15 maggio 2014

Un pizzino per Peppino Impastato

Quando Timisoara Pinto e Andrea Satta mi hanno chiesto di essere na delle cento persone che accettavano di scrivere, in memoria dei “cento passi” un “pizzino” di cento parole su Peppino Impastato, ucciso dalla mafia e dalle coperture e depistaggi delle istituzioni, ho pensato subito a un delitto con molti colpevoli. E mi è venuta in mente una popolarissima filastrocca infantile inglese – Who killed Cock Robin? Chi ha ucciso il Pettirosso? "Io, disse il passero, con l’arco e le frecce… chi l’ha visto morire? Chi ha raccolto il sangue?" E così via. Il poeta americano Norman Rosten ne fece una poesia sulla morte di Marilyn Monroe – Who killed Norma Jean? Io, disse la città, come un dovere civico… io, disse la notte… io disse il fan… Pete Seeger l’ha messa in musica e ne ha fatto una canzone indimenticabile – che forse ha contribuito a ispirare Bob Dylan quando ha scritto, sulla morte di un pugile ucciso sul ring, Who killed Davey Moore? Non io, disse l’arbitro… non io, disse la folla, non io, disse il manager… Così, mi sono chiesto: Chi ha ucciso Peppino Impastato? Io, disse la Mafia, padrona della paura e del silenzio. Chi ha ucciso Peppino Impastato? Io, disse il Paese, voltandosi per non vedere, non sentire, non parlare Chi ha ucciso Peppino Impastato? Io, dissero i Preti, regalando santini cantando novene per gli uccisi e per gli assassini Chi ha ucciso Peppino Impastato? Io, disse lo Stato, falsando le prove inventando attentati, insabbiando processi spargendo menzogne Chi ha ucciso Peppino Impastato? Io, dissero i Media, che voci libere non sopportano e ignorano Dov'è adesso Peppino Impastato? Nel vuoto che resta, nel dolore che non finisce.

