ingenuo da credere di poter fare il viaggio in autobus. Naturalmente, non esiste. Il treno, neanche a parlarne. L’aereo costa una cifra spropositata. Finisco per andarci in taxi: centonovanta dollari, e dubito che qualcuno me li rimborserà mai.
Berkeley, California, dove cominciarono gli anni ’60 con il Free Speech Movement e la rivolta studentesca del ‘64. Piove e entro in un caffé. Conto venticinque persone sedute a venticinque tavolini separati ciascuno assorto nel suo personale computer. Non si sente una voce, altro che Free Speech. Guardando meglio, vedo che c’è anche una coppia. Lui e lei, ciascuno col suo computer. Mi pare la folla solitaria di cui parlava mezzo secolo fa David Riesman. Faccio una foto col telefonino, non se ne accorgono nemmeno, e comunque la foto non dà l’idea. Mi siedo al mio tavolino singolo, e apro un libro.
La mattina, con David Walls – uno dei ribelli del ’64 – avevamo parlato dell’individualismo in questo paese, e lui giustamente mi aveva detto che c’è anche una contronarrativa: la storia della benevolent community, dell’aiuto reciproco e dell’assistenza prestata volontariamente a chi ha bisogno . Ed è verissimo: è il caso degli amici e dei lettori che corrono in soccorso di Jo Carson. Ma il problema non è la benevolenza, sono i diritti. E anche la comunità, quando c’è, rischia di dissolversi. Sono tutti connessi con chi è lontano, e tutti separati da chi gli siede accanto, come i fedeli calvinisti tutti insieme da soli davanti a Dio.
Per andare a trovare David e sua moglie Lucia a Santa Rosa prendo l’autobus da San Francisco. A differenza del Kentucky e di quasi tutta l’America, San Francisco è una specie di paradiso dei trasporti pubblici: metropolitana stupenda, tram pittoreschi, tante linee di autobus per tutta la Baia. Ci metto tre ore per fare sessanta chilometri, ma vale la pena, il paesaggio dal Golden Gate è fantastico. E sull’autobus si parla solo spagnolo.
In questo paese automobilistico, i mezzi pubblici sono un posto privilegiato per vedere gli invisibili. Già sulla metropolitana sale un ciclista con lunghi capelli bianchi da ex hippie sotto il casco, e attacca con la vicina di posto un lungo discorso un po’ incoerente su un libro che ha letto, scritto da tre italiani, che spiega tutti i misteri dell’assassinio Kennedy, di Oswald e di Ruby (la California è la capitale mondiale delle teorie del complotto). Ma è soprattutto attorno agli autobus interurbani che si addensano i marginali. Mentre aspetto, un ragazzo nero con fluenti dreadlock mi racconta una complicata storia che finisce con la richiesta di soldi, dice per tornare a casa. Gli do qualche dollaro, pensando che non è la prima volta che faccio l’elemosina a un cittadino della più ricca superpotenza del mondo, e se ne va. Poco dopo, arriva una signora. Sta un po’ lì in piedi accanto alla panchina, poi spezza il silenzio: “Questi niggers e questi ebrei che si prendono tanto spazio, sono buoni solo a fare chiacchiere.” E tace. Io resto di sasso. Non è bianca: potrebbe essere asiatica, o indiana. Ai polsi porta braccialetti di perline di quelli che associamo di solito all’artigianato nativo.
A Santa Rosa, ritrovo Lucia e David. Molti anni fa adottarono un bambino afroamericano (con qualche traccia di “sangue” bianco). Adesso il ragazzo è grande, ha sposato una ragazza messicana, ed ecco questi due bambini: neri, bianchi, latini, indiani, bilingui in inglese e spagnolo, e molto belli. Se il mondo va come deve andare, sono loro il futuro, la generazione post-Obama. Magari a un certo punto si sentiranno confusi e vorranno sapere qual è la loro identità. Ma nessuno gliela imporrà più dall’esterno come prigione e come stigma.
