22 gennaio 2009

Obama e la ri-fondazione dell'America

il manifesto 22.1.09

All’inizio di Invisible Man, il grande romanzo di Ralph Ellison del 1952, il protagonista – un giovane afroamericano – riceve dal nonno sul letto di morte un ambiguo messaggio: «Voglio che li soffochi a forza di dirgli di sì, che li mitragli di sorrisi, che li porti a morte e distruzione a forza di consensi, che ti lasci ingoiare da loro fino a farli vomitare o scoppiare».. «Overcome them with yesses»: un consenso che distrugge, l’espressione radicale dell’ironia del blues. Ma dire di sì a che cosa, soffocare e far scoppiare, overcome chi, che cosa? Invisible Man si può leggere come la sequenza dei tentativi del protagonista per interpretare e praticare questo messaggio; e la conclusione è che dire di sì ai valori dichiarati dell’America sarà il gesto che distruggerà il dominio di coloro che li hanno traditi: “Forse voleva dire, anzi senz’altro voleva dire, che dovevamo accettare il principio sul quale il paese si fondava … che dovevamo assumerci noi la responsabilità di tutto… . perché eravamo noi gli eredi e … proprio noi, tra tutti, noi più di tutti, dovevamo affermare il principio in nome del quale eravamo stati brutalizzati e sacrificati”.
Sono parole che tornano alla mente nel momento in cui il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti – non direttamente discendente di schiavi ma comunque caricato di quella storia – riecheggia l’idea ellisoniana di “responsabilità” nel suo discorso inaugurale, e rinvia proprio a quei principi fondativi traditi e distrutti da un potere che in loro nome ha seminato morte, distruzione, povertà e ingiustizia. Nei suoi momenti più difficili, afferma Obama, “l’America è andata avanti … perché noi, il popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e ai loro documenti di fondazione”. E adesso si tratta di ricominciare da capo, di “rifare” l’America per realizzare “la promessa che viene da Dio, che tutti sono uguali, tutti sono liberi, e tutti hanno il diritto alla possibilità di cercare la piena misura della loro felicità”.
Sono parole anche consumate, che sono servite a dire e fare il contrario – in nome di queste parole gli afroamericani sono stati, appunto, “brutalizzati e sacrificati”, l’Irak e il Vietnam invasi e bombardati. Ed è per questo, dicono Ellison e Obama, che quando le riprendono in mano proprio gli oppressi, gli emarginati e i loro eredi – quelli che non erano contati come esseri umani, che non erano liberi e che non avevano diritto a sogni di felicità - ridiventano parole, se non rivoluzionarie come due secoli e mezzo fa, certo aperte al cambiamento e alla speranza.
Non mancano momenti di perplessità, ascoltando Obama: per esempio, quando chiama ancora “guerra” la lotta al terrorismo, o quando insieme con la guerra d’indipendenza, la guerra civile, la seconda guerra mondiale aggiunge anche il ben più problematico Vietnam. Quando ribadisce che la promessa democratica della fondazione americana è una promessa di origine divina, può dare fastidio a noi laici. Ma proprio per questo uno dei passi più importanti mi sembra quello in cui dice che l’America è un paese di cristiani e mussulmani, ebrei e indù – e di non credenti. In questo paese dove il presidente che lo ha preceduto parlava direttamente con Dio, affermare in un momento così solenne che anche chi non è crede è un cittadino come gli altri non è uno scherzo.
Ma il discorso di Obama sta dentro una grande tradizione americana: quella per cui il cambiamento si annuncia sempre come una forma di continuità, in cui la critica all’America esistente è fatta in nome di un’America ideale incarnata nelle sue doppie origini – la migrazione puritana e la rivoluzione nazionale democratica. Sono entrambe origini di rottura, che – come ha scritto Sacvan Bercovitch - legittimano il dissenso facendone una forma più alta di consenso (il”sì” sovversivo dell’uomo invisibile di Ellison, il “sogno” di Martin Luther King “profondamente radicato nel sogno americano”…). In un certo senso, la storia americana ha una forma a spirale: a ogni crisi ritorna all’inizio, ma su un piano diverso, riaffermando in nome del cambiamento la missione originaria: è un impulso a recuperare i principi senza metterli in questione, a rivendicare una rivoluzione fondante per dire che un’altra rivoluzione non è necessaria perché l’identità nazionale è comunque un processo continuo di cambiamento.
Una spia di questa modalità è il fatto che nel suo discorso Barack Obama non dice mai (salvo alla fine) “Stati Uniti”, ma sempre America. Come scrive ancora Sacvan Bercovitch, non sono la stessa cosa: gli Stati Uniti sono una realtà empirica, con un territorio, delle istituzioni, dei confini, l’”America” è un’idea che non conosce limiti e che si riempie di contenuti vaghi, incerti e anche contraddittori. A seconda di che vuol dire, “America” può essere un progetto di responsabilità e convivenza democratica, o una minaccia di prevaricazione e dominio, in nome delle stesse parole (“enduring freedom”) e degli stessi valori. E che cosa significherà “America” da ora in avanti dipenderà certo in buona misura da Barack Obama, ma molto anche dal significato che a questa idea attribuiranno i suoi stessi cittadini. E la discussione è cominciata, implicitamente ma in profondità, nel corso stesso del cerimoniale di insediamento.
