Pete Seeger: la voce semplice della resistenza
Qualche tempo fa, capitai a casa di Dario Toccaceli, musicista e organizzatore culturale di lungo corso. Sentivamo dischi e parlavamo del più e del meno, quando gli capitò di dire che fra i nastri sparsi dentro casa sua dovevano esserci le uniche registrazioni esistenti dei due memorabili concerti che Pete Seeger aveva fatto nel 1977 a Novara e Torino. Mi resi conto subito che era un tesoro – non che lui non lo sapesse meglio di me, ma non aveva avuto occasione di pubblicarli. Per fortuna, era partita una collaborazione fra il manifesto e il Circolo Gianni Bosio, da cui erano usciti già tre CD. Fu subito chiaro che questo sarebbe stato il quarto. E infatti esce adesso, con titolo di Pete Seeger in Italia, aiutato anche dall’imprevista circostanza dell’omaggio reso da Bruce Springsteen a Seeger nel suo ultimo disco e nel suo prossimo tour – ed è, in assoluto, uno dei più bei dischi di questo grande protagonista della musica popolare e della cultura democratica americana. Pete Seeger in Italia, curato amorevolmente da Dario Toccaceli, presenta il meglio del repertorio di Seeger – da Which Side Are You On a Guantanamera, da John Henry a Darlin’ Corey, colto in un momento di piena maturità artistica, nel possesso completo dei suoi mezzi espressivi, in dialogo con un pubblico reattivo ed entusiasta. Davvero un grande disco, e possiamo essere fieri di averlo fatto noi.
Pete Seeger lo incontrai per la prima volta tanti anni fa, a una riunione della War Resisters League, la venerabile lega di resistenza antimilitarista di New York. Alla fine della riunione, mentre gli altri se ne andavano, rimise a posto le sedie, prese la scopa e, senza ostentata umiltà, pulì il pavimento. Era semplicemente un lavoro da fare: anche una sede abitabile fa parte degli strumenti di resistenza.
Ecco, semplicemente. Le prime volte che sentii la voce di Pete Seeger mi colpì proprio questo: la semplicità. Attenzione, è una semplicità sapiente: una voce calda che conosce i propri limiti, una musicalità profonda, un fraseggio eloquente e mai casuale, un dominio totale su una molteplicità di strumenti. Però, ti accorgi sempre che per Pete Seeger la canzone non è mai una vetrina per esibire la sua bravura con acrobazie vocali; piuttosto, la sapienza della sua voce diventa parte necessaria della canzone, del racconto cantato, e della storia di tutti quelli – operai, vagabondi, carcerati, militanti dei diritti civili, marinai, ribelli, pacifisti … - dalla cui vita vengono le canzoni che canta, o che hanno ispirato quelle che compone. Non c’è virtuosismo, né acrobazie vocali: l’arte di Pete Seeger è soprattutto quella di farci ascoltare quello che ci sta dicendo, e di farlo diventare nostro.
Anche per questo, i suoi dischi più memorabili sono dal vivo, in concerto. La presenza del pubblico non è mai limitata agli applausi alla fine di ogni pezzo, ma è sempre inclusa nell’esecuzione stessa delle canzoni – tanto che spesso la sua voce diventa solo parte di questa nuova voce collettiva. Fa ascoltare il pubblico che canta con lui, non per far vedere quanto è bravo e coinvolgente ma perché la sua comunicazione non è compiuta se le canzoni non vengono condivise, non diventano di tutti. In una lettera rivolta “alla mia gente”, Woody Guthrie – che di Pete Seeger fu maestro, compagno e amico - diceva: “forse voi pensate che io sono l’artista, che io sono il poeta. Ma la mia voce non è che un’eco della vostra, le mie canzoni le ho prese al volo nell’aria in cui voi le avete cantate.” Far cantare il pubblico – cosa in cui è stato maestro prima di tutti – non serve a porsi come leader che trascina le folle, ma come un maestro capace di arricchirle e farle crescere e cambiare. Pete Seeger ci ricorda che la musica, e soprattutto la musica popolare, è di tutti e il suo modo non pretenzioso di porgerla incoraggia tutti a riprendersela, a farla propria – e magari a porsi il problema di rivendicare anche altri beni comuni.
