16 aprile 2007

Leggi elettorali e democrazia rappresnetativa

L'ingegneria istituzionale nel letto di Procuste
(il manifesto, 15.4.2007)

In un intervento di qualche giorno fa, Stefano Rodotà ha sottolineato l'assur­dità di una discussione sui meccani­smi istituzionali, a partire dalla legge elettorale, dominata dall'illusione di risolve­re le questioni di fondo, i problemi concreti del paese, a colpi di ingegneria istituziona­le. Vorrei fare qualche altro passo sulla stra­da da lui indicata, soprattutto quando fa ri­ferimento alla questione cruciale della rap­presentanza. Nell'articolo 1 della nostra Costituzione si legge che «La sovranità appar­tiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». La cosa più importante in questa formulazione non è tanto l'appartenenza della sovranità - che infatti nell'ideologia presidenzial-governabilista, può e deve essere affidata a altri, che diventano, loro, «sovrani» nell'accezione berlusconiana - ma il suo esercizio. Ciò che fa della nostra una delle costituzioni più in­telligenti, democratiche e moderne - e quin­di più fastidiose a chi ama comandare sen­za lacci e laccioli - è l'idea di una cittadinan­za attiva e partecipe, che non limita l'eserci­zio della sua sovranità a un voto periodico ma che attraverso questo voto si rappresen­ta e si esprime.
Ora, in tutta la discussione sulla legge elet­torale, almeno da quanto è dato da leggere sui giornali, il tema della rappresentanza non è mai all'ordine del giorno. Il problema è se la legge debba o no favorire certe coali­zioni, dare spazio ai piccoli o ai grandi parti­ti, premiare o meno, e come, maggioranze nazionali o regionali, e così via. In nessun momento ci si pone il problema di quale sia il processo elettorale più adatto a garantire la pienezza dell'espressione della sovrana volontà del popolo e della sua rappresenta­zione istituzionale, che è poi la ragione per la quale esistono le elezioni.
Sappiamo bene che il fatto che si tengano elezioni non garantisce di per sé la qualità democratica di un sistema politico, ma è co­munque un requisito necessario: la demo­crazia comincia lì. Credo sia stato un errore dei costituenti non fare del sistema elettora­le almeno una legge costituzionale, non mo­dificabile ad libitum da maggioranze pas­seggere - ma certo non immaginavano che ci saremmo trovati nelle condizioni di oggi. Perché mettere mano al processo elettora­le, al meccanismo da cui parte l'esercizio della sovranità, significa mettere mano al­l'essenza della democrazia. Cambiare il si­stema elettorale per interessi di parte (legge Calderoli) o di ceto politico (come negli ac­cordi bipartitici che si profilano all'orizzon­te) non sarà propriamente un colpo di stato ma sicuramente è una ferita grave alla de­mocrazia. Per capirsi: da cittadino, mi accor­go che le proposte in gioco non hanno il fi­ne di aiutarmi a esprimere la mia quota di sovrana volontà votando in base alle mie scelte e orientamenti, ma piuttosto a impor­mi di votare in un certo modo, a limitarmi le scelte, a dare più peso a certe scelte inve­ce che ad altre.

Tutto questo, in nome di alcuni feticci ide­ologici: governabilità, bipolarismo, unino­minale... Su bipartitismo e uninominale vorrei ripetere una cosa che ci siamo detti molte volte: sono all'origine il prodotto di una democrazia settecentesca parziale e eli­taria, in cui votava un solo ceto, una demo­crazia incipiente. Ma in Italia sono stati im­posti su una società matura, complessa, e abituata al suffragio universale: anziché un'apertura, come nelle democrazie anglo­sassoni del settecento, sono un letto di Procuste su cui costringere il pluralismo della società. Sulla governabilità, un'altra osserva­zione: non solo le crisi di governo e i cambi di maggioranza non sono affatto scompar­se col bipolarismo (siamo già al Prodi 2), ma soprattutto va notato che da quando vi­ge il bipolarismo nessuna maggioranza è stata rieletta, nessun governo ha rivinto le elezioni (e già si dà per scontato che se si vo­tasse neanche questo governo - per la cui rielezione vorrei adoperarmi - sarebbe rie­letto). Chiaro che la possibilità dell'alternan­za è una garanzia democratica, ma la sua si­stematicità è segno anche che, grazie alla governabilità garantita, i governanti si sono isolati nel loro mondo separato giocandosi sistematicamente la credibilità e il consen­so dei cittadini. Che, in assenza di altri stru­menti, per disfarsi del governo in carica si trovano a rieleggere la maggioranza di cui si erano disfatti nella votazione precedente, e così via. Bel risultato di ingegneria istituzio­nale democratica.

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