09 maggio 2014

Kabir, un poeta contro le barrier: incontro con Shabnam Virmani

il manifesto 9 maggio 2014 Ho incontrato Shabnam Virmani a Bangalore, dove lavora a un progetto di film e musica su Kabir, poeta e mistico indiano vissuto fra il ‘400 e il ‘500. La sua poesia è ancora conosciuta e cantata in tradizione orale in India e in Pakistan, come guida alla ricerca di una spiritualità oltre le barriere, i dogmi, le religioni rivelate e le identità ossificate. I film di Shabnam mi avevano commosso; poi l’ho sentita in concerto, e mi ha profondamente coinvolto. Col Circolo Gianni Bosio e Apollo 11 siamo riusciti a portarla in Italia. “Sono nata in Punjab”, racconta. “ Ho vissuto un po’ dappertutto, ho lavorato molti anni in Guajarat col movimento delle donne rurali, usando il video e la radio per documentare le loro lotte e cercando di creare insieme progetti video di comunità. Ho lavorato anche con le cosiddette caste inferiori, i dalit, perciò molto del mio lavoro è stato accanto a gruppi di sinistra, socialisti. Nel 2002 ci furono gli scontri fra hindu e musulmani in Gujarat” - più di tremila morti, la maggior parte musulmani massacrati da nazionalisti hindu. “Io abitavo ad Ahmedabad, e c’è una poesia di Kabir che dice: guarda, il mondo è impazzito; dici la verità e ti picchiano, dici una menzogna e ti sorridono. Io non ho un retroterra spirituale, la famiglia non mi ha trasmesso nessuna tendenza religiosa, ho avuto un’istruzione molto occidentalizzata. Ma la voce di Kabir mi ha parlato in quel momento. Molta della sua poesia parla del pregiudizio, delle divisioni religiose, della follia umana. Così cominciai a leggere Kabir. Avevo sempre amato la musica, la poesia, ed ero pronta ad accogliere una visione spirituale. Sentivo che, da sola, la visione militante, politica, lasciava un vuoto. Io pensavo di usare la poesia di Kabir per il cambiamento sociale, ma lui mi poneva domande filosofiche più profonde. E una parte di me che non conoscevo cominciò a sentirsi nutrita. Non mi ero mai accorta di questo vuoto finché non ha cominciato a riempirsi. Tramite Kabir, cominciai a scoprire anche i linguaggi popolari dell’India: fu una grande gioia. Se sei una bambina di città e vai a scuole inglesi, non ha il senso del rasa – il sapore, il succo delle cose. Non hai quell’esperienza della lingua. Così, ricevere la poesia di Kabir nei dialetti in cui è cantata – in Madhya Pradesh, nell’India centrale, nel Nord, in Rajastan, in Guajarat – mi ha ridato il rapporto con le mie radici linguistiche. E’ stata una gioia. Non mi rendevo conto che c’era un vuoto in me che aspettava di essere riempito – dissetato, fertilizzato. Non ti rendi conto di quanto è arida una parte di te finché non riceve l’acqua di cui ha bisogno. Così sono cominciati questi viaggi – ricercando l’espressione musicale della poesia di Kabir, cercando di capire che cosa significa per tanta gente una voce di tanti secoli fa che continua a scorrere in tanti modi diversi.”, Il film che vediamo venerdì segue l’idea Kabir insegna ad andare oltre la forma e il contorno delle cose, verso un assoluto senza confini che ci unifica tutti. “Gli storici dicono che Kabir è nato in una famiglia musulmana, forse neoconvertita, a Benares, Uttar Pradesh. Così lui rappresenta la confluenza di molteplici influenze religiose. La sua poesia è ricca di immagini dello hatah yoga – il corpo interiore, i chakra… E’ insieme critica sociale e corpo interiore, uno sguardo verso l’interiorità e verso l’esterno. Kabit rifiuta risolutamente di essere identificato come musulmano o come hinduista. Si rivolge continuamente a Ram, che è una divinità induista, ma usa molto linguaggio sufi, urdu, islamico. Ti insegna a ricercare il luogo da dove viene il tuo senso di appartenenza e di identità - e a bruciarlo.” Un momento intensissimo del film è il passaggio del confine militarizzato fra India e Pakistan – un passaggio anche simbolico. “E’ stato interessante personalmente perché le mie radici sono in Pakistan, i miei genitori vengono dal Pakistan e sono venuti da questa parte quando l’India è stata divisa dal Pakistan. E politicamente: perché è difficile passare quel confine, ed è un po’ come entrare dentro un’alterità demonizzata – e demonizzante. E’ stato emozionante trovare in Pakistan lo spirito di tante cose che ci sono care in India. E’ stato un viaggio poetico, una metafora: passare il confine e scoprire Kabir lì, nel cuore dei cantori sufi in Pakistan. Gli islamisti ortodossi non vogliono avere niente a che fare con Kabir; ma tanti cantori sufi lo amano, lo sentono come una delle loro voci, come Hafez o come Rumi”. Anche l’opera di Rumi - poeta persiano del ‘200, fondatore dei dervisci rotanti - come quella di Kabir, è poesia, pensiero religioso, e canto. “Quando ho cominciato questi viaggi alla ricerca di Kabir, ho cominciato a sentirmi invasa dalla musica, a sentire l’impulso di poggiare la macchina da presa e prendere in mano la tambura. A volte, siccome filmo tutto personalmente, la macchina da presa mi faceva sentire estranea, separata. Un distico di Kabir dice: il rosso del mio amore-gioiello è così rosso che ovunque guardo vedo quel colore; sono uscito alla ricerca di quel rosso e lo sono diventato io stesso. E’ la scomparsa della divisione fra osservato e osservatore. Sei vuoi capire quello che cerchi, lo devi diventare tu stesso. La macchina da presa è una tecnologia meravigliosa, e continuo a usarla, ma avevo bisogno di sovvertire la distanza creata dalla macchina. Rifiuto l’approccio documentaristico che consiste nel prendere le distanze tra me e la realtà che filmo: io sono lì con la macchina da presa, perciò divento parte di quella realtà e la cambio per il fatto stesso che sono lì. Questa interazione, questa comunicazione che crei con gli altri è il cuore del documentario; è il dialogo.” Le dico che c’è un un attore indiano conosciuto in Italia ( l’immagine televisiva di Sandokan): e si chiama Kabir. “Non sapevo che Kabir Bedi avesse rapporti con l’Italia. Kabir è un nome molto diffuso in India. Se uno vuole indicare che è al disopra delle identità religiose, se uno è anche vagamente progressista o di sinistra, mette nome Kabir ai figli. O le coppie miste: se un musulmano sposa una hindu o viceversa, il figlio lo chiamano Kabir. Perché vuol dire che non esistono barriere”. Venerdì 9 aprile al Piccolo Apollo (via di Conte Verde – angolo via Nino Bixio) l’Associazione Piccolo Apollo e il Circolo Gianni Bosio presentano “Tra Roma e l’India – in film, poesia e musica”. Alle 19, proiezione del film Had-Anhad (Bound – Unbound) di Shabnam Virmani: un viaggio nella musica popolare seguendo la musica e la poesia di Kabir, poeta del XV secolo, il cui ricordo è ancora vivissimo nella cultura dell’India e del Pakistan. Had-Anhad ha ottenuto il Primo Premio allo One Billion Eyes Documentary Film Festival di Chennai nell’agosto 2008 e il Silver Trophy come miglior Film Non-Fiction dell’Indian Documentary Producers' Association Awards nel 2009. Alle 21,30, Shabnam Virmani (voce e tambura) in concerto, accompagnata da Vipul Rikhi (voce, tambura, percussioni). Apriranno il concerto Sushmita Sultana e Nasser Dhafar, musicisti migranti che lavorano a Roma, rispettivamente dal Bangla Desh e dell’Iran. L’iniziativa ha il sostegno della Regione Lazio, del gruppo consiliare Per il Lazio e di India-Europea-Foundation for New Dialogues, ********************************************************

La resistenza: ricordare per dimenticare?

