11 settembre: la politica della paura
manifesto\alias, 10.9.2011
Dopo l’11 settembre 2001, in una memorabile conversazione televisiva, due dei leader più in vista della destra religiosa americana individuarono con chiarezza i responsabili della tragedia: "Gran parte della responsabilità”, disse Jerry Falwell (predicatore fondamentalista, fondatore della Moral Majority), “ricade sulla American Civil Liberties Union [un’organizzazione legale progressista e laica]. Con l’aiuto del governo federale hanno buttato Dio fuori dallo spazio pubblico, dalle scuole. E la responsabilità è anche dei sostenitori dell’aborto, perché Dio non si lascia prendere in giro e quando distruggiamo quaranta milioni di bambini innocenti lo facciamo arrabbiare. Io addito i pagani e gli abortisti e i gay e le lesbiche, tutti quelli che cercano di secolarizzare l’America e gli dico, avete fatto voi in modo che questo accadesse”. Qualche giorno dopo, Falwell chiese scusa e ammise che i responsabili erano i terroristi. Il suo ospite Pat Robertson (televangelista carismatico, aspirante candidato repubblicano alle elezioni del 1998), che in TV aveva detto “sono completamente d’accordo”, prese anche lui le distanze. Ma, come dice Huckleberry Finn, erano parole dette, e restavano dette. E c’è sempre qualcuno che continua a dirle, tantissima gente disposta a crederle, media pronti ad amplificarle, politici pronti a cavalcarle.
Domenica 28 agosto 2011, dopo il terremoto che aveva colpito la costa orientale e mentre la tempesta Irene si avvicinava a New York, Michele Bachmann – esponente della destra religiosa, quotata aspiranti candidate repubblicane alle elezioni del 2012 – ha dichiarato: “Non so che altro deve fare Dio per farsi ascoltare dai politici. C’è stato un terremoto; c’è stato un uragano. Egli ha detto: mi volete a stare a sentire laggiù? Ascoltate il popolo americano, perché è infuriato. Il governo si fa sempre più obeso e dobbiamo mettere le redini alla spesa pubblica”. Anche Michelle Bachmann ha poi detto che scherzava (ma che razza di credente è una che prende così scherzosamente invano il nome di Dio, e fa battute sulle decine di morti?). Anche per certi politici americani sembra valere l’alibi inventato dai nostri: sparare cose tremende e poi dire “non prendetemi sul serio” e chiedere il voto.
La continuità fra Falwell e Bachmann suggerisce che a dieci anni di distanza uno dei segni lasciati dall’11 settembre è l’uso strumentale delle catastrofi e l’accentuarsi della paranoia fondamentalista: Michelle Bachmann era la più accreditata concorrente repubblicana di Barack Obama fino a una settimana fa, quando è stata scavalcata nei sondaggi da Rick Perry, governatore del Texas, e ancora più estremista bigotto di lei, convinto che il governo federale sia un complotto antiamericano - tutta gente che al confronto Sara Palin è la Montalcini, ma che per il seguito che ha va presa molto più sul serio dei pur preoccupanti Falwell e Robertson di dieci anni fa.
Infatti la sensazione di essere esposti a rischi e minacce senza nome e inspiegabili – atti di Dio, come la giurisprudenza americana definisce le catastrofi presunte naturali e le loro conseguenze – sì è insediata nello stato d’animo di tanti americani dopo quella drammatica giornata e ha continuato a scavare. Il rifiuto da parte delle istituzioni e dei media più popolari di ammettere che poteva esserci una qualche (criminosa) razionalità, una qualche (malintesa) radice storica nell’atto terroristico non ha fatto altro, fin dal primo momento, che accentuare il senso di impotenza, di vulnerabilità, di vittimismo – la paura, insomma, e la rabbia. A mano a mano che la guerra è diventata condizione ordinaria, al punto che Afganistan, Irak e persino ora la Libia sembrano svolgersi distrattamente su un altro pianeta senza conseguenze di cui i cittadini sembrino rendersi conto, l’asse di questo stato d’animo è venuto spostandosi dal quadro internazionale sempre più sul piano della politica interna – dove fin dall’inizio lo collocavano Falwell e Robertson e dove si incontra con una tradizione di sospetto e di rabbia che non è certo nata con l’11 settembre ma che da ne ha ricevuto un impulso formidabile.