Il discorso di Barack Obama termina con la formula “God Bless the United States of America”, Dio benedica gli Stati Uniti d’America, una sia pure rituale rivendicazione del rapporto speciale fra l’America e Dio. Ma il giorno prima, davanti alla statua di Lincoln e alla spianata dei monumenti, Pete Seeger e Bruce Springsteen hanno cantato, e fatto cantare a un milione di persone “This Land is my Land”, la canzone che Woody Guthrie scrisse, negli anni ’40, proprio per esprimere rabbia e dissenso verso i sentimenti patriottardi della canzone “God Bless America” di Irving Berlin. E vale la pena di soffermarsi su questo momento, e sul suo dialogo con il discorso presidenziale del giorno dopo.
Spero abbiamo visto in molti il momento emozionante in cui il vecchio Pete Seeger, che dagli anni ’30 a oggi è stato la voce e l’ispirazione del folk revival democratico e militante, passava il testimone a un rocker come Bruce Springsteen: sta a lui, e alla sua musica, oggi parlare dell’America. Negli anni ’50, Pete Seeger era stato in lista nera per la sua vicinanza al partito comunista: che fosse uno dei perseguitati di allora a sancire il nuovo ciclo alla Casa Bianca (con una canzone scritta da un altro comunista) era commovente. Tanto più che, come abbiamo visto, Pete Seeeger non si è pentito per niente.
A sua volta, fin dall’inizio della sua carriera Bruce Springsteen ha avuto chiaro che il rock, musica giovane del momento presente, del futuro e del nuovo, ha anche un passato, uno spessore di storia e di memoria. Gran parte della sua musica è stata un richiamo ai principi fondatori del rock and roll. Pensiamo alla sua ormai classica “Thunder Road” (1975): Mary esce sul portico con l’abito bianco mosso dal vento, e sullo sfondo c’è Roy Orbison che “canta per chi è solo”, citazione di un disco di 15 anni prima, che per il rock sono ere geologiche; in più, il titolo veniva da un film (e da una canzone) di Robert Mitchum del 1958, ambientato fra i minatori di Harlan. Se Roy Orbison cantava per i “lonely”, fin da allora Bruce Springsteen – come scrisse allora un critico – cantava per tutti i giovani ribelli che avevano smesso di essere giovani ma non di essere ribelli. E figuratevi quanto è vero questo per il quasi novantenne Pete Seeger, sugli scalini del Lincoln Center, a cantare quasi settant’anni dopo una canzone che imparò quando aveva vent’anni.
“This Land Is Your Land”, questa terra è la tua terra, è diventata una specie di inno patriottico, insegnata ai bambini e sfigurata dalla pubblicità, un elogio della vastità e della bellezza di un’America ideale di foreste, campi di grano, cieli e strade aperte. Ma non è tutta qui. Ispirato dal New Deal e infuriato da “God Bless America”, Woody Guthrie popola quest’America ideale con la presenza sofferta degli Stati Uniti reali. Sono strofe dimenticate e censurate (ma Bruce Springsteen le cantò in concerto già nei primi anni ’80), strofe cancellate, che evocavano la crisi degli anni ’30 e che raccontano la crisi di oggi: “nelle piazze delle mie città ho visto la mia gente fare la fila per il sussidio, e mentre loro stavano lì affamati io pensavo, quanto vorrei che questa terra fosse fatta per te e per me”. E che dichiaravano dove stava la causa: “c’era un gran muro che cercava di fermarmi, e sopra c’era scritto proprietà privata – ma dall’altra parte non c’era scritto niente”.
L’altro giorno, a Washington, Pete Seeger e Bruce Springsteen l’hanno cantata, e l’hanno fatta cantare, tutta intera a un milione di persone. Inaugurare un presidente americano con una canzone contro la proprietà privata (che poi diventa pure una metafora della ricchezza di carta con niente dietro che stava all’origine della crisi del ’29 come di quella del 2008) non è uno scherzo. E allora dire “questa terra è la mia terra” non significa solo adesione sentimentale: significa dire che uno può amare il proprio paese, e dire che deve cambiare (e l’aveva già detto, senza farsi capire allora, Bruce Springsteen con “Born in the USA”).
Ma il cambiamento di cui parlano Guthrie, Springsteen e Seeger va oltre le formule dei padri fondatori. Per chi è stata fatta questa terra? Che significa questa bandiera? Chi siamo, “you and me”, chi è il “we” dello “yes we can” e del “we the people”? E questo USA dove siamo nati, questa America benedetta, che cosa è e che cosa vogliamo che sia? Tutta la storia della musica popolare, della canzone di protesta, e del rock and roll, ha posto queste domande al nuovo presidente. Che qualcosa ha detto: ha riconosciuto le difficoltà materiali di tanti americani, in cerca di sussidi come nella canzone di Woody Guthrie; ha preso atto della necessità di dare una regolata al mercato, di ricostruire l’immagine internazionale degli Stati Uniti, di restituire un ruolo alle istituzioni pubbliche. Possono essere passi sulla lunga strada proclamata da Woody Guthrie. Se lo saranno, e quanto si andrà lontano, più che da Barack Obama dipenderà da “you and me”.

1 Comments:

Blogger fabio r. said...

bellissimo pezzo professore (mi vanto di chiamarla ancora così sebbene siano passati secoli dalla mia presenza alle Sue straordinarie lezioni alla Sapienza...), una sintesi perfetta - come sempre - di quei sentimenti che molti di noi volevamo esprimere.
Anch'io ho provato molto modestamente ad analizzare l'insediamento di Obama nel mio blog (Einbahnstrasse)pescando tra i ricordi delle Sue parole, rileggendomi Il testo e la voce, cercando di rintracciare quei fili dell'oralità USA che Lei ci insegnò a ritrovare nella letteratura.

Springsteen e Pete Seger che cantano insieme Woodie Guthrie poi sono stati un colpo al cuore, anche per chi - come il sottoscritto - è praticamente vissuto a cavallo tra Thunder Road e la E street..

complimenti ancora e grazie per i Suoi articoli.

Fabio ronci ( un ex studente appassionato..)

7:54 PM  

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