ACCIAI SPECIALI. TERNI, LA THYSSENKRUPP, LA GLOBALIZZAZIONE
Due recensioni dal manifesto, 4.12.2008
Sapere OPERAIO - STORIA E STORIE DALLA CITTÀ-FABBRICA
Con «Acciai speciali», Alessandro Portelli propone, vent'anni dopo «Biografia di una città», una nuova storia corale di Terni. Passioni, rabbie e conflitti che intrecciano dimensione locale e globalizzazione
Michele Nani
«E quando ho ricevuto la notizia che il mio collega non ce l'aveva fatta stavo giù a Napoli. In un primo momento me ne scappai dentro la camera da letto vicino alla foto di mio padre e incominciai a piangere. E ti giuro, vederti un mozzicone di otto anni che ti viene vicino e te dice, Papà non piangere, se hai la possibilità fagliela pagare a 'sti crucchi di merda - è un bambino, significa che ha già capito tutto della vita». La dolorosa testimonianza di un lavoratore della ThyssenKrupp di Torino evoca le parole di O cara moglie (la canzone di Ivan della Mea del 1968) o quelle coeve di una lettera di Rodari a Bollati («i bambini non vivono in un "mini-mondo", ovvero stanza dei giocattoli, ma nello stesso mondo degli adulti ... e il mondo degli adulti il bambino lo vede e lo giudica»). Assieme a decine di altre, la testimonianza di Giovanni Pignalosa va a comporre lo straordinario mosaico di Acciai speciali, l'ultimo libro di Alessandro Portelli (Donzelli, pp. 229, euro 25). Con l'idea di aggiornare, vent'anni dopo e migliaia di posti di lavoro in meno, Biografia di una città (Einaudi 1985), la storia corale di Terni basata sulle fonti orali, Portelli è tornato in Umbria a raccogliere interviste nel fuoco delle lotte del 2004-2005. La città aveva mostrato le stesse reazioni del 1952-1953: la rabbia operaia e la solidarietà comunitaria avevano risposto all'annuncio di un migliaio di licenziamenti, proprio come a quello dei tremila di mezzo secolo prima. Se storia e cronaca del conflitto sembrano confondersi, restano tuttavia indelebili le differenze: prima fra tutte il senso della storia e della continuità. Il «socialismo» e la «vittoria» finale sono scomparsi e con essi l'idea stessa di un futuro utopico ma possibile. La classe operaia ternana è stata ridimensionata, scomposta dalla quota crescente di lavoro appaltato a ditte esterne, faticosamente ricomposta da nuove ondate generazionali, più scolarizzate e più precarie, che spesso vivono la fabbrica come blocco della mobilità sociale e perdita di status. L'immagine «deprezzata» dell'operaio - per servirci dell'espressione di un altro intervistato - non traduce tanto la riduzione quantitativa del lavoro manuale o un'offensiva mediatica di antico sapore classista, ma un mutamento dei rapporti di forza nella società. Queste trasformazioni rimandano anche all'allontanamento della politica e della «alta» cultura dai mondi operai, dalla scelta di non rappresentarli o dalla difficoltà di trovare le forme per imporne la voce nella sfera pubblica: che accompagna e approfondisce la disaffezione operaia per la politica, drammaticamente assente nelle interviste ternane.Le rotture non vanno tuttavia enfatizzate e Portelli mostra con maestria come le stesse culture giovanili siano contaminate da tratti della «storia profonda» della città e della cultura di fabbrica: il collettivo antifascista «Brigata Cimarelli», l'antagonismo antitedesco che recupera la memoria resistenziale e perfino gli studenti, figli di operai italiani e rumeni, che improvvisano una sassaiola in stazione una volta appreso dell'arrivo dei rappresentanti dell'azienda. Resta soprattutto il «sublime operaio», come lo definisce acutamente Portelli: la coscienza dell'immenso potere di trasformazione