E allora, se ad un certo punto – come in questo disco – si sente che la cinghia dello strumento gli è scivolata dalla spalla e si è dovuto fermare ridendo (e il pubblico ride con lui), questo serve a ricordare anche un’altra cosa: la musica non “è” ma “si fa”, ogni volta diversa, ogni volta qui ed ora, col rischio dell’imperfezione e con la speranza di fare una cosa viva. Una intuizione sapiente di Dario Toccaceli, per esempio, è quella di includere nel CD due performance diverse di alcune canzoni, compresa una Guantanamera ricantata con colleghi latinoamericani del calibro di Pablo Milanés; e allora basta vedere come cambia da un concerto all’altro Roseanne per seguire le tappe progressive della ricerca di rapporto con un pubblico che parla un’altra lingua.
Pete Seeger è un artista che più intrinsecamente americano, anzi New England, non si può. Ma ogni suo disco ci ricorda che è anche un artista generosamente internazionale, e coscientemente internazionalista. Zufola giocando una tarantella siciliana, musica siciliana nella Torino degli immigrati, come per ringraziare dell’ospitalità; accetta tranquillamente i limiti del suo spagnolo in Viva la Quince Brigada o Guantanamera, come pedaggio necessario per affermare la guerra civile spagnola o la rivoluzione cubana fanno parte della stessa lotta di libertà del movimento operaio di Which Side Are You On o del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti; che la tragedia di John Henry, ammazzato di lavoro, non è separata dalla tragedia di Victor Jara ammazzato dai fascisti nello Estadio Chile, e quando canta il prezioso blues I Don’t Mind Dyin’ non perde l’occasione di ribadire che tanto a Detroit quanto a Torino si fabbricano automobili.
Adesso Pete Seeger ha più di ottant’anni, la voce non è più ferma e sicura come la sentiamo in questo disco, ma le dita accarezzano ancora le corde degli strumenti. In rete, circola la sua ultima incisione (http://www.afterdowningstreet.org\downloads\seeger.mp3). Introdotta e accompagnata dagli accordi del banjo, la sua voce non canta ma parla: “Che paese vi viene in mente quando sentite parlare di un governo che spia illegalmente i suoi cittadini, produce informazioni false, detiene prigionieri senza prove e senza difesa e processo, combatte guerre illegali basate sulle menzogne, uccide civili, tortura i prigionieri di guerra, usa armi illegali contro i civili, i giornali, gli ospedali? Per fortuna la nostra costituzione ha un rimedio: l’impeachment. Impeach George Bush, liberiamoci di lui.” Il vecchio “war resister” è ancora sulla breccia e non ha fatto un passo indietro. Durante la guerra in Vietnam, patriottico e antagonista, cantava: “Se vuoi bene allo zio Sam, sostieni i ragazzi giù in Vietnam: riportali a casa!”. Quella sera, dopo la riunione, Pete si domandava se lo strumento “folk” del futuro non sarebbe stato la chitarra elettrica. Adesso, durante un’altra guerra, questa canzone nata sul banjo di Pete Seeger ritorna con la voce e la chitarra di Bruce Springsteen.
Pete Seeger lo incontrai per la prima volta tanti anni fa, a una riunione della War Resisters League, la venerabile lega di resistenza antimilitarista di New York. Alla fine della riunione, mentre gli altri se ne andavano, rimise a posto le sedie, prese la scopa e, senza ostentata umiltà, pulì il pavimento. Era semplicemente un lavoro da fare: anche una sede abitabile fa parte degli strumenti di resistenza.
Ecco, semplicemente. Le prime volte che sentii la voce di Pete Seeger mi colpì proprio questo: la semplicità. Attenzione, è una semplicità sapiente: una voce calda che conosce i propri limiti, una musicalità profonda, un fraseggio eloquente e mai casuale, un dominio totale su una molteplicità di strumenti. Però, ti accorgi sempre che per Pete Seeger la canzone non è mai una vetrina per esibire la sua bravura con acrobazie vocali; piuttosto, la sapienza della sua voce diventa parte necessaria della canzone, del racconto cantato, e della storia di tutti quelli – operai, vagabondi, carcerati, militanti dei diritti civili, marinai, ribelli, pacifisti … - dalla cui vita vengono le canzoni che canta, o che hanno ispirato quelle che compone. Non c’è virtuosismo, né acrobazie vocali: l’arte di Pete Seeger è soprattutto quella di farci ascoltare quello che ci sta dicendo, e di farlo diventare nostro.
