Si può dire "compagno"?
il manifesto 23.6.2010
“Io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un ‘compagno’, come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo.”
Nel 1953, Ernesto deMartino la parola “compagno” la pronunciava fa virgolette: forse per marcare la propria dualità di studioso e di militante, che metteva in discussione non il rigore della ricerca e della politica ma la separatezza del ricercatore e del politico dall’umanità che cercava di rappresentare – scrivendone nei suoi libri e esprimendone le rivendicazioni nelle istituzioni. Compagno voleva dire uno con cui si divide il pane, e uno con cui si divide il cammino. Chiunque ha fatto lavoro sul campo – di ricerca etnografica come di organizzazione politica - sa che entrare nelle case delle perone di cui si cerca la voce significa in primo luogo accettare un’offerta di cibo – un biscotto o un caffè – e in secondo luogo ascoltare una storia. Essere “compagni”, cioè sperimentare nel tempo dell’incontro un’uguaglianza che la società nega nel tempo ordinario. Come spiegava de Martino: “l'esser fra noi "compagni", cioè l'incontrarci per tentare di essere insieme in una stessa storia”.
Ma è bastato pronunciare la parola “compagno” dal palco di un partito che teoricamente dovrebbe essere nato proprio per “tentare di essere insieme in una stessa storia” per rivelare una contraddizione e scatenare un dibattito che non è solo nominalistico e un po’ assurdo come troppo in fretta alcuni l’hanno liquidato. Perché non si tratta solo di una differenza ideologica e simbolica, fra chi viene da una tradizione e chi no. E’ la profonda differenza fra due modi di stare nella storia: sentire, o desiderare, la nuova esperienza politica come uno sviluppo di tutto quello che abbiamo alle spalle (ancora deMartino, addolorato e ironico: “rammemorare anche quella loro storia passata che non poteva in modo immediato essere attuale e comune, e che, in ogni caso, era da ricacciare lontano e da sopprimere"); o credere, come tutti i neonati o i “nati PD” che la storia e il mondo cominciano con se stessi e tutto il resto è da buttare. Ma anche: rammemorare che quella storia da ricacciare e da sopprimere era un passato che aveva un sogno di futuro (“della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti”).
C’è chi davvero ha creduto non solo, come Fukuyama, che la storia sia finita col muro di Berlino, ma anche che non sia nemmeno ricominciata. Che futuro hanno in mente i neonati del PD (che in certi manifesti affissi a Roma si ribattezza con raggelante gioco di parole “PDigitale”?) se non un continuo rinnovarsi di una modernità già vecchia? Nel nostro eterno presente, il pane e la storia non si dividono più con nessuno. Siamo tutti individui nella folla solitaria, tutti imprenditori di noi stessi con partite IVA mentali. Nessuno obbliga i neonati del PD a chiamarsi compagni, ma mi domando come si chiameranno fra loro – cioè, che cosa penseranno di essere, come si riconosceranno - gli iscritti a questo partito agitato ma non mescolato.
Ho visto in questi giorni un film di Rina Amato, Cessarè, sulla storia e la memoria delle lotte contro la ‘ndrangheta nella Locride degli anni ’70. Dopo l’uccisione del giovane comunista Rocco Gatto da parte della criminalità organizzata, un prete di base, Natale Bianchi, scriveva a un dirigente del Partito Comunista (cito a memoria): “Il partito deve fare chiarezza, per non disorientare quei compagni che ancora resistono sul piano sociale e politico”. Ma resiste ancora qualcuno, sul piano sociale, politico e mettiamoci anche culturale? Chi fa chiarezza? Esistono parole ancora più indicibili della parola “compagno”: mentre l’assemblea si entusiasmava e si disorientava per una vecchia parola, la parola “Pomigliano” non era nemmeno pronunciata. Stanno nella stessa storia, sono “compagni” fra loro, i quadri del nuovo partito e gli operai lacerati fra un lavoro comunque o i diritti umani e costituzionali? Qualche dirigente politico entra ancora nelle loro case, ascolta ancora le loro storie e cerca di metterle insieme? Chi li rappresenta? Chi rappresenta chi? Chi “spia e controlla la nostra stessa umanità”? Chi cerca una storia comune?
“Io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un ‘compagno’, come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo.”
Nel 1953, Ernesto deMartino la parola “compagno” la pronunciava fa virgolette: forse per marcare la propria dualità di studioso e di militante, che metteva in discussione non il rigore della ricerca e della politica ma la separatezza del ricercatore e del politico dall’umanità che cercava di rappresentare – scrivendone nei suoi libri e esprimendone le rivendicazioni nelle istituzioni. Compagno voleva dire uno con cui si divide il pane, e uno con cui si divide il cammino. Chiunque ha fatto lavoro sul campo – di ricerca etnografica come di organizzazione politica - sa che entrare nelle case delle perone di cui si cerca la voce significa in primo luogo accettare un’offerta di cibo – un biscotto o un caffè – e in secondo luogo ascoltare una storia. Essere “compagni”, cioè sperimentare nel tempo dell’incontro un’uguaglianza che la società nega nel tempo ordinario. Come spiegava de Martino: “l'esser fra noi "compagni", cioè l'incontrarci per tentare di essere insieme in una stessa storia”.
