Via col vento: edili americani nella crisi
il manifesto 2.11.2010
Peachtree Street è la strada principale di Atlanta, Georgia. Ci ha abitato anche Rossella O’Hara; in Via col Vento la si intravede, in carrozza su una rustica via di rossa terra della Georgia. Oggi è un canyon di grattacieli di alberghi e uffici e non ci abita nessuno – metà della gente che vedi per strada porta le targhette col nome dei partecipanti ai vari congressi che popolano zona. Ogni tanto, incongruamente, passano carrozze a cavalli dalle forme fantasiose, e le famigliole che ci vedo sopra sono tutte di afroamericani, una specie di rivalsa dei discendenti di Mamie che tornano da turisti dove l’immaginazione nazionale li ricorda come schiavi e cocchieri. Peraltro, i cocchieri sono neri anche adesso.
Stamattina, 1 novembre, c’è animazione insolita all’angolo di Peachtree: una cinquantina di uomini e donne con giubbotti arancione e una selva da cartelli camminano in cerchio davanti a un grattacielo per uffici, come vuole la legge che impone ai picchetti di muoversi. Sono i membri della United Brotherhood of Carpenters, la “fratellanza” dei carpentieri edili (in edilizia vige l’arcaico sindacalismo di mestiere, per cui carpentieri, elettricisti, muratori, eccetera, sono tutti iscritti a sindacati separati e spesso in concorrenza fra loro. Dal 2002 la UBC non fa più parte delle confederazioni nazionali). Protestano contro la Ultra, un’azienda appaltatrice che come tante altre nella zona non applica le norme su salari, provvidenze e sicurezza. Gridano slogan antifonali da stadio, col nome del sindacato al posto della squadra. Un cartello invita gli automobilisti a suonare il clacson: “honk for workers’ rights”, suona per i diritti dei lavoratori. Tutti i camion e gli autobus rispondono, ma anche un paio di SUV.
Nel picchetto ruotano soprattutto neri e latini; i due sindacalisti che li affiancano. Gli chiedo di che si tratta e mandano a chiamare il responsabile. A farmi parlare direttamente con gli operai non ci pensano proprio. Comunque il dirigente - si chiama Jimmy Gibbs - è molto disponibile.
“Abbiamo una vertenza con la Ultra, un appaltatore qui nel palazzo. Non rispetta nessuno degli standard dei rapporti di lavoro – salario, orari, provvidenze, formazione, sicurezza. Pensa che il progetto a cui lavorano adesso si chiama ‘Credibility’ – paradossale, no? In tutti questi anni abbiamo visto erodere le condizioni di lavoro; abbiamo parlato con gli imprenditori e con gli enti pubblici responsabili; molti non ci hanno nemmeno ascoltato, altri non avevano la volontà politica, perciò abbiamo deciso di portare la vertenza fuori per informare la gente. Abbiamo fatto manifestazioni, cartelli, striscioni, volantinaggi, in tutta Atlanta. Abbiamo visto ogni genere di rappresaglia e intimidazione: gli appaltatori minacciano gli operai non farli parlare con noi. La Ultra, poi, usa un labor broker, un subappaltatore di forza lavoro: vanno a prendere gli operai in Messico o in America Centrale, li pagano in nero, niente versamenti, fanno pagare a loro la previdenza antinfortunistica, perciò se hanno un incidente, e succede spesso, non hanno nessun o risarcimento C’è stato che si è fatto male e si è trovato senza lavoro, non gli hanno neanche pagato l’ultima busta paga perché erano senza contratto… Purtroppo il nostro paese sta attraversando una transizione in cui i lavoratori immigrati sono sfruttati. Molti vengono qui senza conoscere le leggi, i minimi salariali, i diritti che gli spettano. E sono disposti a lavorare per meno: vengono da economie di povertà, e la paga è comunque più di quello che guadagnano a casa – anche se poi il costo della vita qui è più alto, un dollaro qui non va tanto lontano come in Messico. Noi non cerchiamo di reclutarli ma vogliamo che siano informati. Non crediamo a nessuna discriminazione. Se io vivessi in Messico o in America Centrale e avessi una famiglia da mantenere, farei come loro: se ci sono imprenditori qui negli Stati Uniti che offrono lavoro a condizioni sotto la norma di legge ma comunque migliori che in patria, vengo qui. Noi diciamo solo che anche per gli immigrati dovrebbero valere le stesse regole che valgono per tutti.”
