Leggi elettorali e democrazia rappresnetativa
L'ingegneria istituzionale nel letto di Procuste
(il manifesto, 15.4.2007)
In un intervento di qualche giorno fa, Stefano Rodotà ha sottolineato l'assurdità di una discussione sui meccanismi istituzionali, a partire dalla legge elettorale, dominata dall'illusione di risolvere le questioni di fondo, i problemi concreti del paese, a colpi di ingegneria istituzionale. Vorrei fare qualche altro passo sulla strada da lui indicata, soprattutto quando fa riferimento alla questione cruciale della rappresentanza. Nell'articolo 1 della nostra Costituzione si legge che «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». La cosa più importante in questa formulazione non è tanto l'appartenenza della sovranità - che infatti nell'ideologia presidenzial-governabilista, può e deve essere affidata a altri, che diventano, loro, «sovrani» nell'accezione berlusconiana - ma il suo esercizio. Ciò che fa della nostra una delle costituzioni più intelligenti, democratiche e moderne - e quindi più fastidiose a chi ama comandare senza lacci e laccioli - è l'idea di una cittadinanza attiva e partecipe, che non limita l'esercizio della sua sovranità a un voto periodico ma che attraverso questo voto si rappresenta e si esprime.
Ora, in tutta la discussione sulla legge elettorale, almeno da quanto è dato da leggere sui giornali, il tema della rappresentanza non è mai all'ordine del giorno. Il problema è se la legge debba o no favorire certe coalizioni, dare spazio ai piccoli o ai grandi partiti, premiare o meno, e come, maggioranze nazionali o regionali, e così via. In nessun momento ci si pone il problema di quale sia il processo elettorale più adatto a garantire la pienezza dell'espressione della sovrana volontà del popolo e della sua rappresentazione istituzionale, che è poi la ragione per la quale esistono le elezioni.
Sappiamo bene che il fatto che si tengano elezioni non garantisce di per sé la qualità democratica di un sistema politico, ma è comunque un requisito necessario: la democrazia comincia lì. Credo sia stato un errore dei costituenti non fare del sistema elettorale almeno una legge costituzionale, non modificabile ad libitum da maggioranze passeggere - ma certo non immaginavano che ci saremmo trovati nelle condizioni di oggi. Perché mettere mano al processo elettorale, al meccanismo da cui parte l'esercizio della sovranità, significa mettere mano all'essenza della democrazia. Cambiare il sistema elettorale per interessi di parte (legge Calderoli) o di ceto politico (come negli accordi bipartitici che si profilano all'orizzonte) non sarà propriamente un colpo di stato ma sicuramente è una ferita grave alla democrazia. Per capirsi: da cittadino, mi accorgo che le proposte in gioco non hanno il fine di aiutarmi a esprimere la mia quota di sovrana volontà votando in base alle mie scelte e orientamenti, ma piuttosto a impormi di votare in un certo modo, a limitarmi le scelte, a dare più peso a certe scelte invece che ad altre.
Tutto questo, in nome di alcuni feticci ideologici: governabilità, bipolarismo, uninominale... Su bipartitismo e uninominale vorrei ripetere una cosa che ci siamo detti molte volte: sono all'origine il prodotto di una democrazia settecentesca parziale e elitaria, in cui votava un solo ceto, una democrazia incipiente. Ma in Italia sono stati imposti su una società matura, complessa, e abituata al suffragio universale: anziché un'apertura, come nelle democrazie anglosassoni del settecento, sono un letto di Procuste su cui costringere il pluralismo della società. Sulla governabilità, un'altra osservazione: non solo le crisi di governo e i cambi di maggioranza non sono affatto scomparse col bipolarismo (siamo già al Prodi 2), ma soprattutto va notato che da quando vige il bipolarismo nessuna maggioranza è stata rieletta, nessun governo ha rivinto le elezioni (e già si dà per scontato che se si votasse neanche questo governo - per la cui rielezione vorrei adoperarmi - sarebbe rieletto). Chiaro che la possibilità dell'alternanza è una garanzia democratica, ma la sua sistematicità è segno anche che, grazie alla governabilità garantita, i governanti si sono isolati nel loro mondo separato giocandosi sistematicamente la credibilità e il consenso dei cittadini. Che, in assenza di altri strumenti, per disfarsi del governo in carica si trovano a rieleggere la maggioranza di cui si erano disfatti nella votazione precedente, e così via. Bel risultato di ingegneria istituzionale democratica.