Se il mondo va come deve andare. Ma il vecchio mondo ha ancora un sacco di veleno nella coda. Il padre di questi bambini è stato licenziato (dopo aver addestrato quelli che hanno preso il suo posto) e riassunto dopo mesi senza stipendio, con un contratto di sei mesi, senza assistenza e senza pensione. Il Louisville Courier-Journal racconta di un giudice della Louisiana (lo stato più mescolato d’America) che rifiuta di firmare la licenza di matrimonio per una coppia mista: sono preoccupato per i bambini,spiega; questi matrimoni vanno sempre male. Naturalmente, il razzismo non c’entra: “Non sono razzista. E’ solo che non credo giusto mescolare le razze in questo modo. Ho mucchi di amici neri. Vengono a casa mia. Gli celebro i matrimoni, usano il mio bagno.” L’idea che sei tollerante perché lasci che i neri si siedano sul tuo cesso mi pare un tocco di genio assoluto.
Tutti mi chiedono, e a tutti chiedo, che ne pensiamo del Nobel per la pace a Barack Obama. Tutti quelli con cui parlo io sono moderatamente contenti: adesso stiamo a vedere che cosa farà davvero. Ma David riesce a esprimere quello che sentivo anch’io: il nostro compito non è di stare a vedere, aspettare e giudicare: “Quello che farà Obama dipende anche da noi”. Dopo il successo elettorale, i progressisti americani si sono un po’ seduti. Ma domani David e un piccolo gruppo di attivisti andranno a manifestare coi cartelli a favore di nuove leggi ambientaliste. Sui marciapiedi di Telegraph Avenue, dove cominciò tutto nel ’64, mi fermano per chiedere una firma e qualche dollaro per la campagna a favore della riforma sanitaria. Non basteranno a muovere il mondo, ma per fortuna si muovono.
Lexington, Università del Kentucky. Sto raccontando a una classe di scienze sociali la mia ricerca in Appalachia, e mi viene di dirgli che ho sempre problemi a farmi rimborsare le spese di viaggio dall’università perché Harlan – equivalente di un nostro capoluogo di provincia – non è raggiungibile con nessun mezzo di trasporto pubblico e quindi non ho mai una normale pezza d’appoggio da presentare all’amministrazione. Chiede una ragazza, ma in Italia anche i paesi delle zone rurali ci si arriva coi mezzi pubblici? Dico, in linea di principio sì: almeno fino a quando non ci siamo messi in testa di privatizzare tutto, l’accesso al trasporto pubblico è stato pensato più o meno come un diritto del cittadino. Restano basiti: l’idea che il concetto di diritto si possa applicare a cose come i trasporti gli risulta del tutto sorprendente. Figuriamoci la salute, che è l’argomento del giorno.
La sera, Rhonda, che ha lasciato la carriera di medico per fare la musicista, mi chiede senza preliminari: com’è il vostro sistema sanitario? Glielo spiego – sprechi, cattiva politica e corruzione compresi, ma quello che fa lo fa per tutti. Qui non è così, molto dipende da chi sei. Jo Carson – poeta, performer, drammaturga straordinaria – ha un tumore al colon. Non ha assicurazione né assistenza. Per fortuna è famosa, e i suoi amici e lettori stanno facendo collette per farla curare, forse ce la faranno. Per chi è meno conosciuto e più solo, le cose sono peggio.
Gurney Norman, “poeta laureato” del Kentucky, mi racconta di un parente di sua moglie, anche lui con un tumore. L’assicurazione accetta di pagare solo un frammento delle spese. Gli oppositori della riforma sanitaria si dicono sconvolti al pensiero che dei burocrati statali possano decidere della vita e della morte; ma gli pare normale che lo facciano invece dei burocrati privati che puntano al profitto. Per fortuna, il paziente ha parenti aggiornati, ostinati e con buone relazioni, che armano un tale casino legale e di pubbliche relazioni che alla fine l’assicurazione cede. Ma è una lotta di potere, e la vincono in pochi.