che risiede nelle mani dei lavoratori, base della produzione dei beni e del loro valore, che si sposa alla coscienza di una doppia espropriazione, lo sfruttamento economico e l'esclusione dalle decisioni fondamentali. Persino l'abbinata fra calcio e conflitto sociale, una costante ternana, riemerge in forme imprevedibili: una delegazione di fabbrica entra in campo e ritarda l'avvio della partita, accolta dalla curva rossoverde con slogan che si penserebbero desueti («il potere dev'essere operaio»); poi, quando il parlamento europeo si riunisce per valutare il comportamento della ThyssenKrupp, un «movimento spontaneo operaio», nell'autodefinizione dei giovani lavoratori che lo costituiscono, organizza un pullman per presenziare alla seduta e dinanzi al rifiuto delle autorità locali lo paga per metà con una colletta, mentre l'altra metà è offerta dalla Ternana.Un anno dopo la reazione del 2004, la vicenda si chiude con un secondo affondo dell'impresa, che sancisce la fine del reparto di eccellenza dell'acciaio «magnetico», con salvaguardia dei livelli occupazionali e stabilizzazione di parte dei contrattisti: una strategia calibrata, che divide non solo la politica locale e i sindacati, ma anche gli stessi lavoratori. Del gioco della multinazionale fa parte anche la successiva chiusura degli impianti torinesi, con trasferimento temporaneo di alcune decine di operai a Terni e disinteresse per le norme di sicurezza in una produzione a termine che fa ampio ricorso agli straordinari per coprire i buchi di organico: con gli esiti tristemente noti del dicembre 2007. I rischi sono presenti anche a Terni, dove due operai che lavorano in appalto trovano la morte negli stessi anni, una pletora di infortuni scandisce i tempi della produzione e dopo l'amianto incombono le malattie professionali da polveri.La storia di Acciai speciali non è quella di un piccolo pezzo di mondo, ma l'intreccio locale di tante storie ben più larghe e profonde. La storia della «globalizzazione», con la direzione d'impresa unita e sostenuta da governi e istituzioni, e gli operai divisi, non solo da Terni a Torino, e fra Italia e Germania (nonostante i comitati d'impresa a livello europeo, peraltro qui menzionati di sfuggita solo da un sindacalista), ma fino in India, Brasile e Stati Uniti. La storia dell'autoritarismo delle multinazionali, che stipulano accordi per prendere tempo e li sconfessano una volta esaurita la fase calda della lotta: un potere che funziona solo a distanza, che fugge scortato dalla polizia dinanzi all'assedio operaio (dalle porte secondarie dell'albergo ternano come da quelle della sacrestia ai funerali torinesi) e che vive patologicamente il conflitto (a un responsabile delle risorse umane in India sconsigliano di visitare gli stabilimenti di Terni: «Arrivi con le tue gambe, ma non è detto che con le tue gambe te ne vai»). La storia delle privatizzazioni, viste per trent'anni come rimedio a tutti i mali e, soprattutto, promosse dai governi senza alcuna garanzia sociale o indirizzo. La storia delle difficoltà sindacali e del riflusso dopo i compromessi, vissuti come sconfitta e tradimento, fino alla sfiducia dei lavoratori nelle possibilità stesse di una democrazia sui luoghi di lavoro, per la doppia impotenza, dei sindacati di fronte alle imprese e dei lavoratori di fronte al sindacato. Eppure, in un contesto così difficile, dobbiamo essere grati a Portelli e ai suoi interlocutori, perché hanno saputo raccontarci anche la storia del sempre nuovo «crogiolo» rappresentato dalle lotte sociali, al di là e contro tutti i luoghi comuni sui giovani, sugli operai e sugli immigrati.