Più che che ai diritti degli immigrati in quanto persone, comunque, il sindacato sembra pensare allo sfruttamento dell’immigrazione come a una distorsione del mercato. E’ una delle funzioni tradizionali del sindacato, fin dal New Deal di Roosevelt: garantire parità di condizioni per le aziende, la regolarità della concorrenza e del mercato, prima ancora che sopravvivenza per le persone. “Lo sfruttamento di questa gente crea una concorrenza sleale verso le aziende in regola. La vertenza è proprio su questo: bisogna che le condizioni siano uguali per tutti. Ci sono anche aziende che ci appoggiano, che dicono ai repubblicani e ai democratici: guardate, che questa situazione ci manda tutti al fallimento, perché quando andiamo a trattare gli appalti ci troviamo contro aziende che non pagano le tasse, i salari, la sicurezza, e noi non ce la facciamo a competere. I repubblicani dicono che sono contro l’immigrazione illegale ma non dicono niente contro gli imprenditori che ne approfittano per sfruttare gli immigrati. Non puoi essere contro l’immigrazione e poi permettere che gli immigrati siano sfruttati, perché è questo che li porta qui”: paradossalmente, proteggere i diritti degli immigrati diventa un modo per scoraggiare l’immigrazione. Ma non è un paradosso solo americano.
E’ la vigilia delle elezioni, non posso evitare di chiedergli che pensa. “Purtroppo la Georgia è uno stato fortemente repubblicano, uno stato rosso, e operiamo in condizioni molto difficili, anche se Atlanta è più articolata e abbiamo parecchio sostegno. Naturalmente qui al Sud, in Georgia, abbiamo tutti un modo nostro di vedere le cose. Sai bene che il Sud, la Georgia, storicamente non ha molto sostenuto gli afroamericani. Con il primo presidente afroamericano, le tensioni razziali in gioco si vedono chiaramente. Risale tutto alla storia di qui, purtroppo ci vorrà almeno un’altra generazione prima che alcune di queste ferite siano sanate”. Quanto all’economia, “lo stimolo è andato tutto ai banchieri, all’un per cento più ricco e quasi niente è ‘sgocciolato’, come si diceva un tempo, fino in basso, a chi ne ha davvero bisogno. Vediamo gente istruita, con la laurea, coi dottorati, che è senza lavoro, perché le cose vanno male per tutti. E a stare senza lavoro si soffre”.
Un punto qualificante della piattaforma di Obama era l’impegno a varare lo Employee Free Choice Act, che permetterebbe ai lavoratori di iscriversi e chiedere la rappresentanza e il contratto sindacale senza passare per un referendum aziendale in cui sono soggetti a ricatti e pressioni di ogni tipo (quando si parla della scarsa rappresentatività dei sindacati in America, va ricordato che iscriversi è difficile e spesso pericoloso, e i contratti nazionali non esistono: la maggior parte del lavoro negli Stati Uniti è quello che noi chiameremmo lavoro nero). Ma finora, Obama non ha mantenuto la promessa.
“Be’, quando le camere di commercio spendono milioni di dollari per bloccare una cosa… si è impantanato. Ma che c’è di male a dare a chi lavora il diritto di prendere la tessera se vuole, senza bisogno di passare per tutta la trafila, di lasciare che siano loro e non l’azienda a decidere il proprio futuro e chi li rappresenta? Non conosco nessuno che vuole mandare in fallimento l’azienda dove lavora, ma vogliono lo stesso sedersi al tavolo delle trattative e negoziare un contratto. Se apri un conto in banca o fai un mutuo, firmi un contratto; non capisco perché chi lavora non deve avere un pezzo di carta, un accordo firmato, che gli garantisca il futuro. Dipingono i sindacati some teppisti, come la rovina dell’America, ma abbiamo visto alla Ford e alla Chrysler che il sindacato è disponibile a ragionare per rendere le aziende competitive.”
A questo punto, smettiamo di capirci. Gli dico che le concessioni alla Chrysler stanno diventando un modello che smantella i diritti e i posti di lavoro alla Fiat in Italia, ma questo genere di solidarietà internazionale non fa parte della percezione di tanti sindacalisti americani. Anzi: “Vedi? I repubblicani dicono sempre che il sindacato fa perdere i posti di lavoro, ed ecco un esempio di come grazie al sindacato i posti ritornano in America”. Passa un tir suonando a distesa per solidarietà. “Nella società globalizzata”, conclude Gibbs, “gli investimenti vanno dove il lavoro costa meno”. E adesso costa meno negli Stati Uniti: forse questa è una delle ragioni profonde, neanche articolate o capite, della rabbia informe e mal diretta di tanti americani che vedono svanire certezze ancestrali, si sentono messi a casa loro sullo stesso piano del terzo mondo e costretti a competere al ribasso. Lo slogan del Tea Party è “riprendiamoci l’America”. Ma quell’America lì è andata via col vento della crisi e non tornerà più.