Qualche giorno dopo, a Santa Rosa, California, la prima pagina del giornale locale informa che una delle maggiori HMO – le aziende sanitarie private che gestiscono le assicurazioni – ha rotto i rapporti con l’università di San Francisco e da ora in poi i suoi clienti non avranno più accesso ai servizi degli specialisti universitari. Università e HMO si scambiano insulti e accuse a colpi di inserti pubblicitari sui giornali. Lucia – psicoterapeuta, moglie di docente universitario – mi spiega l’ottimo programma di assicurazione di cui dispone la sua famiglia. Gli costa pochi dollari al mese, è deducibile dalla tasse, copre quasi tutto con un ticket di dieci dollari a visita (gratis per certi controlli preventivi). Lei e il marito hanno avuto ogni sorta di trattamenti chirurgici spendendo pochissimo. Dice: sarei ben contenta di pagare più tasse se questo vantaggio fosse applicabile a tutti.
Suo marito ha compiuto 65 anni, lei sta per arrivarci, e a quell’età tutti i cittadini hanno diritto a Medicare, un programma di assistenza abbastanza efficiente (dicono: se Barack Obama avesse formulato la sua proposta dicendo: Medicare per tutti prima dei 65 anni, lo avrebbero capito al volo e avrebbe avuto molti problemi di meno). Solo che Medicare non scatta automaticamente: negli Stati Uniti, molti diritti - a partire del diritto di voto – ti spettano a domanda, e non sempre il sistema ti facilita l’accesso, basta pensare a quanto è complicato registrarsi per votare. Così, Lucia mi racconta la trafila burocratica che ha dovuto fare per avere Medicare: moduli su moduli sempre più complicati, file, telefonate, lunghe attese per burocrati che ti buttavano giù il telefono… Dice Lucia: io sono istruita, ostinata e conosco i miei diritti, ma pensa alle persone anziane che non hanno tanta familiarità con la scrittura, che parlano poco inglese, che non hanno il coraggio di affrontare chi sta dietro una scrivania. Viene da pensare che gli Stati Uniti siano un po’ come il mondo immaginato da Ghedini, avvocato berlusconiano: anche quando il diritto è uguale per tutti, il suo esercizio e la sua applicazione restano disuguali, un’aleatoria questione di classe.
Da Lexington devo andare a Louisville. Sono le due città principali del Kentucky, grandi come Bologna e Firenze, e distanti uguale, una settantina di miglia. Nonostante il discorso fatto in classe la mattina prima, sono ancora talmente ingenuo da credere di poter fare il viaggio in autobus. Naturalmente, non esiste. Il treno, neanche a parlarne. L’aereo costa una cifra spropositata. Finisco per andarci in taxi: centonovanta dollari, e dubito che qualcuno me li rimborserà mai.
Berkeley, California, dove cominciarono gli anni ’60 con il Free Speech Movement e la rivolta studentesca del ‘64. Piove e entro in un caffé. Conto venticinque persone sedute a venticinque tavolini separati ciascuno assorto nel suo personale computer. Non si sente una voce, altro che Free Speech. Guardando meglio, vedo che c’è anche una coppia. Lui e lei, ciascuno col suo computer. Mi pare la folla solitaria di cui parlava mezzo secolo fa David Riesman. Faccio una foto col telefonino, non se ne accorgono nemmeno, e comunque la foto non dà l’idea. Mi siedo al mio tavolino singolo, e apro un libro.
La mattina, con David Walls – uno dei ribelli del ’64 – avevamo parlato dell’individualismo in questo paese, e lui giustamente mi aveva detto che c’è anche una contronarrativa: la storia della benevolent community, dell’aiuto reciproco e dell’assistenza prestata volontariamente a chi ha bisogno . Ed è verissimo: è il caso degli amici e dei lettori che corrono in soccorso di Jo Carson. Ma il problema non è la benevolenza, sono i diritti. E anche la comunità, quando c’è, rischia di dissolversi. Sono tutti connessi con chi è lontano, e tutti separati da chi gli siede accanto, come i fedeli calvinisti tutti insieme da soli davanti a Dio.