MEMORIE
Frammenti di classe nelle voci dei protagonisti
Loris Campetti
Una cosa che gli imprenditori e tanti politici, per quanto si sforzino, proprio non riescono a capire è la cultura operaia - meglio, le culture operaie, diverse, frantumate, ma unite da valori condivisi. Pensano che ci sia una sostanziale equivalenza tra lavoro e salario, per cui sarebbe sufficiente garantire un reddito per risolvere il problema determinato da una crisi industriale, o da un processo di riorganizzazione globalizzata. Se così fosse, basterebbe spostare un operaio da un posto all'altro, o tenerlo a casa in cassa integrazione. Le cose però stanno diversamente: se per chi vive fuori da un gigante d'acciaio, il lavoro è solo un'appendice della macchina, pura variabile dipendente del meccanismo di accumulazione, per l'operaio siderurgico il lavoro è insieme maledizione e condizione vitale. Non identificazione, perché la fabbrica è un mostro che inghiotte braccia e cervelli, pur non riuscendo a cancellare la domanda di senso di quel che si fa, né ad annullare la volontà di farlo nel modo migliore, a costo di mettersi in gioco per difendere la dignità o persino la vita. Fabbrica è insieme lavoro, territorio, soggettività, bisogni e vissuti diversi. Può essere più doloroso perdere il lavoro che il salario, se ci si ostina a pensare oltre che a sé e all'immediato, anche al futuro, ai figli e ai compagni più giovani, alla struttura sociale e culturale in cui il lavoro si esercita.L'ultimo libro di Alessandro Portelli, Acciai speciali, è il migliore aiuto per capire qualcosa della complessità di questa condizione. È dalla stagione lontana delle inchieste operaie che non si ritrova tanto rigore nell'indagare su un frammento di classe, senza la pretesa di suggerire a ogni intervista «la» chiave di lettura. La linea, si diceva un tempo. In Acciai speciali troverete le parole, le passioni, la rabbia degli operai, l'orgoglio di chi pensa che l'unica battaglia persa sia quella che non si è combattuta. Il luogo è Terni, città fabbrica ancor più di Torino. Chi dà voce ai protagonisti (che sono insieme operai, ultras, innamorati, magari cocainomani, italiani o rumeni ma comunque ternani) resta sempre nascosto dietro le quinte. Solo alla terzultima pagina Portelli si concede la parola: «Uno come me, che ha sempre lavorato con l'immaterialità delle parole, non può evitare di sentirsi un po' intimidito di fronte alla concretezza dell'acciaio e dei suoi saperi. Tanto più che fin dai miei primi incontri con la cultura operaia mi sono accorto che quelli che danno forma all'acciaio sanno quasi sempre dare forma anche alle parole».La storia dell'acciaieria di Terni è lunga decenni, la memoria dei padri è trasmessa ai figli e ai nipoti, le microstorie si contraddicono e si accavallano, lotta dopo lotta. Scioperi, occupazioni, presidi ai cancelli, blocchi stadali e ferroviari per difendere, insieme ai posti di lavoro, i saperi, la cultura degli individui e della città che ha per simbolo la pressa della prima acciaieria, una icona e un monumento nella piazza della stazione. L'ultima battaglia per salvare il magnetico dal padrone tedesco che vuole ridislocare le produzioni migliori là dove lavoro e diritti valgono ancora meno che a Terni o a Torino, ha ricostruito i legami della città, in una rinata solidarietà con i suoi operai, che rifiutano la svalorizzazione del lavoro. Una battaglia più persa che vinta, quando le solidarietà nella città e nella fabbrica si allentano. Il magnetico se ne va, il lavoro resta ma svuotato, l'Italia acquisterà dall'estero quello stesso prodotto. Operai maleducati rispetto ai padri, con slogan più da stadio che da fabbrica, orgogliosi, persino campanilisti. Un bene comune per una città di provincia che non voglia perdersi.Di lavoro, a Terni come a Torino, si vive e si muore. Ma a Terni si muore più che nelle acciaierie tedesche dello stesso padrone ThyssenKrupp. E ancora di più si muore a Torino. La battaglia degli operai umbri viene scavalcata dal dramma consumato a Torino, sette operai bruciati in nome del profitto. Nelle tasche e nei computer dei dirigenti del gigante tedesco sono state trovate le carte che spiegano come loro intendono la sicurezza: massima a casa, in Germania, appena accettabile a Terni dove l'acciaieria si impoverisce con la perdita del magnetico, quasi nulla a Torino perché di quella fabbrica è stata decretata la fine e non si buttano soldi per garantire la sicurezza in uno stabilimento morente. Neanche gli estintori funzionavano e sette operai sono stati uccisi, insieme alla fabbrica, alla tredicesima ora di lavoro perché lassù erano rimasti in pochi, gli altri licenziati con buonuscita, cassintegrati, trasferiti a Terni. La strage nel libro di Portelli è vista e raccontata da Terni, fa riflettere, fa piangere e incazzare come ai funerali delle vittime, dove si buttano giù per le scale della chiesa le corone del padrone. Si ricostruiscono i nessi di una globalizzazione che frantuma e mercifica il ciclo produttivo e le persone. Portelli vola in India e nel mondo per scoprire questi nessi nel racconto dei protagonisti. Il processo a sei dirigenti della multinazionale tedesca sta per iniziare. L'accusa è inedita: omicidio volontario con dolo eventuale, erano cioè a conoscenza dei rischi che facevano correre ai loro dipendenti, ma ritenevano più importante salvaguardare i profitti del padrone che le vite di chi li rendeva possibili. Ma questa è cronaca. La storia è quella che Portelli fa raccontare ai lavoratori.