Peachtree Street è la strada principale di Atlanta, Georgia. Ci ha abitato anche Rossella O’Hara; in Via col Vento la si intravede, in carrozza su una rustica via di rossa terra della Georgia. Oggi è un canyon di grattacieli di alberghi e uffici e non ci abita nessuno – metà della gente che vedi per strada porta le targhette col nome dei partecipanti ai vari congressi che popolano zona. Ogni tanto, incongruamente, passano carrozze a cavalli dalle forme fantasiose, e le famigliole che ci vedo sopra sono tutte di afroamericani, una specie di rivalsa dei discendenti di Mamie che tornano da turisti dove l’immaginazione nazionale li ricorda come schiavi e cocchieri. Peraltro, i cocchieri sono neri anche adesso.
Stamattina, 1 novembre, c’è animazione insolita all’angolo di Peachtree: una cinquantina di uomini e donne con giubbotti arancione e una selva da cartelli camminano in cerchio davanti a un grattacielo per uffici, come vuole la legge che impone ai picchetti di muoversi. Sono i membri della United Brotherhood of Carpenters, la “fratellanza” dei carpentieri edili (in edilizia vige l’arcaico sindacalismo di mestiere, per cui carpentieri, elettricisti, muratori, eccetera, sono tutti iscritti a sindacati separati e spesso in concorrenza fra loro. Dal 2002 la UBC non fa più parte delle confederazioni nazionali). Protestano contro la Ultra, un’azienda appaltatrice che come tante altre nella zona non applica le norme su salari, provvidenze e sicurezza. Gridano slogan antifonali da stadio, col nome del sindacato al posto della squadra. Un cartello invita gli automobilisti a suonare il clacson: “honk for workers’ rights”, suona per i diritti dei lavoratori. Tutti i camion e gli autobus rispondono, ma anche un paio di SUV.
Nel picchetto ruotano soprattutto neri e latini; i due sindacalisti che li affiancano. Gli chiedo di che si tratta e mandano a chiamare il responsabile. A farmi parlare direttamente con gli operai non ci pensano proprio. Comunque il dirigente - si chiama Jimmy Gibbs - è molto disponibile.
“Abbiamo una vertenza con la Ultra, un appaltatore qui nel palazzo. Non rispetta nessuno degli standard dei rapporti di lavoro – salario, orari, provvidenze, formazione, sicurezza. Pensa che il progetto a cui lavorano adesso si chiama ‘Credibility’ – paradossale, no? In tutti questi anni abbiamo visto erodere le condizioni di lavoro; abbiamo parlato con gli imprenditori e con gli enti pubblici responsabili; molti non ci hanno nemmeno ascoltato, altri non avevano la volontà politica, perciò abbiamo deciso di portare la vertenza fuori per informare la gente. Abbiamo fatto manifestazioni, cartelli, striscioni, volantinaggi, in tutta Atlanta. Abbiamo visto ogni genere di rappresaglia e intimidazione: gli appaltatori minacciano gli operai non farli parlare con noi. La Ultra, poi, usa un labor broker, un subappaltatore di forza lavoro: vanno a prendere gli operai in Messico o in America Centrale, li pagano in nero, niente versamenti, fanno pagare a loro la previdenza antinfortunistica, perciò se hanno un incidente, e succede spesso, non hanno nessun o risarcimento C’è stato che si è fatto male e si è trovato senza lavoro, non gli hanno neanche pagato l’ultima busta paga perché erano senza contratto… Purtroppo il nostro paese sta attraversando una transizione in cui i lavoratori immigrati sono sfruttati. Molti vengono qui senza conoscere le leggi, i minimi salariali, i diritti che gli spettano. E sono disposti a lavorare per meno: vengono da economie di povertà, e la paga è comunque più di quello che guadagnano a casa – anche se poi il costo della vita qui è più alto, un dollaro qui non va tanto lontano come in Messico. Noi non cerchiamo di reclutarli ma vogliamo che siano informati. Non crediamo a nessuna discriminazione. Se io vivessi in Messico o in America Centrale e avessi una famiglia da mantenere, farei come loro: se ci sono imprenditori qui negli Stati Uniti che offrono lavoro a condizioni sotto la norma di legge ma comunque migliori che in patria, vengo qui. Noi diciamo solo che anche per gli immigrati dovrebbero valere le stesse regole che valgono per tutti.”
