05 maggio 2006

Revisioni da talk show

Mi diceva qualche anno fa Rosario Bentivegna, medico del lavoro, gappista romano, protagonista della battaglia di via Rasella: “Dopo la guerra, il partito disse sempre la verità su via Rasella e sulle Fosse Ardeatine; quello che non fece, fu di confutare le menzogne e le mistificazioni che erano state diffuse su quegli avvenimenti.” Le menzogne e le mistificazioni le sappiamo tutti: la falsa notizia secondo cui, dopo l’azione partigiana in Roma occupata in cui morirono 33 componenti di un battaglione di polizia aggregato alle SS, i tedeschi avrebbero messo cartelli per tutta Roma invitando i “colpevoli” a consegnarsi per evitare la rappresaglia. Sappiamo, o dovremmo sapere, che questa è pura invenzione: persino il generale Kesserling, interrogato in tribunale, disse che non ci avevano mai nemmeno pensato; la rappresaglia fu decisa subito, mai condizionata alla resa dei partigiani, e fu comunicata alla popolazione solo dopo che la strage era stata compiuta.

Una delle tante ragioni per ammirare Rosario Bentivegna è che, in assenza di una chiara risposta politica e storiografica a queste menzogne, da più di mezzo secolo si fa carico puntigliosamente di ristabilire la verità, di confutare le mistificazioni, e di difendersi e reagire in ogni sede (compresi i tribunali) alle demonizzazioni di cui lui e i suoi compagni sono stati oggetto.

È un lavoro di Sisifo, e ogni volta sembra che si deve ricominciare da capo. Stavolta, la falsificazione proviene dal gran cerimoniere dei riti televisivi, Bruno Vespa, che per qualche misteriosa ragione (o meglio: per ragioni di cassetta e per ragioni di manipolazione ideologica) ha deciso di improvvisarsi storico senza possedere neanche l’ombra dei requisiti minimi del mestiere – ma, direi, senza possedere neanche l’ombra di quella curiosità intellettuale e desiderio di verità che dovrebbe animare non solo lo storico, ma almeno il giornalista serio. Quando Nicola Gallerano parlava di “uso pubblico della storia” aveva in mente cose ben più serie che questi bestseller di quart’ordine.

Così, nella sua Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vespa racconta per l’ennesima la vulgata antipartigiana su via Rasella senza neanche prendersi la cura di informarsi sui fatti e di leggere la bibliografia aggiornata. Perciò, ai vari errori sulla ricostruzione dell’evento aggiunge la ripetizione della solita accusa a Bentivegna e compagni di non essersi presentati in risposta ai manifesti fatti affiggere dai nazisti che li invitavano a farlo. E anche stavolta, Bentivegna prende la penna in mano e, instancabile, cortese e chiarissimo, spiega, precisa, rettifica come ha fatto centinaia di volte nella sua vita. Comincia un carteggio, prima privato poi pubblico (anche sulle pagine dell’Unità) che adesso Bentivegna, con il consenso del suo interlocutore, ha trasformato in un libro: ViaRasella la storia mistificata. Carteggio con Bruno Vespa (manifestolibri, 2006, pp. 116, E. 15), con un’introduzione puntuta e puntuale di Sergio Luzzatto, un’ennesima ricostruzione fattuale di che cosa veramente successe e poi, irritante e soffocante, il dialogo mancato fra Bentivegna che spiega e Vespa che fa finta di non capire. O forse non fa finta per niente.

Sono anni che mi occupo di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, e ogni volta mi trovo davanti allo stesso meccanismo. È un po’ come la storia del lupo e dell’agnello: c’è una conclusione precostituita e, se un argomento per sostenerla viene meno (“mi intorbidi l’acqua”) se ne inventa un altro, più specioso ancora (“hai parlato male di me”) e poi un altro e un altro e un altro, all’infinito. Lo stesso vale per via Rasella, anche nel caso di Vespa: costretto ad ammettere che i manifesti non ci furono, si inventa che però i partigiani dovevano sapere che ci sarebbe stata la rappresaglia perché i nazisti avevano preavvertito (e non è vero neanche questo, e risulta dalle parole dello stesso Kappler), poi che i poveri poliziotti in uniforme nazista erano in realtà degli italiani padri di famiglia (come se vestire l’uniforme di un esercito occupante non fosse un’aggravante, per un italiano; e come se l’età media dei poliziotti del Bozen non fosse in realtà di 33 anni) e via arrampicandosi sugli specchi pur di non rinunciare all’unica cosa che gli interessa: negare il significato dell’azione partigiana e con essa di tutta la Resistenza. Per questo ha ragione Luzzatto quando parla di “dialogo fra sordi”. In realtà, Bentivegna ascolta e replica, ma dall’altra parte c’è un sordo che non vuole sentire.

Qui infatti non si tratta solo di banale revisionismo, ma dell’idea di una continuità storica in

nome dell’”odio” e della “guerra civile” che accomuna le leggi razziste, la guerra partigiana, gli anni di piombo e l’opposizione a Berlusconi dentro un unico paradigma: sia i partigiani che attaccavano militarmente i nazisti sia il centrosinistra che attacca politicamente Berlusconi sarebbero mossi dagli stessi impulsi. Chiaro che in questa continuità la Resistenza è una spezzatura: infangare la Resistenza, dunque, non serve solo a erodere ulteriormente l’eredità dell’antifascismo ma soprattutto a fare dell’opposizione a Berlusconi l’espressione di atavismi profondi e irrazionali, il “fiume carsico” (scrive Vespa) di una guerra civile ora esplosiva, ora strisciante. Come fa notare Luzzatto nell’introduzione, elencando i titoli delle annuali strenne di Vespa: “presi uno per uno, i titoli dei libri di Vespa scandiscono ogni voltga un presunto momento epocale, quando non suggeriscono un’emergenza nazionale o addirittura una crisi rivoluzionaria. Presi in serie, viceversa, essi alludono alla consolante evidenza per cui tutto cambia, più tutto è la stessa cosa…”

Alla fine, Vespa non sa più che pesci prendere, e si limita a ripetere che “l’attentato di via Rasella fu un gravissimo errore.” La risposta finale di Bentivegna è tagliente: “Credo nella sua buonafede,” concede, “ma il problema dei problemi è che lei ha dato una versione non corretta dei fatti, condita di insinuazioni e ambiguità, perché aveva orecchiato le consuete mistificazioni e le ha riportate senza la necessaria verifica”.

Intelligentemente, Bentivegna non si limita a rettificare la versione con corretta dei fatti, ma smaschera anche l’uso non corretto, strisciante, del linguaggio: contesta il termine “rappresaglia” applicato alle Fosse Ardeatine (e ha ragione, tecnicamente e giuridicamente: secondo il tribunale militare italiano, non si trattò di rappresaglia bensì di “omicidio continuato”), coglie le implicazioni retoriche di espressioni come il “gesto” che gli viene attribuito, come se non si fosse trattato di un’azione di guerra ma dell’alzata di capo di un isolato irresponsabile, smaschera il presupposto implicito secondo cui avrebbe dovuto “pentirsi” di quello che aveva fatto. E d’altra parte, l’intera modalità comunicativa di Vespa, dal linguaggio del corpo in TV alla retorica dei suoi libri, reca nel degrado del linguaggio il segno del danno profondo che arreca alla nostra cultura. In questo senso, il lavoro di Bentivegna non è solo l’ennesima doverosa puntualizzazione storica, ma anche un atto importante di resistenza, sia pure con la minuscola, allo strapotere egemonico del discorso televisivo: i libri di Vespa sono vangelo non perché siano attendibili ma perché il loro autore sta in TV. Qualche tempo fa, sulla metropolitana di Roma, c’era una ragazza sprofondata nella lettura di uno dei tomi di Vespa, con tanto di evidenziatore. Non sono riuscito a capire se quello che sottolineava fossero gli sfondoni del libro, o quelle che lei scambiava per storiche verità o perle di saggezza. Temo che sia buona la seconda. Il libro di Vespa sulla metropolitana è l’aggiornamento dei canali attraverso cui si è formato il senso comune antipartigiano su via Rasella: riviste da parrucchiere, pamphlet fascisti, dicerie incontrollate. Tutti canali troppo a lungo considerati al disotto dell’attenzione degli storici seri, e persino della politica seria; per questo, hanno potuto continuare a diffondersi per decenni, navigando sotto il radar della vigilanza culturale e del dibattito storiografico. Temo che Vespa sia la stessa cosa: troppo poco serio perché gli storici seri si prendano la briga di smontarlo pubblicamente come sarebbe loro dovere. Anzi, persino rispettabili istituzioni romane hanno ritenuto opportuno allestire presentazioni e dibattiti, come se questi libri fossero una cosa seria.

Per fortuna ci sono persone come Rosario Bentivegna. E per fortuna questo suo libro è accompagnato, stavolta, dall’intervento di uno storico serio che prende atto del rischio di una memoria storica affidata agli ignoranti e ai manipolatori. Quella fra Vespa e Bentivegna non è una battaglia ad armi pari, dato lo strapotere mediatico dell’uno e la sostanziale solitudine dell’altro. Sarebbe il caso di dare una mano a Bentivegna, perché qui non è in gioco solo la sua personale responsabilità, né la moralità della resistenza, ma proprio la nostra capacità di rapportarci criticamente alla storia e di usare responsabilmente il linguaggio. Scrive Luzzatto: “Lo scopo del gioco [di Vespa, ma – aggiungerei io, di tutto quello che lui rappresenta] è la banalizzazione retrospettiva dei valori e dei disvalori, dei meriti e delle bassezze, delle ragioni e dei torti. La durata del gioco resta da determinare; ma finché uomini come Rosario Bentivegna conserveranno la forza per opporvisi, uomini come Bruno Vespa faranno bene a non sentirsi la vittoria in tasca.”

da il manifesto, 25 aprile 2006

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