Sia le teorie del complotto fiorite dopo l’11 settembre, sia le teorie “teocratiche” dei fondamentalisti, avevano in comune la difficoltà per l’immaginazione americana di immaginare una soggettività umana altra fuori dall’America. Per i primi, le disgrazie e le sconfitte possono essere solo determinate da cause interne (al tempo del maccartismo, non fu la Cina a diventare comunista, ma fummo “noi” che la “perdemmo” a causa del tradimento di politici venduti); per i secondi, dato il rapporto diretto dell’America con Dio, le catastrofi sono messaggi che la divinità invia al proprio popolo eletto per avvertirlo quando si sta allontanando dalla sua presunta missione (la rivolta indiana che nel 1676 per poco non ributtò a mare i coloni puritani fu interpretata come un monito per l’affievolirsi del fervore religioso dei fondatori). La tesi Falwell-Robertson combinava le due modalità: un monito sovrannaturale per un degrado morale causato da un complotto di soggetti umani interni all’America.
Dal 2008 in poi, la crisi economica si è presentata come un’altra catastrofe ancora più inspiegabile dell’11 settembre, causata da forze arcane e astratte (un memorabile verso di “The River” di Bruce Springsteen dà voce perfettamente a questa sensazione: da qualche tempo non c’è molto lavoro, dice, “a causa dell’economia”, e il suono stesso di quella polisillabica parola di etimologia aliena ne suggerisce l’inconoscibilità), senza neanche agenti umani concreti come quei terroristi inviati dall’Onnipotente (“a chi possiamo sparare?” dice in Furore di Steinbeck il contadino cacciato dalla sua terra confiscata anonimamente dalle banche – e lo stesso devono essersi dette le centinaia di migliaia di americani che le banche hanno inaspettatamente sbattuto ancora una volta sul lastrico per la crisi dei mutui).
L’elezione di Barack Obama ci ha messo la ciliegina: se la catastrofe economica era causata da un complotto, l’agente ideale era il “marxista”, “straniero” e (inconfessabilmente) nero che si era insediato alla Casa Bianca e incarnava perfettamente l’arcinemico di tutte le teorie americane del complotto: il governo federale che non ascolta il popolo, che salva le banche, non risolve il problema della disoccupazione, e impone arcane riforme “socialiste” (basta pensare a come la battuta di Sara Palin sui “comitati della morte” previsti dalla riforma sanitaria è diventata verità incontestabile per mezzo partito repubblicano nell’arco di pochi giorni). Nel momento in cui alla catastrofe economica si intrecciano i disastri naturali, ancora una volta la teoria del monito divino per le colpe dei traditori umani diventa la spiegazione più ovvia: .
In apparenza, tutto questo con l’11 settembre di dieci anni fa e con le sue conseguenze non c’entra niente. Gli elettori americani hanno bocciato nel 2008 i repubblicani che avevano risposto all’attentato con la guerra, e li hanno premiati nel 2010 dimenticandosi di quello che avevano fatto due anni prima, perché le guerre in corso e le loro conseguenze non sono più all’ordine del giorno, non sembrano più far parte dell’esperienza ordinaria della gente comune. Ma in realtà è stato l’11 settembre a legittimare e a rendere permanente il clima di pericolo imminente e lo stato di mobilitazione che si è incarnato nella militanza del Tea Party, nella vittoria repubblicana alle elezioni di medio-termine, e nell’ascesa di figure come Sara Palin, Michelle Bachmann, Ron Paul, Rick Perry.
Dopo l’altra grande crisi, quella del 1929, il presidente Franklin D. Roosevelt ammoniva: “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Dopo l’11 settembre il monito si è rovesciato: l’unica cosa che gran parte dell’America sa è di avere paura. Ma non sa di che, quindi di tutto. E’ una paira generalizzata e senza forma: “sta succedendo qualcosa qui, ma non sai che cos’è, vero, Mister Jones?”, cantava Bob Dylan. Mister Jones non lo sa, e proprio per questo è spaventato e si aggrappa a chi glielo spiega nel modo più semplice e assolutorio, Dio e i complotti. Gli errori e i disastri della destra (le menzogne, le guerre, i disastri economici) generano paure che la destra stesso alimenta a cavalca. A meno che noi non riusciamo a spostare l’asse del discorso. Barack Obama, dieci anni dopo, dà istruzioni perché l’anniversario non sia celebrato nel solito modo solipsistico e paranoico dei suoi predecessori, e il suo paese si accorga che l’11 settembre non è stato una tragedia solo americana, e che non è stato la sola tragedia della storia umana. Ma può essere troppo tardi.
Dopo l’11 settembre 2001, in una memorabile conversazione televisiva, due dei leader più in vista della destra religiosa americana individuarono con chiarezza i responsabili della tragedia: "Gran parte della responsabilità”, disse Jerry Falwell (predicatore fondamentalista, fondatore della Moral Majority), “ricade sulla American Civil Liberties Union [un’organizzazione legale progressista e laica]. Con l’aiuto del governo federale hanno buttato Dio fuori dallo spazio pubblico, dalle scuole. E la responsabilità è anche dei sostenitori dell’aborto, perché Dio non si lascia prendere in giro e quando distruggiamo quaranta milioni di bambini innocenti lo facciamo arrabbiare. Io addito i pagani e gli abortisti e i gay e le lesbiche, tutti quelli che cercano di secolarizzare l’America e gli dico, avete fatto voi in modo che questo accadesse”. Qualche giorno dopo, Falwell chiese scusa e ammise che i responsabili erano i terroristi. Il suo ospite Pat Robertson (televangelista carismatico, aspirante candidato repubblicano alle elezioni del 1998), che in TV aveva detto “sono completamente d’accordo”, prese anche lui le distanze. Ma, come dice Huckleberry Finn, erano parole dette, e restavano dette. E c’è sempre qualcuno che continua a dirle, tantissima gente disposta a crederle, media pronti ad amplificarle, politici pronti a cavalcarle.
