Il mio nome è Lucy
il manifesto 12.7.09
“Mi hanno chiamata Luciano.” E’ giusto che il titolo di questo piccolo libro scritto da Gabriella Romano, la storia in prima persona di una transessuale basata su una lunga serie di interviste, si intitoli Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale (Donzelli 2009, 93 pp., 16 Euro). Attorno al nome ruota una complessa storia di identità e di consapevolezza di sé. Riguardiamo quell’incipit: un participio al femminile introduce un nome maschile. E’ come se tutta la storia si collocasse in quella frattura di genere grammaticale. E riguardiamo quel titolo: da un nome maschile si estrae un diminutivo femminile. E’ quasi un peccato che la parola “transessuale” nel titolo ci anticipi l’argomento e disinneschi l’effetto straniante dell’attacco. Sul nome, infatti, Lucy ci lavora per tutta la vita. Lo cambia in Carmen quando lavora nelle strade notturne di Bologna in epoca fascista, poi di nuovo quando nel dopoguerra fa parte della coppia d’avanspettacolo Tamara e Tain, in Lucy quando trova una nuova vita e un nuovo lavoro a Torino. Ma conserva Luciano, che rimane il suo nome all’anagrafe. “Tanta gente mi chiede: ‘Come mai Luciano?’Dico, ‘Perché mi piace Luciano’. ‘Ma è un nome da uomo’. ‘Non m’interessa, mi piace Luciano’”. E spiega: “mi piace il mio nome, me l’hanno dato i miei genitori… io sono chi sono a prescindere dal nome che mi è stato dato alla nascita”. La contraddizione tra genere e nome è un problema degli altri, di quelli che credono in identità di genere stabili, univoche e rassicuranti; non è un problema suo.
Questo è importante: “non è un problema”. “Io sono chi sono.” Il lavoro sui nomi infatti non è un lavoro di cancellazione di identità rifiutate ma di esplorazione, di estensione di identità mutevoli ma in continuità fra loro. Lucy, a più di ottant’anni, racconta la sua vita senza vittimismi proprio perché questa vita è la sua. Racconta dei pedofili che l’hanno usata (anzi: usato. Il gioco dei pronomi è lineare: usa il maschile fino a che si considera omosessuale, passa al femminile da quando si riconosce transessuale) da bambino, poi delle strade in cui si prostituisce a Bologna, con una tranquillità straniante. Ricorda la socialità con i suoi compagni di vita (“frequentando queste persone sentivo che mi ci trovavo bene”), descrive i cinema, le trattorie, le strade di una Bologna invisibile e piena di vita quasi come una festa mobile – e poi ricorda le aggressioni, la repressione, i fascisti che umiliavano e massacravano omosessuali e transessuali, con fermezza e precisione ma senza abbandonarsi a lamenti. E quando poi dopo fughe e avventure finisce a Dachau (paradossalmente, non come omosessuale ma come disertore perché – come omosessuale – non sopportava la vita militare), anche il campo di sterminio è descritto senza retorica, così che risulta ancora più assurdo e violento nella sua concretezza.
Descrivendo il suo romanzo più importante e provocatorio, Native Son (Paura), il grande scrittore afroamericano Richard Wright diceva: volevo fare un libro su cui le figlie dei banchieri non si potessero commuovere. Ecco, il libro di Lucy e Gabriella Romano non tollera la facile compassione che mette una distanza fra chi racconta e chi legge, ma sfida il lettore a ridefinirsi in rapporto con una storia che problematizza i confini, e quindi l’identità di tutti. E ogni volta strania le aspettative.
Due esempi per finire. Il padre di Luciano è, più che antifascista, un a-fascista che comunque finisce al confino. Ma in famiglia lui e i suoi altri figli maschi possono essere altrettanto violenti e discriminatori (se ne deve andare, dicono i fratelli, perché se no la gente pensa che siamo “come lui”): certi atteggiamenti non li possiamo esorcizzare chiamandoli solo “fascisti”. Uno si aspetterebbe, allora, che Lucy respingesse questa famiglia, e certo è costretta a cercarsi una vita altrove. Però quando si trova a Dachau il suo primo pensiero è che non rivedrà più la sua famiglia; e una ragione per cui tiene a chiamarsi ufficialmente Luciano è che quel nome gliel’hanno dato i suoi genitori. Ed è lei, non i suoi fratelli, ad assistere la madre negli ultimi anni di vita. Anche qui, insomma, siamo sul confine, fra ideologia e atteggiamenti di genere, fra affetto e rifiuto.
Infine, in età relativamente avanzata, Lucy decide di operarsi e cambiare di sesso. E anche qui, una sorpresa straniante: uno si aspetterebbe una specie di lieto fine, una ricomposizione finalmente raggiunta dell’identità. E invece no: dopo l’operazione, Lucy scopre che è stato ucciso il desiderio. “E’ stato un grosso, irreparabile sbaglio. Perché nella vita, oltre al sesso e all’amore, che cosa c’è? Non esiste altro.”
“Voglio essere sepolta vestita da uomo”: un giro di vita in più in questi continui passaggi di confine. E la ragione è infine nella coscienza di un’identità che comunque non si è mai spezzata, nella ricerca di una ricomposizione affettiva con l’altra figura femminile della sua vita: “Siccome mia madre mi ha fatto così, voglio tornare alla terra come lei mi ha fatta [e guardate il gioco dei generi grammaticali!], è una forma di rispetto nei suoi confronti, lei mi ha accettato, o almeno ha fatto un grande sforzo per accettarmi e io, alla fine della vita, ritornerò da lei come mi avrebbe voluto.”