Più che che ai diritti degli immigrati in quanto persone, comunque, il sindacato sembra pensare allo sfruttamento dell’immigrazione come a una distorsione del mercato. E’ una delle funzioni tradizionali del sindacato, fin dal New Deal di Roosevelt: garantire parità di condizioni per le aziende, la regolarità della concorrenza e del mercato, prima ancora che sopravvivenza per le persone. “Lo sfruttamento di questa gente crea una concorrenza sleale verso le aziende in regola. La vertenza è proprio su questo: bisogna che le condizioni siano uguali per tutti. Ci sono anche aziende che ci appoggiano, che dicono ai repubblicani e ai democratici: guardate, che questa situazione ci manda tutti al fallimento, perché quando andiamo a trattare gli appalti ci troviamo contro aziende che non pagano le tasse, i salari, la sicurezza, e noi non ce la facciamo a competere. I repubblicani dicono che sono contro l’immigrazione illegale ma non dicono niente contro gli imprenditori che ne approfittano per sfruttare gli immigrati. Non puoi essere contro l’immigrazione e poi permettere che gli immigrati siano sfruttati, perché è questo che li porta qui”: paradossalmente, proteggere i diritti degli immigrati diventa un modo per scoraggiare l’immigrazione. Ma non è un paradosso solo americano.
E’ la vigilia delle elezioni, non posso evitare di chiedergli che pensa. “Purtroppo la Georgia è uno stato fortemente repubblicano, uno stato rosso, e operiamo in condizioni molto difficili, anche se Atlanta è più articolata e abbiamo parecchio sostegno. Naturalmente qui al Sud, in Georgia, abbiamo tutti un modo nostro di vedere le cose. Sai bene che il Sud, la Georgia, storicamente non ha molto sostenuto gli afroamericani. Con il primo presidente afroamericano, le tensioni razziali in gioco si vedono chiaramente. Risale tutto alla storia di qui, purtroppo ci vorrà almeno un’altra generazione prima che alcune di queste ferite siano sanate”. Quanto all’economia, “lo stimolo è andato tutto ai banchieri, all’un per cento più ricco e quasi niente è ‘sgocciolato’, come si diceva un tempo, fino in basso, a chi ne ha davvero bisogno. Vediamo gente istruita, con la laurea, coi dottorati, che è senza lavoro, perché le cose vanno male per tutti. E a stare senza lavoro si soffre”.
Un punto qualificante della piattaforma di Obama era l’impegno a varare lo Employee Free Choice Act, che permetterebbe ai lavoratori di iscriversi e chiedere la rappresentanza e il contratto sindacale senza passare per un referendum aziendale in cui sono soggetti a ricatti e pressioni di ogni tipo (quando si parla della scarsa rappresentatività dei sindacati in America, va ricordato che iscriversi è difficile e spesso pericoloso, e i contratti nazionali non esistono: la maggior parte del lavoro negli Stati Uniti è quello che noi chiameremmo lavoro nero). Ma finora, Obama non ha mantenuto la promessa.
“Be’, quando le camere di commercio spendono milioni di dollari per bloccare una cosa… si è impantanato. Ma che c’è di male a dare a chi lavora il diritto di prendere la tessera se vuole, senza bisogno di passare per tutta la trafila, di lasciare che siano loro e non l’azienda a decidere il proprio futuro e chi li rappresenta? Non conosco nessuno che vuole mandare in fallimento l’azienda dove lavora, ma vogliono lo stesso sedersi al tavolo delle trattative e negoziare un contratto. Se apri un conto in banca o fai un mutuo, firmi un contratto; non capisco perché chi lavora non deve avere un pezzo di carta, un accordo firmato, che gli garantisca il futuro. Dipingono i sindacati some teppisti, come la rovina dell’America, ma abbiamo visto alla Ford e alla Chrysler che il sindacato è disponibile a ragionare per rendere le aziende competitive.”
A questo punto, smettiamo di capirci. Gli dico che le concessioni alla Chrysler stanno diventando un modello che smantella i diritti e i posti di lavoro alla Fiat in Italia, ma questo genere di solidarietà internazionale non fa parte della percezione di tanti sindacalisti americani. Anzi: “Vedi? I repubblicani dicono sempre che il sindacato fa perdere i posti di lavoro, ed ecco un esempio di come grazie al sindacato i posti ritornano in America”. Passa un tir suonando a distesa per solidarietà. “Nella società globalizzata”, conclude Gibbs, “gli investimenti vanno dove il lavoro costa meno”. E adesso costa meno negli Stati Uniti: forse questa è una delle ragioni profonde, neanche articolate o capite, della rabbia informe e mal diretta di tanti americani che vedono svanire certezze ancestrali, si sentono messi a casa loro sullo stesso piano del terzo mondo e costretti a competere al ribasso. Lo slogan del Tea Party è “riprendiamoci l’America”. Ma quell’America lì è andata via col vento della crisi e non tornerà più.
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