Domenica 28 agosto 2011, dopo il terremoto che aveva colpito la costa orientale e mentre la tempesta Irene si avvicinava a New York, Michele Bachmann – esponente della destra religiosa, quotata aspiranti candidate repubblicane alle elezioni del 2012 – ha dichiarato: “Non so che altro deve fare Dio per farsi ascoltare dai politici. C’è stato un terremoto; c’è stato un uragano. Egli ha detto: mi volete a stare a sentire laggiù? Ascoltate il popolo americano, perché è infuriato. Il governo si fa sempre più obeso e dobbiamo mettere le redini alla spesa pubblica”. Anche Michelle Bachmann ha poi detto che scherzava (ma che razza di credente è una che prende così scherzosamente invano il nome di Dio, e fa battute sulle decine di morti?). Anche per certi politici americani sembra valere l’alibi inventato dai nostri: sparare cose tremende e poi dire “non prendetemi sul serio” e chiedere il voto.
La continuità fra Falwell e Bachmann suggerisce che a dieci anni di distanza uno dei segni lasciati dall’11 settembre è l’uso strumentale delle catastrofi e l’accentuarsi della paranoia fondamentalista: Michelle Bachmann era la più accreditata concorrente repubblicana di Barack Obama fino a una settimana fa, quando è stata scavalcata nei sondaggi da Rick Perry, governatore del Texas, e ancora più estremista bigotto di lei, convinto che il governo federale sia un complotto antiamericano - tutta gente che al confronto Sara Palin è la Montalcini, ma che per il seguito che ha va presa molto più sul serio dei pur preoccupanti Falwell e Robertson di dieci anni fa.
Infatti la sensazione di essere esposti a rischi e minacce senza nome e inspiegabili – atti di Dio, come la giurisprudenza americana definisce le catastrofi presunte naturali e le loro conseguenze – sì è insediata nello stato d’animo di tanti americani dopo quella drammatica giornata e ha continuato a scavare. Il rifiuto da parte delle istituzioni e dei media più popolari di ammettere che poteva esserci una qualche (criminosa) razionalità, una qualche (malintesa) radice storica nell’atto terroristico non ha fatto altro, fin dal primo momento, che accentuare il senso di impotenza, di vulnerabilità, di vittimismo – la paura, insomma, e la rabbia. A mano a mano che la guerra è diventata condizione ordinaria, al punto che Afganistan, Irak e persino ora la Libia sembrano svolgersi distrattamente su un altro pianeta senza conseguenze di cui i cittadini sembrino rendersi conto, l’asse di questo stato d’animo è venuto spostandosi dal quadro internazionale sempre più sul piano della politica interna – dove fin dall’inizio lo collocavano Falwell e Robertson e dove si incontra con una tradizione di sospetto e di rabbia che non è certo nata con l’11 settembre ma che da ne ha ricevuto un impulso formidabile.
Sia le teorie del complotto fiorite dopo l’11 settembre, sia le teorie “teocratiche” dei fondamentalisti, avevano in comune la difficoltà per l’immaginazione americana di immaginare una soggettività umana altra fuori dall’America. Per i primi, le disgrazie e le sconfitte possono essere solo determinate da cause interne (al tempo del maccartismo, non fu la Cina a diventare comunista, ma fummo “noi” che la “perdemmo” a causa del tradimento di politici venduti); per i secondi, dato il rapporto diretto dell’America con Dio, le catastrofi sono messaggi che la divinità invia al proprio popolo eletto per avvertirlo quando si sta allontanando dalla sua presunta missione (la rivolta indiana che nel 1676 per poco non ributtò a mare i coloni puritani fu interpretata come un monito per l’affievolirsi del fervore religioso dei fondatori). La tesi Falwell-Robertson combinava le due modalità: un monito sovrannaturale per un degrado morale causato da un complotto di soggetti umani interni all’America.
Dal 2008 in poi, la crisi economica si è presentata come un’altra catastrofe ancora più inspiegabile dell’11 settembre, causata da forze arcane e astratte (un memorabile verso di “The River” di Bruce Springsteen dà voce perfettamente a questa sensazione: da qualche tempo non c’è molto lavoro, dice, “a causa dell’economia”, e il suono stesso di quella polisillabica parola di etimologia aliena ne suggerisce l’inconoscibilità), senza neanche agenti umani concreti come quei terroristi inviati dall’Onnipotente (“a chi possiamo sparare?” dice in Furore di Steinbeck il contadino cacciato dalla sua terra confiscata anonimamente dalle banche – e lo stesso devono essersi dette le centinaia di migliaia di americani che le banche hanno inaspettatamente sbattuto ancora una volta sul lastrico per la crisi dei mutui).
L’elezione di Barack Obama ci ha messo la ciliegina: se la catastrofe economica era causata da un complotto, l’agente ideale era il “marxista”, “straniero” e (inconfessabilmente) nero che si era insediato alla Casa Bianca e incarnava perfettamente l’arcinemico di tutte le teorie americane del complotto: il governo federale che non ascolta il popolo, che salva le banche, non risolve il problema della disoccupazione, e impone arcane riforme “socialiste” (basta pensare a come la battuta di Sara Palin sui “comitati della morte” previsti dalla riforma sanitaria è diventata verità incontestabile per mezzo partito repubblicano nell’arco di pochi giorni). Nel momento in cui alla catastrofe economica si intrecciano i disastri naturali, ancora una volta la teoria del monito divino per le colpe dei traditori umani diventa la spiegazione più ovvia: .
In apparenza, tutto questo con l’11 settembre di dieci anni fa e con le sue conseguenze non c’entra niente. Gli elettori americani hanno bocciato nel 2008 i repubblicani che avevano risposto all’attentato con la guerra, e li hanno premiati nel 2010 dimenticandosi di quello che avevano fatto due anni prima, perché le guerre in corso e le loro conseguenze non sono più all’ordine del giorno, non sembrano più far parte dell’esperienza ordinaria della gente comune. Ma in realtà è stato l’11 settembre a legittimare e a rendere permanente il clima di pericolo imminente e lo stato di mobilitazione che si è incarnato nella militanza del Tea Party, nella vittoria repubblicana alle elezioni di medio-termine, e nell’ascesa di figure come Sara Palin, Michelle Bachmann, Ron Paul, Rick Perry.
Dopo l’altra grande crisi, quella del 1929, il presidente Franklin D. Roosevelt ammoniva: “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Dopo l’11 settembre il monito si è rovesciato: l’unica cosa che gran parte dell’America sa è di avere paura. Ma non sa di che, quindi di tutto. E’ una paira generalizzata e senza forma: “sta succedendo qualcosa qui, ma non sai che cos’è, vero, Mister Jones?”, cantava Bob Dylan. Mister Jones non lo sa, e proprio per questo è spaventato e si aggrappa a chi glielo spiega nel modo più semplice e assolutorio, Dio e i complotti. Gli errori e i disastri della destra (le menzogne, le guerre, i disastri economici) generano paure che la destra stesso alimenta a cavalca. A meno che noi non riusciamo a spostare l’asse del discorso. Barack Obama, dieci anni dopo, dà istruzioni perché l’anniversario non sia celebrato nel solito modo solipsistico e paranoico dei suoi predecessori, e il suo paese si accorga che l’11 settembre non è stato una tragedia solo americana, e che non è stato la sola tragedia della storia umana. Ma può essere troppo tardi.
4 Comments:
d'accordissimo con te
Questo tuo post mi e' stato segnalato da un tuo "former" studente di anni fa: vivo negli US dal 1993 e il clima che descrivi e' proprio quello che stiamo vivendo. Non solo, l'accanimento, l'odio con cui la destra (al 99.99% religiosa) si accanisce contro chi e' "di sinistra", e per loro anche il centro e' a sinistra della destra, contro chi e' anche solo minimamente liberale e progressista e' sintomo di una spaccatura cosi' profonda all'interno di questo paese che penso sara' difficile riparare, o ci vorranno molti anni e forse un atto divino!! E se Barack Obama, sempre e ancora alla ricerca del compromesso con i suoi detrattori, nonostante i tentativi di costruire il ponte per unire le 2 parti, non riesce nemmeno a farli stare seduti in attenzione durante i suoi discorsi, manco fossero bambini al kindergarten, ho proprio "paura" ci troveremo un presidente come Perry, un Bush imbottito di steroidi...
Vivo in una cittadina militare estrememante di destra e alle prossime elezioni non sono sicura di voler esporre il mio cartello "Obama/Biden" in giardino...
Ho scoperto questo tuo post solo ora, un po’ in ritardo, ma mi sono fermata lo stesso. Ho fatto diverse indagini sull’accaduto l’11 settembre e su come la notizie è stata pubblicata dai diversi giornali. Sono d’accordo con te, con quella politica della paura che mi sembra propria del medioevo.
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