Sapere OPERAIO - STORIA E STORIE DALLA CITTÀ-FABBRICA
Con «Acciai speciali», Alessandro Portelli propone, vent'anni dopo «Biografia di una città», una nuova storia corale di Terni. Passioni, rabbie e conflitti che intrecciano dimensione locale e globalizzazione
Michele Nani
«E quando ho ricevuto la notizia che il mio collega non ce l'aveva fatta stavo giù a Napoli. In un primo momento me ne scappai dentro la camera da letto vicino alla foto di mio padre e incominciai a piangere. E ti giuro, vederti un mozzicone di otto anni che ti viene vicino e te dice, Papà non piangere, se hai la possibilità fagliela pagare a 'sti crucchi di merda - è un bambino, significa che ha già capito tutto della vita». La dolorosa testimonianza di un lavoratore della ThyssenKrupp di Torino evoca le parole di O cara moglie (la canzone di Ivan della Mea del 1968) o quelle coeve di una lettera di Rodari a Bollati («i bambini non vivono in un "mini-mondo", ovvero stanza dei giocattoli, ma nello stesso mondo degli adulti ... e il mondo degli adulti il bambino lo vede e lo giudica»). Assieme a decine di altre, la testimonianza di Giovanni Pignalosa va a comporre lo straordinario mosaico di Acciai speciali, l'ultimo libro di Alessandro Portelli (Donzelli, pp. 229, euro 25). Con l'idea di aggiornare, vent'anni dopo e migliaia di posti di lavoro in meno, Biografia di una città (Einaudi 1985), la storia corale di Terni basata sulle fonti orali, Portelli è tornato in Umbria a raccogliere interviste nel fuoco delle lotte del 2004-2005. La città aveva mostrato le stesse reazioni del 1952-1953: la rabbia operaia e la solidarietà comunitaria avevano risposto all'annuncio di un migliaio di licenziamenti, proprio come a quello dei tremila di mezzo secolo prima. Se storia e cronaca del conflitto sembrano confondersi, restano tuttavia indelebili le differenze: prima fra tutte il senso della storia e della continuità. Il «socialismo» e la «vittoria» finale sono scomparsi e con essi l'idea stessa di un futuro utopico ma possibile. La classe operaia ternana è stata ridimensionata, scomposta dalla quota crescente di lavoro appaltato a ditte esterne, faticosamente ricomposta da nuove ondate generazionali, più scolarizzate e più precarie, che spesso vivono la fabbrica come blocco della mobilità sociale e perdita di status. L'immagine «deprezzata» dell'operaio - per servirci dell'espressione di un altro intervistato - non traduce tanto la riduzione quantitativa del lavoro manuale o un'offensiva mediatica di antico sapore classista, ma un mutamento dei rapporti di forza nella società. Queste trasformazioni rimandano anche all'allontanamento della politica e della «alta» cultura dai mondi operai, dalla scelta di non rappresentarli o dalla difficoltà di trovare le forme per imporne la voce nella sfera pubblica: che accompagna e approfondisce la disaffezione operaia per la politica, drammaticamente assente nelle interviste ternane.Le rotture non vanno tuttavia enfatizzate e Portelli mostra con maestria come le stesse culture giovanili siano contaminate da tratti della «storia profonda» della città e della cultura di fabbrica: il collettivo antifascista «Brigata Cimarelli», l'antagonismo antitedesco che recupera la memoria resistenziale e perfino gli studenti, figli di operai italiani e rumeni, che improvvisano una sassaiola in stazione una volta appreso dell'arrivo dei rappresentanti dell'azienda. Resta soprattutto il «sublime operaio», come lo definisce acutamente Portelli: la coscienza dell'immenso potere di trasformazione che risiede nelle mani dei lavoratori, base