Ma è bastato pronunciare la parola “compagno” dal palco di un partito che teoricamente dovrebbe essere nato proprio per “tentare di essere insieme in una stessa storia” per rivelare una contraddizione e scatenare un dibattito che non è solo nominalistico e un po’ assurdo come troppo in fretta alcuni l’hanno liquidato. Perché non si tratta solo di una differenza ideologica e simbolica, fra chi viene da una tradizione e chi no. E’ la profonda differenza fra due modi di stare nella storia: sentire, o desiderare, la nuova esperienza politica come uno sviluppo di tutto quello che abbiamo alle spalle (ancora deMartino, addolorato e ironico: “rammemorare anche quella loro storia passata che non poteva in modo immediato essere attuale e comune, e che, in ogni caso, era da ricacciare lontano e da sopprimere"); o credere, come tutti i neonati o i “nati PD” che la storia e il mondo cominciano con se stessi e tutto il resto è da buttare. Ma anche: rammemorare che quella storia da ricacciare e da sopprimere era un passato che aveva un sogno di futuro (“della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti”).
C’è chi davvero ha creduto non solo, come Fukuyama, che la storia sia finita col muro di Berlino, ma anche che non sia nemmeno ricominciata. Che futuro hanno in mente i neonati del PD (che in certi manifesti affissi a Roma si ribattezza con raggelante gioco di parole “PDigitale”?) se non un continuo rinnovarsi di una modernità già vecchia? Nel nostro eterno presente, il pane e la storia non si dividono più con nessuno. Siamo tutti individui nella folla solitaria, tutti imprenditori di noi stessi con partite IVA mentali. Nessuno obbliga i neonati del PD a chiamarsi compagni, ma mi domando come si chiameranno fra loro – cioè, che cosa penseranno di essere, come si riconosceranno - gli iscritti a questo partito agitato ma non mescolato.
Ho visto in questi giorni un film di Rina Amato, Cessarè, sulla storia e la memoria delle lotte contro la ‘ndrangheta nella Locride degli anni ’70. Dopo l’uccisione del giovane comunista Rocco Gatto da parte della criminalità organizzata, un prete di base, Natale Bianchi, scriveva a un dirigente del Partito Comunista (cito a memoria): “Il partito deve fare chiarezza, per non disorientare quei compagni che ancora resistono sul piano sociale e politico”. Ma resiste ancora qualcuno, sul piano sociale, politico e mettiamoci anche culturale? Chi fa chiarezza? Esistono parole ancora più indicibili della parola “compagno”: mentre l’assemblea si entusiasmava e si disorientava per una vecchia parola, la parola “Pomigliano” non era nemmeno pronunciata. Stanno nella stessa storia, sono “compagni” fra loro, i quadri del nuovo partito e gli operai lacerati fra un lavoro comunque o i diritti umani e costituzionali? Qualche dirigente politico entra ancora nelle loro case, ascolta ancora le loro storie e cerca di metterle insieme? Chi li rappresenta? Chi rappresenta chi? Chi “spia e controlla la nostra stessa umanità”? Chi cerca una storia comune?
5 Comments:
La società civile è cambiata drasticamente, e in peggio. Certi valori, certi concetti sono sempre meno conosciuti, capiti ed elaborati.
Corriamo verso un ignoranza totale, perchè un popolo ignorante lo si controlla meglio. Già nell'antica Roma l'avevano capito, e la Chiesa pure nel corso dei secoli.
Occorrerebbe una nuova rivoluzione culturale, ma troppi, troppi son presi dalle manie imposte dai massmedia, e si preoccupano solo del loro stomaco... il Bene Comune pare non interessi a nessuno, la "res publica" oggi quanto conta per le masse?
ECCO UN EX COMPAGNO!
Il Presidente della Repubblica torna sull’argomento della solidarietà per sanare il debito pubblico, ribadendo che occorre il sacrificio di tutti per uscire dalla crisi: «Nessuna parte politica può sottrarsi alla responsabilità collettiva di alleggerire in modo decisivo e di consolidare il bilancio pubblico riducendo il debito che noi abbiamo accumulato e che è un pesante fardello sulle nostre spalle», ha detto Giorgio Napolitano salutando il sindaco e i consiglieri comunali di Udine. L'Italia ha un «fardello del debito pubblico che dobbiamo alleggerire in modo decisivo». E il capo dello Stato ha fatto un appello alla responsabilità di tutti gli enti che devono fare la loro parte in tal senso: «Nessuno può sottrarsi», ha rimarcato. Tutto esatto! Tutto ampiamente condivisibile, se non per un dettaglio: “il PRESIDENTE”, oltre all’appello demagogico con cui ha chiesto per l’ennesima volta «il contributo di tutti per superare la crisi», forse avrebbe potuto osare di più, forse avrebbe dovuto fare qualcosina di più… concreto! Non parliamo dei suoi benefit, quelli può tenerseli ben stretti in barba a tutti quanti noi comuni mortali, ma magari ridurre gli “stipendi d’oro” dei “suoi impiegati" al Quirinale che - a parità di qualifica ed anzianità di servizio - percepiscono il doppio dello stipendio di un impiegato del catasto, perché no?! A rischio di apparire irriverenti verso la più alta carica dello Stato, NON CI RISULTA, CARO PRESIDENTE, CHE ELLA ABBIA RINUNCIATO AI SUOI PRIVILEGI! NON CI RISULTA CHE ELLA ABBIA MORALIZZATO GLI STIPENDI DEI PROPRI IMPIEGATI AL QUIRINALE NORMALIZZANDOLI A QUELLI DI TUTTO IL PUBBLICO IMPIEGO! DI QUALI SACRIFI ELLA SI PREGIA DI PONTIFICARE! ELLA FA LA BELLA VITA COME UN PAPA, ALTRO CHE COME UN COMPAGNO DELL'EX P.C.I.!!!