(il manifesto, 15.4.2007)
In un intervento di qualche giorno fa, Stefano Rodotà ha sottolineato l'assurdità di una discussione sui meccanismi istituzionali, a partire dalla legge elettorale, dominata dall'illusione di risolvere le questioni di fondo, i problemi concreti del paese, a colpi di ingegneria istituzionale. Vorrei fare qualche altro passo sulla strada da lui indicata, soprattutto quando fa riferimento alla questione cruciale della rappresentanza. Nell'articolo 1 della nostra Costituzione si legge che «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». La cosa più importante in questa formulazione non è tanto l'appartenenza della sovranità - che infatti nell'ideologia presidenzial-governabilista, può e deve essere affidata a altri, che diventano, loro, «sovrani» nell'accezione berlusconiana - ma il suo esercizio. Ciò che fa della nostra una delle costituzioni più intelligenti, democratiche e moderne - e quindi più fastidiose a chi ama comandare senza lacci e laccioli - è l'idea di una cittadinanza attiva e partecipe, che non limita l'esercizio della sua sovranità a un voto periodico ma che attraverso questo voto si rappresenta e si esprime.
Ora, in tutta la discussione sulla legge elettorale, almeno da quanto è dato da leggere sui giornali, il tema della rappresentanza non è mai all'ordine del giorno. Il problema è se la legge debba o no favorire certe coalizioni, dare spazio ai piccoli o ai grandi partiti, premiare o meno, e come, maggioranze nazionali o regionali, e così via. In nessun momento ci si pone il problema di quale sia il processo elettorale più adatto a garantire la pienezza dell'espressione della sovrana volontà del popolo e della sua rappresentazione istituzionale, che è poi la ragione per la quale esistono le elezioni.
Sappiamo bene che il fatto che si tengano elezioni non garantisce di per sé la qualità democratica di un sistema politico, ma è comunque un requisito necessario: la democrazia comincia lì. Credo sia stato un errore dei costituenti non fare del sistema elettorale almeno una legge costituzionale, non modificabile ad libitum da maggioranze passeggere - ma certo non immaginavano che ci saremmo trovati nelle condizioni di oggi. Perché mettere mano al processo elettorale, al meccanismo da cui parte l'esercizio della sovranità, significa mettere mano all'essenza della democrazia. Cambiare il sistema elettorale per interessi di parte (legge Calderoli) o di ceto politico (come negli accordi bipartitici che si profilano all'orizzonte) non sarà propriamente un colpo di stato ma sicuramente è una ferita grave alla democrazia. Per capirsi: da cittadino, mi accorgo che le proposte in gioco non hanno il fine di aiutarmi a esprimere la mia quota di sovrana volontà votando in base alle mie scelte e orientamenti, ma piuttosto a impormi di votare in un certo modo, a limitarmi le scelte, a dare più peso a certe scelte invece che ad altre.
Tutto questo, in nome di alcuni feticci ideologici: governabilità, bipolarismo, uninominale... Su bipartitismo e uninominale vorrei ripetere una cosa che ci siamo detti molte volte: sono all'origine il prodotto di una democrazia settecentesca parziale e elitaria, in cui votava un solo ceto, una democrazia incipiente. Ma in Italia sono stati imposti su una società matura, complessa, e abituata al suffragio universale: anziché un'apertura, come nelle democrazie anglosassoni del settecento, sono un letto di Procuste su cui costringere il pluralismo della società. Sulla governabilità, un'altra osservazione: non solo le crisi di governo e i cambi di maggioranza non sono affatto scomparse col bipolarismo (siamo già al Prodi 2), ma soprattutto va notato che da quando vige il bipolarismo nessuna maggioranza è stata rieletta, nessun governo ha rivinto le elezioni (e già si dà per scontato che se si votasse neanche questo governo - per la cui rielezione vorrei adoperarmi - sarebbe rieletto). Chiaro che la possibilità dell'alternanza è una garanzia democratica, ma la sua sistematicità è segno anche che, grazie alla governabilità garantita, i governanti si sono isolati nel loro mondo separato giocandosi sistematicamente la credibilità e il consenso dei cittadini. Che, in assenza di altri strumenti, per disfarsi del governo in carica si trovano a rieleggere la maggioranza di cui si erano disfatti nella votazione precedente, e così via. Bel risultato di ingegneria istituzionale democratica.
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