della produzione dei beni e del loro valore, che si sposa alla coscienza di una doppia espropriazione, lo sfruttamento economico e l'esclusione dalle decisioni fondamentali. Persino l'abbinata fra calcio e conflitto sociale, una costante ternana, riemerge in forme imprevedibili: una delegazione di fabbrica entra in campo e ritarda l'avvio della partita, accolta dalla curva rossoverde con slogan che si penserebbero desueti («il potere dev'essere operaio»); poi, quando il parlamento europeo si riunisce per valutare il comportamento della ThyssenKrupp, un «movimento spontaneo operaio», nell'autodefinizione dei giovani lavoratori che lo costituiscono, organizza un pullman per presenziare alla seduta e dinanzi al rifiuto delle autorità locali lo paga per metà con una colletta, mentre l'altra metà è offerta dalla Ternana.Un anno dopo la reazione del 2004, la vicenda si chiude con un secondo affondo dell'impresa, che sancisce la fine del reparto di eccellenza dell'acciaio «magnetico», con salvaguardia dei livelli occupazionali e stabilizzazione di parte dei contrattisti: una strategia calibrata, che divide non solo la politica locale e i sindacati, ma anche gli stessi lavoratori. Del gioco della multinazionale fa parte anche la successiva chiusura degli impianti torinesi, con trasferimento temporaneo di alcune decine di operai a Terni e disinteresse per le norme di sicurezza in una produzione a termine che fa ampio ricorso agli straordinari per coprire i buchi di organico: con gli esiti tristemente noti del dicembre 2007. I rischi sono presenti anche a Terni, dove due operai che lavorano in appalto trovano la morte negli stessi anni, una pletora di infortuni scandisce i tempi della produzione e dopo l'amianto incombono le malattie professionali da polveri.La storia di Acciai speciali non è quella di un piccolo pezzo di mondo, ma l'intreccio locale di tante storie ben più larghe e profonde. La storia della «globalizzazione», con la direzione d'impresa unita e sostenuta da governi e istituzioni, e gli operai divisi, non solo da Terni a Torino, e fra Italia e Germania (nonostante i comitati d'impresa a livello europeo, peraltro qui menzionati di sfuggita solo da un sindacalista), ma fino in India, Brasile e Stati Uniti. La storia dell'autoritarismo delle multinazionali, che stipulano accordi per prendere tempo e li sconfessano una volta esaurita la fase calda della lotta: un potere che funziona solo a distanza, che fugge scortato dalla polizia dinanzi all'assedio operaio (dalle porte secondarie dell'albergo ternano come da quelle della sacrestia ai funerali torinesi) e che vive patologicamente il conflitto (a un responsabile delle risorse umane in India sconsigliano di visitare gli stabilimenti di Terni: «Arrivi con le tue gambe, ma non è detto che con le tue gambe te ne vai»). La storia delle privatizzazioni, viste per trent'anni come rimedio a tutti i mali e, soprattutto, promosse dai governi senza alcuna garanzia sociale o indirizzo. La storia delle difficoltà sindacali e del riflusso dopo i compromessi, vissuti come sconfitta e tradimento, fino alla sfiducia dei lavoratori nelle possibilità stesse di una democrazia sui luoghi di lavoro, per la doppia impotenza, dei sindacati di fronte alle imprese e dei lavoratori di fronte al sindacato. Eppure, in un contesto così difficile, dobbiamo essere grati a Portelli e ai suoi interlocutori, perché hanno saputo raccontarci anche la storia del sempre nuovo «crogiolo» rappresentato dalle lotte sociali, al di là e contro tutti i luoghi comuni sui giovani, sugli operai e sugli immigrati.