“Mi hanno chiamata Luciano.” E’ giusto che il titolo di questo piccolo libro scritto da Gabriella Romano, la storia in prima persona di una transessuale basata su una lunga serie di interviste, si intitoli Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale (Donzelli 2009, 93 pp., 16 Euro). Attorno al nome ruota una complessa storia di identità e di consapevolezza di sé. Riguardiamo quell’incipit: un participio al femminile introduce un nome maschile. E’ come se tutta la storia si collocasse in quella frattura di genere grammaticale. E riguardiamo quel titolo: da un nome maschile si estrae un diminutivo femminile. E’ quasi un peccato che la parola “transessuale” nel titolo ci anticipi l’argomento e disinneschi l’effetto straniante dell’attacco. Sul nome, infatti, Lucy ci lavora per tutta la vita. Lo cambia in Carmen quando lavora nelle strade notturne di Bologna in epoca fascista, poi di nuovo quando nel dopoguerra fa parte della coppia d’avanspettacolo Tamara e Tain, in Lucy quando trova una nuova vita e un nuovo lavoro a Torino. Ma conserva Luciano, che rimane il suo nome all’anagrafe. “Tanta gente mi chiede: ‘Come mai Luciano?’Dico, ‘Perché mi piace Luciano’. ‘Ma è un nome da uomo’. ‘Non m’interessa, mi piace Luciano’”. E spiega: “mi piace il mio nome, me l’hanno dato i miei genitori… io sono chi sono a prescindere dal nome che mi è stato dato alla nascita”. La contraddizione tra genere e nome è un problema degli altri, di quelli che credono in identità di genere stabili, univoche e rassicuranti; non è un problema suo.
Questo è importante: “non è un problema”. “Io sono chi sono.” Il lavoro sui nomi infatti non è un lavoro di cancellazione di identità rifiutate ma di esplorazione, di estensione di identità mutevoli ma in continuità fra loro. Lucy, a più di ottant’anni, racconta la sua vita senza vittimismi proprio perché questa vita è la sua. Racconta dei pedofili che l’hanno usata (anzi: usato. Il gioco dei pronomi è lineare: usa il maschile fino a che si considera omosessuale, passa al femminile da quando si riconosce transessuale) da bambino, poi delle strade in cui si prostituisce a Bologna, con una tranquillità straniante. Ricorda la socialità con i suoi compagni di vita (“frequentando queste persone sentivo che mi ci trovavo bene”), descrive i cinema, le trattorie, le strade di una Bologna invisibile e piena di vita quasi come una festa mobile – e poi ricorda le aggressioni, la repressione, i fascisti che umiliavano e massacravano omosessuali e transessuali, con fermezza e precisione ma senza abbandonarsi a lamenti. E quando poi dopo fughe e avventure finisce a Dachau (paradossalmente, non come omosessuale ma come disertore perché – come omosessuale – non sopportava la vita militare), anche il campo di sterminio è descritto senza retorica, così che risulta ancora più assurdo e violento nella sua concretezza.
Descrivendo il suo romanzo più importante e provocatorio, Native Son (Paura), il grande scrittore afroamericano Richard Wright diceva: volevo fare un libro su cui le figlie dei banchieri non si potessero commuovere. Ecco, il libro di Lucy e Gabriella Romano non tollera la facile compassione che mette una distanza fra chi racconta e chi legge, ma sfida il lettore a ridefinirsi in rapporto con una storia che problematizza i confini, e quindi l’identità di tutti. E ogni volta strania le aspettative.
Due esempi per finire. Il padre di Luciano è, più che antifascista, un a-fascista che comunque finisce al confino. Ma in famiglia lui e i suoi altri figli maschi possono essere altrettanto violenti e discriminatori (se ne deve andare, dicono i fratelli, perché se no la gente pensa che siamo “come lui”): certi atteggiamenti non li possiamo esorcizzare chiamandoli solo “fascisti”. Uno si aspetterebbe, allora, che Lucy respingesse questa famiglia, e certo è costretta a cercarsi una vita altrove. Però quando si trova a Dachau il suo primo pensiero è che non rivedrà più la sua famiglia; e una ragione per cui tiene a chiamarsi ufficialmente Luciano è che quel nome gliel’hanno dato i suoi genitori. Ed è lei, non i suoi fratelli, ad assistere la madre negli ultimi anni di vita. Anche qui, insomma, siamo sul confine, fra ideologia e atteggiamenti di genere, fra affetto e rifiuto.
Infine, in età relativamente avanzata, Lucy decide di operarsi e cambiare di sesso. E anche qui, una sorpresa straniante: uno si aspetterebbe una specie di lieto fine, una ricomposizione finalmente raggiunta dell’identità. E invece no: dopo l’operazione, Lucy scopre che è stato ucciso il desiderio. “E’ stato un grosso, irreparabile sbaglio. Perché nella vita, oltre al sesso e all’amore, che cosa c’è? Non esiste altro.”
“Voglio essere sepolta vestita da uomo”: un giro di vita in più in questi continui passaggi di confine. E la ragione è infine nella coscienza di un’identità che comunque non si è mai spezzata, nella ricerca di una ricomposizione affettiva con l’altra figura femminile della sua vita: “Siccome mia madre mi ha fatto così, voglio tornare alla terra come lei mi ha fatta [e guardate il gioco dei generi grammaticali!], è una forma di rispetto nei suoi confronti, lei mi ha accettato, o almeno ha fatto un grande sforzo per accettarmi e io, alla fine della vita, ritornerò da lei come mi avrebbe voluto.”
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