ECCO UN EX COMPAGNO!
Il Presidente della Repubblica torna sull’argomento della solidarietà per sanare il debito pubblico, ribadendo che occorre il sacrificio di tutti per uscire dalla crisi: «Nessuna parte politica può sottrarsi alla responsabilità collettiva di alleggerire in modo decisivo e di consolidare il bilancio pubblico riducendo il debito che noi abbiamo accumulato e che è un pesante fardello sulle nostre spalle», ha detto Giorgio Napolitano salutando il sindaco e i consiglieri comunali di Udine. L'Italia ha un «fardello del debito pubblico che dobbiamo alleggerire in modo decisivo». E il capo dello Stato ha fatto un appello alla responsabilità di tutti gli enti che devono fare la loro parte in tal senso: «Nessuno può sottrarsi», ha rimarcato. Tutto esatto! Tutto ampiamente condivisibile, se non per un dettaglio: “il PRESIDENTE”, oltre all’appello demagogico con cui ha chiesto per l’ennesima volta «il contributo di tutti per superare la crisi», forse avrebbe potuto osare di più, forse avrebbe dovuto fare qualcosina di più… concreto! Non parliamo dei suoi benefit, quelli può tenerseli ben stretti in barba a tutti quanti noi comuni mortali, ma magari ridurre gli “stipendi d’oro” dei “suoi impiegati" al Quirinale che - a parità di qualifica ed anzianità di servizio - percepiscono il doppio dello stipendio di un impiegato del catasto, perché no?! A rischio di apparire irriverenti verso la più alta carica dello Stato, NON CI RISULTA, CARO PRESIDENTE, CHE ELLA ABBIA RINUNCIATO AI SUOI PRIVILEGI! NON CI RISULTA CHE ELLA ABBIA MORALIZZATO GLI STIPENDI DEI PROPRI IMPIEGATI AL QUIRINALE NORMALIZZANDOLI A QUELLI DI TUTTO IL PUBBLICO IMPIEGO! DI QUALI SACRIFI ELLA SI PREGIA DI PONTIFICARE! ELLA FA LA BELLA VITA COME UN PAPA, ALTRO CHE COME UN COMPAGNO DELL'EX P.C.I.!!!
Bel post. è vero, i nuovi iscritti del PD, i cosiddetti giovani, non solo relegano il passato del PCi nel dimenticatoio ma sembrano quasi vergognarsene, come se fosse qualcosa da tenere nascosto. D'altra parte, cosa altrettanto grave, non sanno nemmeno immaginare il futuro. La mancanza di immaginazione condanna a un eterno presente, che, per quanto ci riguarda, è desolato e segnato da una orizzontalità ideologica che omette continuamente la verità nel momento in cui presenta analisi zoppe e parziali di ciò che accade veramente oggi sotto la nuova ideologia del determinismo sociale e della sua variante italiana del clientelismo e delle mafie diffuse. Dall'altra parte assistiamo a sfruttamento del lavoro, parcellizazione delle identità con l'etichettatura dei lavoratori da "compagni" a "precari". Ci hai fatto mai caso all'uso costante di questa parola che ormai dilaga e appiattisce tutti su un'unica realtà di cui nessuno si fa carico? E poi c'è il sottinteso messaggio collettivo che se non ce la fai è colpa tua perché non sei abbastanza scaltro da adottare le strategie oggi in voga nella società. In questo contesto non si può essere più "compagni" ma "concorrenti" e si deve sottostare magari ai dettami dell'imprenditore di turno (vedi Marchionne) che non è più chiamato con la parola che gli compete "padrone" ma è ammirato come un geniale uomo d'affari.
Sono saltate le categorie con cui era possibile contrastare il potere e con le quali si poteva scrivere una storia diversa da quella che oggi è dominante. Il problema è che sono tutti troppo rassegnati.
Ti supplico il favore di mettere un link al nostro websito umile dall'Irlanda sul tuo sito web. Sarebbe un atto di gentilezza se volesse dire ai tuoi lettori sui nostri poveri sforzi.
Molte grazie a tutti!
Convenatore
Associazione San Conleth di Eredità Cattolica (Irlanda)
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