MEMORIE
Frammenti di classe nelle voci dei protagonisti
Loris Campetti
Una cosa che gli imprenditori e tanti politici, per quanto si sforzino, proprio non riescono a capire è la cultura operaia - meglio, le culture operaie, diverse, frantumate, ma unite da valori condivisi. Pensano che ci sia una sostanziale equivalenza tra lavoro e salario, per cui sarebbe sufficiente garantire un reddito per risolvere il problema determinato da una crisi industriale, o da un processo di riorganizzazione globalizzata. Se così fosse, basterebbe spostare un operaio da un posto all'altro, o tenerlo a casa in cassa integrazione. Le cose però stanno diversamente: se per chi vive fuori da un gigante d'acciaio, il lavoro è solo un'appendice della macchina, pura variabile dipendente del meccanismo di accumulazione, per l'operaio siderurgico il lavoro è insieme maledizione e condizione vitale. Non identificazione, perché la fabbrica è un mostro che inghiotte braccia e cervelli, pur non riuscendo a cancellare la domanda di senso di quel che si fa, né ad annullare la volontà di farlo nel modo migliore, a costo di mettersi in gioco per difendere la dignità o persino la vita. Fabbrica è insieme lavoro, territorio, soggettività, bisogni e vissuti diversi. Può essere più doloroso perdere il lavoro che il salario, se ci si ostina a pensare oltre che a sé e all'immediato, anche al futuro, ai figli e ai compagni più giovani, alla struttura sociale e culturale in cui il lavoro si esercita.L'ultimo libro di Alessandro Portelli, Acciai speciali, è il migliore aiuto per capire qualcosa della complessità di questa condizione. È dalla stagione lontana delle inchieste operaie che non si ritrova tanto rigore nell'indagare su un frammento di classe, senza la pretesa di suggerire a ogni intervista «la» chiave di lettura. La linea, si diceva un tempo. In Acciai speciali troverete le parole, le passioni, la rabbia degli operai, l'orgoglio di chi pensa che l'unica battaglia persa sia quella che non si è combattuta. Il luogo è Terni, città fabbrica ancor più di Torino. Chi dà voce ai protagonisti (che sono insieme operai, ultras, innamorati, magari cocainomani, italiani o rumeni ma comunque ternani) resta sempre nascosto dietro le quinte. Solo alla terzultima pagina Portelli si concede la parola: «Uno come me, che ha sempre lavorato con l'immaterialità delle parole, non può evitare di sentirsi un po' intimidito di fronte alla concretezza dell'acciaio e dei suoi saperi. Tanto più che fin dai miei primi incontri con la cultura operaia mi sono accorto che quelli che danno forma all'acciaio sanno quasi sempre dare forma anche alle parole».La storia dell'acciaieria di Terni è lunga decenni, la memoria dei padri è trasmessa ai figli e ai nipoti, le microstorie si contraddicono e si accavallano, lotta dopo lotta. Scioperi, occupazioni, presidi ai cancelli, blocchi stadali e ferroviari per difendere, insieme ai posti di lavoro, i saperi, la cultura degli individui e della città che ha per simbolo la pressa della prima acciaieria, una icona e un monumento nella piazza della stazione. L'ultima battaglia per salvare il magnetico dal padrone tedesco che vuole ridislocare le produzioni migliori là dove lavoro e diritti valgono ancora meno che a Terni o a Torino, ha ricostruito i legami della città, in una rinata solidarietà con i suoi operai, che rifiutano la svalorizzazione del lavoro. Una battaglia più persa che vinta, quando le solidarietà nella città e nella fabbrica si allentano. Il magnetico se ne va, il lavoro resta ma svuotato, l'Italia acquisterà dall'estero quello stesso prodotto. Operai maleducati rispetto ai padri, con slogan più da stadio che da fabbrica, orgogliosi, persino campanilisti. Un bene comune per una città di provincia che non voglia perdersi.Di lavoro, a Terni come a Torino, si vive e si muore. Ma a Terni si muore più che nelle acciaierie tedesche dello stesso padrone ThyssenKrupp. E ancora di più si muore a Torino. La battaglia degli operai umbri viene scavalcata dal dramma consumato a Torino, sette operai bruciati in nome del profitto. Nelle tasche e nei computer dei dirigenti del gigante tedesco sono state trovate le carte che spiegano come loro intendono la sicurezza: massima a casa, in Germania, appena accettabile a Terni dove l'acciaieria si impoverisce con la perdita del magnetico, quasi nulla a Torino perché di quella fabbrica è stata decretata la fine e non si buttano soldi per garantire la sicurezza in uno stabilimento morente. Neanche gli estintori funzionavano e sette operai sono stati uccisi, insieme alla fabbrica, alla tredicesima ora di lavoro perché lassù erano rimasti in pochi, gli altri licenziati con buonuscita, cassintegrati, trasferiti a Terni. La strage nel libro di Portelli è vista e raccontata da Terni, fa riflettere, fa piangere e incazzare come ai funerali delle vittime, dove si buttano giù per le scale della chiesa le corone del padrone. Si ricostruiscono i nessi di una globalizzazione che frantuma e mercifica il ciclo produttivo e le persone. Portelli vola in India e nel mondo per scoprire questi nessi nel racconto dei protagonisti. Il processo a sei dirigenti della multinazionale tedesca sta per iniziare. L'accusa è inedita: omicidio volontario con dolo eventuale, erano cioè a conoscenza dei rischi che facevano correre ai loro dipendenti, ma ritenevano più importante salvaguardare i profitti del padrone che le vite di chi li rendeva possibili. Ma questa è cronaca. La storia è quella che Portelli fa raccontare ai lavoratori.
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