Per andare a trovare David e sua moglie Lucia a Santa Rosa prendo l’autobus da San Francisco. A differenza del Kentucky e di quasi tutta l’America, San Francisco è una specie di paradiso dei trasporti pubblici: metropolitana stupenda, tram pittoreschi, tante linee di autobus per tutta la Baia. Ci metto tre ore per fare sessanta chilometri, ma vale la pena, il paesaggio dal Golden Gate è fantastico. E sull’autobus si parla solo spagnolo.
In questo paese automobilistico, i mezzi pubblici sono un posto privilegiato per vedere gli invisibili. Già sulla metropolitana sale un ciclista con lunghi capelli bianchi da ex hippie sotto il casco, e attacca con la vicina di posto un lungo discorso un po’ incoerente su un libro che ha letto, scritto da tre italiani, che spiega tutti i misteri dell’assassinio Kennedy, di Oswald e di Ruby (la California è la capitale mondiale delle teorie del complotto). Ma è soprattutto attorno agli autobus interurbani che si addensano i marginali. Mentre aspetto, un ragazzo nero con fluenti dreadlock mi racconta una complicata storia che finisce con la richiesta di soldi, dice per tornare a casa. Gli do qualche dollaro, pensando che non è la prima volta che faccio l’elemosina a un cittadino della più ricca superpotenza del mondo, e se ne va. Poco dopo, arriva una signora. Sta un po’ lì in piedi accanto alla panchina, poi spezza il silenzio: “Questi niggers e questi ebrei che si prendono tanto spazio, sono buoni solo a fare chiacchiere.” E tace. Io resto di sasso. Non è bianca: potrebbe essere asiatica, o indiana. Ai polsi porta braccialetti di perline di quelli che associamo di solito all’artigianato nativo.
A Santa Rosa, ritrovo Lucia e David. Molti anni fa adottarono un bambino afroamericano (con qualche traccia di “sangue” bianco). Adesso il ragazzo è grande, ha sposato una ragazza messicana, ed ecco questi due bambini: neri, bianchi, latini, indiani, bilingui in inglese e spagnolo, e molto belli. Se il mondo va come deve andare, sono loro il futuro, la generazione post-Obama. Magari a un certo punto si sentiranno confusi e vorranno sapere qual è la loro identità. Ma nessuno gliela imporrà più dall’esterno come prigione e come stigma.
Se il mondo va come deve andare. Ma il vecchio mondo ha ancora un sacco di veleno nella coda. Il padre di questi bambini è stato licenziato (dopo aver addestrato quelli che hanno preso il suo posto) e riassunto dopo mesi senza stipendio, con un contratto di sei mesi, senza assistenza e senza pensione. Il Louisville Courier-Journal racconta di un giudice della Louisiana (lo stato più mescolato d’America) che rifiuta di firmare la licenza di matrimonio per una coppia mista: sono preoccupato per i bambini,spiega; questi matrimoni vanno sempre male. Naturalmente, il razzismo non c’entra: “Non sono razzista. E’ solo che non credo giusto mescolare le razze in questo modo. Ho mucchi di amici neri. Vengono a casa mia. Gli celebro i matrimoni, usano il mio bagno.” L’idea che sei tollerante perché lasci che i neri si siedano sul tuo cesso mi pare un tocco di genio assoluto.
Tutti mi chiedono, e a tutti chiedo, che ne pensiamo del Nobel per la pace a Barack Obama. Tutti quelli con cui parlo io sono moderatamente contenti: adesso stiamo a vedere che cosa farà davvero. Ma David riesce a esprimere quello che sentivo anch’io: il nostro compito non è di stare a vedere, aspettare e giudicare: “Quello che farà Obama dipende anche da noi”. Dopo il successo elettorale, i progressisti americani si sono un po’ seduti. Ma domani David e un piccolo gruppo di attivisti andranno a manifestare coi cartelli a favore di nuove leggi ambientaliste. Sui marciapiedi di Telegraph Avenue, dove cominciò tutto nel ’64, mi fermano per chiedere una firma e qualche dollaro per la campagna a favore della riforma sanitaria. Non basteranno a muovere il mondo, ma per fortuna si muovono.
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