Anche per questo, i suoi dischi più memorabili sono dal vivo, in concerto. La presenza del pubblico non è mai limitata agli applausi alla fine di ogni pezzo, ma è sempre inclusa nell’esecuzione stessa delle canzoni – tanto che spesso la sua voce diventa solo parte di questa nuova voce collettiva. Fa ascoltare il pubblico che canta con lui, non per far vedere quanto è bravo e coinvolgente ma perché la sua comunicazione non è compiuta se le canzoni non vengono condivise, non diventano di tutti. In una lettera rivolta “alla mia gente”, Woody Guthrie – che di Pete Seeger fu maestro, compagno e amico - diceva: “forse voi pensate che io sono l’artista, che io sono il poeta. Ma la mia voce non è che un’eco della vostra, le mie canzoni le ho prese al volo nell’aria in cui voi le avete cantate.” Far cantare il pubblico – cosa in cui è stato maestro prima di tutti – non serve a porsi come leader che trascina le folle, ma come un maestro capace di arricchirle e farle crescere e cambiare. Pete Seeger ci ricorda che la musica, e soprattutto la musica popolare, è di tutti e il suo modo non pretenzioso di porgerla incoraggia tutti a riprendersela, a farla propria – e magari a porsi il problema di rivendicare anche altri beni comuni.
E allora, se ad un certo punto – come in questo disco – si sente che la cinghia dello strumento gli è scivolata dalla spalla e si è dovuto fermare ridendo (e il pubblico ride con lui), questo serve a ricordare anche un’altra cosa: la musica non “è” ma “si fa”, ogni volta diversa, ogni volta qui ed ora, col rischio dell’imperfezione e con la speranza di fare una cosa viva. Una intuizione sapiente di Dario Toccaceli, per esempio, è quella di includere nel CD due performance diverse di alcune canzoni, compresa una Guantanamera ricantata con colleghi latinoamericani del calibro di Pablo Milanés; e allora basta vedere come cambia da un concerto all’altro Roseanne per seguire le tappe progressive della ricerca di rapporto con un pubblico che parla un’altra lingua.
Pete Seeger è un artista che più intrinsecamente americano, anzi New England, non si può. Ma ogni suo disco ci ricorda che è anche un artista generosamente internazionale, e coscientemente internazionalista. Zufola giocando una tarantella siciliana, musica siciliana nella Torino degli immigrati, come per ringraziare dell’ospitalità; accetta tranquillamente i limiti del suo spagnolo in Viva la Quince Brigada o Guantanamera, come pedaggio necessario per affermare la guerra civile spagnola o la rivoluzione cubana fanno parte della stessa lotta di libertà del movimento operaio di Which Side Are You On o del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti; che la tragedia di John Henry, ammazzato di lavoro, non è separata dalla tragedia di Victor Jara ammazzato dai fascisti nello Estadio Chile, e quando canta il prezioso blues I Don’t Mind Dyin’ non perde l’occasione di ribadire che tanto a Detroit quanto a Torino si fabbricano automobili.
Adesso Pete Seeger ha più di ottant’anni, la voce non è più ferma e sicura come la sentiamo in questo disco, ma le dita accarezzano ancora le corde degli strumenti. In rete, circola la sua ultima incisione (http://www.afterdowningstreet.org\downloads\seeger.mp3). Introdotta e accompagnata dagli accordi del banjo, la sua voce non canta ma parla: “Che paese vi viene in mente quando sentite parlare di un governo che spia illegalmente i suoi cittadini, produce informazioni false, detiene prigionieri senza prove e senza difesa e processo, combatte guerre illegali basate sulle menzogne, uccide civili, tortura i prigionieri di guerra, usa armi illegali contro i civili, i giornali, gli ospedali? Per fortuna la nostra costituzione ha un rimedio: l’impeachment. Impeach George Bush, liberiamoci di lui.” Il vecchio “war resister” è ancora sulla breccia e non ha fatto un passo indietro. Durante la guerra in Vietnam, patriottico e antagonista, cantava: “Se vuoi bene allo zio Sam, sostieni i ragazzi giù in Vietnam: riportali a casa!”. Quella sera, dopo la riunione, Pete si domandava se lo strumento “folk” del futuro non sarebbe stato la chitarra elettrica. Adesso, durante un’altra guerra, questa canzone nata sul banjo di Pete Seeger ritorna con la voce e la chitarra di Bruce Springsteen.