Monongah, 1907: l'inferno in West Virginia
il manifesto, 13.12.2007
Mi raccontava anni fa Francesco Mongiardo (gli americani lo pronunciavano “Frank Majority”), scalpellino, figlio di minatore immigrato dalla Campania in West Virginia: “Mio padre sbarcò a New York nel 1902. Dopo passato il controllo immigrazione, l’hanno mandati alla stazione centrale e lì nessuno sapeva l’inglese, e gli hanno messo delle targhette al collo con la destinazione – come bestiame, insomma. E li hanno marcati per il West Virginia. L’hanno messi sul treno, e spediti in West Virginia.” Li chiamavano blue trains: treni con i finestrini verniciati di blu, così che gli immigrati spediti a destinazione ignota non vedevano neanche dove stavano andando. Continua Frank Majority: “Arrivarono che era notte. A Beckley, credo, nel centro dei giacimenti di carbone. E lì accanto, lungo i binari, c’erano fornaci aperte che bruciavano il carbone per fare il coke. I fuochi accendevano il cielo e mio padre non aveva mai visto niente del genere. Vedevano quei fuochi e quando scesero dal treno videro un nero, grande e grosso, con una sbarra d’acciaio in mano, tutto sudato, che lavora il coke, e pensarono: Siamo arrivati all’inferno, e questo è il diavolo. Erano ragazzi, non avevano mai visto una cosa simile, in un paese sconosciuto…”
L’inferno in West Virginia c’era per davvero: nel 1903, il console d’Italia protestò presso il governo americano (erano altri tempi!) per le condizioni di semi-schiavitù in cui erano tenuti gli immigrati italiani in West Virginia. Non solo loro: “Medievale West Virginia!,” inveiva Mary “Mother” Jones, leggendaria sindacalista dei minatori americani: “quando arrivo in paradiso, voglio parlare a Dio del West Virginia.” In West Virginia, nel 1921, c’era la guerra civile: i minatori in rivolta armata si scontravano con gli eserciti privati dei padroni (i “contractors” di allora), e la nascente aviazione militare americana sperimentava su di loro la guerra aerea e i bombardamenti (per fortuna, in modo fallimentare). Nel 1912, a Paint Creek e Cabin Creek, i minatori si erano ribellati contro il potere feudale delle compagnie minerarie, la complicità delle istituzioni, la violenza della repressione, e per la prima volta avevano conquistato i diritti sindacali. E il 6 dicembre 1907, a Monongah, West Virginia, il più tragico disastro minerario della storia degli Stati Uniti aveva ucciso 361 uomini, di cui 171 italiani, provenienti soprattutto dal Molise, dall’Abruzzo, e poi da tutte le regioni dell’Italia meridionale.
Il Ministero degli Esteri ricorda il centenario di questa “tragedia dimenticata” (non da tutti, non da tutti!) con una ricca e documentata pubblicazione. Mi fa un po’ dissonanza la carta patinata, il “comitato per le celebrazioni” (celebrazioni?) zeppo di autorità. Ma mi commuove la poesia in epigrafe, del poeta immigrato Efrem Bartoletti, figlio di mezzadri umbri, per la fosca ingenuità del tono (“Quale bocca infernal fumida e nera \ e ripiena di Morte e di sciagura…”) ma anche perché è datata Hibbing, Minnesota, 1912 – lo stesso anno dello sciopero di Pant Creek e Cabin Creek, e la stessa città mineraria dove, trent’anni dopo, sarebbe nato Robert Zimmerman, detto Bob Dylan.
Soprattutto, sono di grande utilità l’appendice documentaria e molti dei saggi che costituiscono la parte più importante del libro. Così, Norberto Lombardi colloca Monongah in un contesto terrificante di massacri sul lavoro, con migliaia di vittime, compresi tantissimi italiani: “La tragedia di Monongah è… solo l’apice di un percorso cadenzato di lutti e di dolore… che denota una strutturale esposizione ai rischi e la mancanza di efficaci regole d protezione e di controlli.” Potrebbe averlo scritto adesso: Monongah non è lontano da Newurgh, dove morirono 38 mintaori nel 1886, o da Fairmont, dove nel 1968 ne morirono 78 minatori. Il disastro più recente, in Wet Virginia, è del 2006: dodici morti. Ma ho fra le mani il ritaglio di un giornale di quelle parti che dice, i disastri con molte vittime fanno notizia, ma in miniera si muore uno alla volta, tutti i giorni (ci vuole la strage della Thyssenkrupp a Torino perché media e politici si accorgano dei nostri morti quotidiani).
Ancora: Andreina De Clementi collega la vicenda degli italiani di Monongah alle ragioni storiche dell’emigrazione dalle campagne italiane; Rudolph Vecoli riassume la storia delle lotte e descrive le condizioni feudali a cui si ribellavano i minatori (“In queste company towns i baroni del carbone controllavano tutto, le capanne, le botteghe, i servizi sanitari, le scuole e le chiese, e talvolta anche lo stesso pensiero dei lavoratori. La paga degli operai non era in dollari correnti ma in script della compagnia”, redimibili solo allo spaccio aziendale dove ogni aumento di salario era compensato da un equivalente aumento dei prezzi. Stefano Luconi allarga lo sguardo a tutte le lotte degli operai italiani negli Stati Uniti, dai sigarai siciliani in Florida alle operaie tessili di Lawrence in Massachusetts (dove inventarono la frase “vogliamo il pane, e vogliamo anche le rose”): una storia davvero cancellata da a un’immagine oleografica, conservatrice e sbagliata degli italo-americani promossa da associazioni “etniche” e governanti interessati (d’altronde già molti anni fa Bruno Cartosio aveva parlato di queste vicende come componente di quel movimento operaio internazionale che troppo spesso viene spezzettato nelle narrazioni storiche paese per paese). E poi, l’appendice documentaria, con quei laceranti elenchi di nomi, le lettere, la scrittura faticosa delle lettere dei migranti riprodotte anastaticamente e quella burocratica delle istituzioni, il tira e molla sugli indennizzi fra Washington, Stati Uniti e comuni come Duronia del Sannio o Torella del Sannio, le fotografie, le lapidi, i monumenti commemorativi…
Una classica canzone di Alfredo Bandelli sugli emigranti li chiamava “i deportati della borghesia.” Deportati, importati, contrabbandati, rispediti indietro, ammazzati, archiviati se va bene con duecento dollari alle vedove o ai figli. Il paragone fra gli italiani emigrati e i rumeni o senegalesi immigrati è troppo inevitabile per avere bisogno di sottolinearlo. A me invece viene in mente un’altra cosa. Nello stesso anno in cui l’aviazione bombardava i minatori in West Virginia, gli aerei inglesi bombardavano a tappeto la città di Baghdad. Io credo che anche i morti di Monongah nel 1907 e quelli nell’Irak di oggi sono collegati, parte dello stesso processo: una rivoluzione industriale, una modernità, un dominio di classe che fin dall’inizio hanno mangiato energia, e per continuare a mangiarne massacrano le persone, dell’alto con le bombe nelle guerre per il petrolio in Medio Oriente o nel profondo delle miniere per il carbone. Ne sono morti ancora un centinaio, pochi giorni fa, in Cina.
Mi raccontava anni fa Francesco Mongiardo (gli americani lo pronunciavano “Frank Majority”), scalpellino, figlio di minatore immigrato dalla Campania in West Virginia: “Mio padre sbarcò a New York nel 1902. Dopo passato il controllo immigrazione, l’hanno mandati alla stazione centrale e lì nessuno sapeva l’inglese, e gli hanno messo delle targhette al collo con la destinazione – come bestiame, insomma. E li hanno marcati per il West Virginia. L’hanno messi sul treno, e spediti in West Virginia.” Li chiamavano blue trains: treni con i finestrini verniciati di blu, così che gli immigrati spediti a destinazione ignota non vedevano neanche dove stavano andando. Continua Frank Majority: “Arrivarono che era notte. A Beckley, credo, nel centro dei giacimenti di carbone. E lì accanto, lungo i binari, c’erano fornaci aperte che bruciavano il carbone per fare il coke. I fuochi accendevano il cielo e mio padre non aveva mai visto niente del genere. Vedevano quei fuochi e quando scesero dal treno videro un nero, grande e grosso, con una sbarra d’acciaio in mano, tutto sudato, che lavora il coke, e pensarono: Siamo arrivati all’inferno, e questo è il diavolo. