Dopo la sentenze ThyssenKrupp: le emozioni e il potere
il manifesto 20.4.2011
Io il sindaco di Terni lo capisco pure: dopo decenni di rivoluzione neoliberista, non si sa dove trovare gli strumenti, i diritti, i contropoteri per opporsi a un padrone arrogante e criminale che, condannato per gli operai che ha ucciso, minaccia di vendicarsi punendo altri operai e una città intera. Mi pare anche plausibile che il sindacato si preoccupi che l’articolazione della pena (per esempio, il sequestro della linea 5 di Torino) possa incidere sulla produttività della fabbrica ternana ; e che, senza niente a cui appigliarsi, gli operai abbiano paura e possano pensare di barattare la propria sicurezza e la propria salute con la concessione padronale di un lavoro. Ma penso anche che sia responsabilità delle istituzioni democratiche, a partire dal sindaco, e di quelle forze progressiste che esistono o credono di esistere, non limitarsi a deprecare e preoccuparsi, ma impegnarsi a mettere in campo tutti gli strumenti immaginabili per impedire che questo avvenga. Se no, dopo avere dato ragione a Marchionne, come si fa a dire di no alla ThyssenKrupp?
La paradossale discussione che si è aperta dopo la sentenza di Torino è una specie di cartina di tornasole di tutti i temi aperti dalla contemporaneità. Non solo, come metteva bene in evidenza Loris Campetti Nell’editoriale di ieri sul manifesto, Loris Campetti metteva in evidenza la relazione fra la filosofia di onnipotenza aziendale rappresentata da Marchionne e il ricatto minacciato dalla ThysennKrupp: se non accettate che io risparmio sui diritti degli operai, prendo i miei giocarelli e me ne vado. Ma c’è molti di più: in questa discussione confluiscono un po’ tutti i temi caldi del momento che stiamo vivendo, non solo Mirafiori e Pomigliano d’Arco, ma anche la guerra fra Berlusconi e la magistratura, il disastro di Fukushima, persino l’unità d’Italia, e forse anche emi culturali più di fondo ancora.
Guardiamo la campagna di stampa immediatamente messa in moto dagli imputati condannati: era una sentenza già scritta, è stato un processo mediatico, i giudici si sono fatti trascinare dalle emozioni… Ormai è diventato quasi automatico, in Italia, se uno è condannato prendersela coi giudici – un po’ come, in quella cultura calcistica trapiantata da Berlusconi in politica, prendersela con l’arbitro se la partita va storta. Chiaro che le sentenze della magistratura si possono discutere, ma nell’autocrazia diffusa del neoliberismo è diventato un riflesso automatico quello di delegittimare chi pretende di farti rispettare le regole, e le regole stesse.
La delegittimazione non passa solo attraverso l’accusa ai giudici (e ai professori,e all’arbitro di Cesena-Milan) di essere “comunisti” o qualcosa del genere; usa anche strumenti pi9ù sottili. Uno di questi, anch’esso segnalato da Loris Campetti, è accusare i giudici di “emotività”. Guarda caso, questa è esattamente la stessa solfa che abbiamo sentito nella discussione sul nucleare subito dopo Fukushima: in quel caso, come adesso, prima provocano le stragi e poi accusano di emotività chi cerca di impedirgli di farlo ancora.
L’emozione è per definizione un tratto subalterno, un segno di inferiorità, attribuito al popolo, ai bambini, alle donne, agli animali … Assegnarla come tratto dominante ai magistrati significa dunque assimilarli a soggetti diminuiti, e quindi negargli autorevolezza e rispetto. Ma non c’è bisogno di disturbare teorie contemporanee della ragione e delle emozioni (per tutte: Antonio Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano) per sapere che non è così, che emozione e ragione non sono separabili, che una ragione senza emozioni non ha nulla di razionale: nel caso in discussione, come ragioniamo sul significato dell’uccisione una o sette persone, e del modo di quell’uccisione, senza tener conto del dolore che provoca in chi rimane – cioè in tutti, non solo nei familiari? O è solo questione di reddito cessante risarcibile a misura attuariale? Una signora mia amica in Kentucky, dopo un disastro ambientale, rispondeva al’avvocato aziendale che la accusava di “emotività”: aspetti di vedersi morire intorno tutti quelli che le sono cari e poi vedremo se non diventa emotivo anche lei.