Patria Indipendente - aprile 2014 Ho ritrovato giorni fa una vecchia registrazione nell’archivio sonoro del Circolo Gianni Bosio. Era una sequenza di parodie di canzonette che risaliva ai palcoscenici dell’avanspettacolo nell’immediato dopoguerra, e infatti su un artista di avanspettacolo a cantarcela nel quartiere di San Lorenzo, sull’aria do “La signora di trent’anni fa”, ovvero, “Nel 1919). Cominciava così: Nel 1922 Ce fu un governo, ‘n m’aricordo come / Ce fu ‘na marcia, ‘n m'aricordo ‘n dove / Che fu chiamata – ‘n m’aricordo più. / Poi per vent’anni fummo sistemati / Da tante guère – n’m’aricordo più / Però alla fine fummo liberati / Però da chi – nun me lo ricordo più. / Ascoltata oggi, è una geniale provocazione sulla memoria. Da un lato, può essere un invito a dimenticare – “scurdammoce ‘o passato” , si cantava. Dall’altra, e così mi piace di pensarla adesso, può essere una feroce ironia verso chi dimentica il passato e quindi si prepara a ripeterlo (la parodia continuava dicendo che ricorda solo che “era un governo nero, e invece adesso è nero” – nel senso di clericale: “s’hanno allungata la camicia nera”, cantava un poeta proletario di Genzano, negli stessi anni). Uno striscione esposto da un gruppo neofascista davanti a una scuola di Aprilia il giorno della memoria diceva: “Ricordati di non ricordare”; ed è proprio questa ingiunzione all’oblio, questo ostinato ripetere “non ricordo più”, a ribadire che certe memoria non si possono né evocare né cancellare a comando. O forse, la canzone può voler dire qualcosa di ancora più complesso: sulla Resistenza, fin da allora, convivono memoria e oblio; la Resistenza è al tempo stesso l’evento più ricordato e più dimenticato della nostra storia recente. Negli anni ’50, viene cancellata dalla memoria ufficiale (chi, come me, ha fatto tutte le scuole in quel tempo, non l’ha mai sentita nominare, se non per esorcizzarla) e contemporaneamente bandiera della sinistra e del movimento operaio. Poi, negli anni ’70, trasformata in rito istituzionale, più commemorata che ricordata; e subito, come reazione, lo slogan militante “la Resistenza è rossa e non democristiana” che, nel rivendicare la funzione di rottura e di sguardo al futuro della Resistenza (l’aspetto “guerra di classe” di cui parla Pavone) dimenticava tante altre realtà e altre dimensioni (la “guerra patriottica”, la “guerra antifascista”). La tensione di memoria e oblio sulla Resistenza culmina in quel memorabile 25 aprile del 1994. Per la prima volta in Europa, era al potere un partito che si richiamava esplicitamente al fascismo (l’allora Movimento Sociale Italiano), in coalizione con altre forze che si dichiaravano esplicitamente estranee al patto democratico fondato sulla Resistenza, come Forza Italia e la Lega Nord. “Si potrebbe…” intitolava allora il manifesto – si potrebbe cogliere il 25 aprile per una forte affermazione di un non dimenticato antifascismo; e in quel giorno di pioggia furono centinaia di migliaia a sfilare per le strade di Milano. Nei vent’anni che sono passati da allora, la Resistenza ha ritrovato la sua funzione di conflitto, di ribellione: la Resistenza era ancora attuale, presente e provocatoria proprio perché il nuovo potere continuava ostinatamente a volerla dimenticare. Tanto è vero che persino Silvio Berlusconi ha dovuto finire per travestirsi da partigiano fingendo di commemorare, tra le rovine di Onna, una Resistenza depurata di tutto quello che la rende viva. In fondo è un paradosso, ma è un dato della nostra storia e del nostro presente: il progetto della Resistenza è quello di unire l’Italia, ma ridiventa vivo ogni volta che c’è qualcuno a cui questo progetto di unità democratica dà fastidio. E dà fastidio perché è un’unità partecipata, non delegata – un aspetto della Resistenza che è dimenticato troppo spesso anche da soggetti che si dicono antifascisti. In questi anni, parlando coi partigiani e le partigiane, ascoltando le loro storie, ho che capito per tutte e tutti la Resistenza, armata o non armata, è stata una scelta personale confermata ogni giorno; nessuno gli ordinava di entrare nella Resistenza, nessuno gli ordinava di restarci; di ogni scelta, giusta o non giusta,ciascun resistente si è assunto personalmente la responsabilità, nessuno ha mai detto “obbedivo agli ordini”. La nuova Italia democratica nasce dopo l’8 settembre, quando - senza che nessuno glielo abbia ordinato - tanti cittadini, civili e militari, scelgono di opporsi ai carri armati e ai paracadutisti tedeschi, a Porta San Paolo come a Monterotondo. Nasce da qui il nostro prezioso articolo 1: “La sovranità appartiene al popolo che lo esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Sottolineo “che la esercita” proprio perché da un quarto di secolo la democratica repubblica partecipata nata dalla Resistenza è dimenticata in favore una repubblica “governabile” in cui la sovranità si esercita scegliendosi un capo e (come si diceva per Mussolini) “lasciandolo governare”, o (come si dice adesso) “aspettiamo di vedere che fa”. Ma non dovremmo essere noi – “il popolo sovrano" – a “fare”?