Revisioni da talk show
Mi diceva qualche anno fa
Una delle tante ragioni per ammirare
È un lavoro di Sisifo, e ogni volta sembra che si deve ricominciare da capo. Stavolta, la falsificazione proviene dal gran cerimoniere dei riti televisivi, Bruno Vespa, che per qualche misteriosa ragione (o meglio: per ragioni di cassetta e per ragioni di manipolazione ideologica) ha deciso di improvvisarsi storico senza possedere neanche l’ombra dei requisiti minimi del mestiere – ma, direi, senza possedere neanche l’ombra di quella curiosità intellettuale e desiderio di verità che dovrebbe animare non solo lo storico, ma almeno il giornalista serio. Quando Nicola Gallerano parlava di “uso pubblico della storia” aveva in mente cose ben più serie che questi bestseller di quart’ordine.
Così, nella sua Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vespa racconta per l’ennesima la vulgata antipartigiana su via Rasella senza neanche prendersi la cura di
Sono anni che mi occupo di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, e ogni volta mi trovo davanti allo stesso meccanismo. È un po’ come la storia del lupo e dell’agnello: c’è una conclusione precostituita e, se un argomento per sostenerla viene meno (“mi intorbidi l’acqua”) se ne inventa un altro, più specioso ancora (“hai parlato male di me”) e poi un altro e un altro e un altro, all’infinito. Lo stesso vale per via Rasella, anche nel caso di Vespa: costretto ad ammettere che i manifesti non ci furono, si inventa che però i partigiani dovevano sapere che ci sarebbe stata la rappresaglia perché i nazisti avevano preavvertito (e non è vero neanche questo, e risulta dalle parole dello stesso Kappler), poi che i poveri poliziotti in uniforme nazista erano in realtà degli italiani padri di famiglia (come se vestire l’uniforme di un esercito occupante non fosse un’aggravante, per un italiano; e come se l’età media dei poliziotti del Bozen non fosse in realtà di 33 anni) e via arrampicandosi sugli specchi pur di non rinunciare all’unica cosa che gli interessa: negare il significato dell’azione partigiana e con essa di tutta
Qui infatti non si tratta solo di banale revisionismo, ma dell’idea di una continuità storica in
nome dell’”odio” e della “guerra civile” che accomuna le leggi razziste, la guerra partigiana, gli anni di piombo e l’opposizione a Berlusconi dentro un unico paradigma: sia i partigiani che attaccavano militarmente i nazisti sia il centrosinistra che attacca politicamente Berlusconi sarebbero mossi dagli stessi impulsi. Chiaro che in questa continuità la Resistenza è una spezzatura: infangare la Resistenza, dunque, non serve solo a erodere ulteriormente l’eredità dell’antifascismo ma soprattutto a fare dell’opposizione a Berlusconi l’espressione di atavismi profondi e irrazionali, il “fiume carsico” (scrive Vespa) di una guerra civile ora esplosiva, ora strisciante. Come fa notare Luzzatto nell’introduzione, elencando i titoli delle annuali strenne di Vespa: “presi uno per uno, i titoli dei libri di Vespa scandiscono ogni voltga un presunto momento epocale, quando non suggeriscono un’emergenza nazionale o addirittura una crisi rivoluzionaria. Presi in serie, viceversa, essi alludono alla consolante evidenza per cui tutto cambia, più tutto è la stessa cosa…”
Alla fine, Vespa non sa più che pesci prendere, e si limita a ripetere che “l’attentato di via Rasella fu un gravissimo errore.” La risposta finale di Bentivegna è tagliente: “Credo nella sua buonafede,” concede, “ma il problema dei problemi è che lei ha dato una versione non corretta dei fatti, condita di insinuazioni e ambiguità, perché aveva orecchiato le consuete mistificazioni e le ha riportate senza la necessaria verifica”.
Intelligentemente, Bentivegna non si limita a rettificare la versione con corretta dei fatti, ma smaschera anche l’uso non corretto, strisciante, del linguaggio: contesta il termine “rappresaglia” applicato alle Fosse Ardeatine (e ha ragione, tecnicamente e giuridicamente: secondo il tribunale militare italiano, non si trattò di rappresaglia bensì di “omicidio continuato”), coglie le implicazioni retoriche di espressioni come il “gesto” che gli viene attribuito, come se non si fosse trattato di un’azione di guerra ma dell’alzata di capo di un isolato irresponsabile, smaschera il presupposto implicito secondo cui avrebbe dovuto “pentirsi” di quello che aveva fatto. E d’altra parte, l’intera modalità comunicativa di Vespa, dal linguaggio del corpo in TV alla retorica dei suoi libri, reca nel degrado del linguaggio il segno del danno profondo che arreca alla nostra cultura. In questo senso, il lavoro di Bentivegna non è solo l’ennesima doverosa puntualizzazione storica, ma anche un atto importante di resistenza, sia pure con la minuscola, allo strapotere egemonico del discorso televisivo: i libri di Vespa sono vangelo non perché siano attendibili ma perché il loro autore sta in TV. Qualche tempo fa, sulla metropolitana di Roma, c’era una ragazza sprofondata nella lettura di uno dei tomi di Vespa, con tanto di evidenziatore. Non sono riuscito a capire se quello che sottolineava fossero gli sfondoni del libro, o quelle che lei scambiava per storiche verità o perle di saggezza. Temo che sia buona la seconda. Il libro di Vespa sulla metropolitana è l’aggiornamento dei canali attraverso cui si è formato il senso comune antipartigiano su via Rasella: riviste da parrucchiere, pamphlet fascisti, dicerie incontrollate. Tutti canali troppo a lungo considerati al disotto dell’attenzione degli storici seri, e persino della politica seria; per questo, hanno potuto continuare a diffondersi per decenni, navigando sotto il radar della vigilanza culturale e del dibattito storiografico. Temo che Vespa sia la stessa cosa: troppo poco serio perché gli storici seri si prendano la briga di smontarlo pubblicamente come sarebbe loro dovere. Anzi, persino rispettabili istituzioni romane hanno ritenuto opportuno allestire presentazioni e dibattiti, come se questi libri fossero una cosa seria.
Per fortuna ci sono persone come
da il manifesto, 25 aprile 2006
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