In questo senso, trovo a suo modo divertente che il comunicato della Fiom di Terni accusi invece prorpio la TK di “procedere in modo emotivo penalizzando quanto di positivo è stato costruito sia sul piano industriale che sul piano sindacale” Come dire, siete incavolati per la sentenza e ve la prendete con noi senza ragionare sul senso e le conseguenze di quello che sta succedendo. Forse il potere oggi si gioca anche sul controllo di dove, come e perché è lecito emozionarsi: nessuno ci ha detto di non farci prendere dall’emotività dopo l’11 settembre. E quanta emotività d’accatto ci hanno riversato addosso sul caso Englaro? Anzi: noi audience televisiva, noi spettatori passivi, noi cittadini governabili, siamo continuamente chiamati a condividere, provare, trasmettere “ emozioni” - nella forma più banale, consumistica, transitoria – tanto poi quando si passa alle decisioni che contano e alle cose serie tutto torna nelle mani dei depositari della “ragione”. Perciò va detto forte: dopo Chernobyl, Fukushima, la ThyssenKrupp, e magari dopo i tanti bombardamenti umanitari di questi decenni, l’unica cosa razionale che si può fare è provare dolore e rabbia, e ragionarci sopra.
A proposito di emozioni: abbiamo appena passato un’ondata emotiva sul tema dell’unità d’Italia. Giustamente ribadita nei confronti di separatismi e localismi; ma non approfondita abbastanza da non andare in frantumi appena messa alla prova. A Torino, Chiamparino e Fassino elogiano la sentenza; a Terni, il sindaco commenta, “Se fossi sindaco di Torino forse avrei detto lo stesso. Ma sono sindaco di Terni”. Io avevo sempre avuto l’impressione che Terni e Torino facessero parte dello stesso paese, e che la forza politica che magari non rappresenta più gli operai ma vuole comunque i loro voti, e cui appartengono entrambi i sindaci, fosse la stessa in entrambi i luoghi, e avesse il compito di fornire una sintesi e una strategia che li tenesse insieme. E invece qui viene alla luce un elemento problematico che era già emerso dopo la tragedia alla ThyssenKrupp: la reazione spaventata di almeno una parte dei lavoratori ternani che pensavano di proteggere un proprio senso di sicurezza (più psicologico che reale: di morti, alla ThyssenKrupp di Terni, ce ne sono stati ancora, anche dopo) prendendo le distanze da Torino. Giustamente, la Fiom ternana scrive che i sindacati umbri “respingono il tentativo strumentale di contrapporre interessi diversi tra i lavoratori di Terni e di Torino, ricordiamo che sicurezza lavoro e dignità sono argomenti che unificano e non dividono”.
Martedì mattina, ho tirato in ballo la ThyssenKrupp in un dibattito in cui si doveva parlare d’altro, e un sindacalista della Uil (della Uil, non un irresponsabile estremista della Fiom) ha detto una cosa semplice: la sicurezza non può essere materia contrattuale, non può essere materia contrattabile. Ma come si fa a fare di questa affermazione di principio una pratica reale, se appena qualcuno lo afferma e ne trae le conseguenze ci affrettiamo a prendere le distanze? Ripeto, non me la sentirei di criticare gli operai che lo fanno: sono soli, il lavoro non è più un diritto costituzionale ma una merce sempre più rara (senza nessun bisogno di sentenze “emotive” della magistratura, nel ternano stanno chiudendo a raffica le aziende del settore tessile e del chimico, “stanno smantellando tutto” dice Lucia Rossi, segretaria della Camera del Lavoro), e quindi una merce che si compra per vivere anche a rischio della propria morte. Ma a loro fianco non ci dovrebbe essere una politica, uno stato, un quadro di istituzioni e di forze politiche capace di dire all’arroganza padronale che il loro ricatto non può passare? E se non c’è, perché?
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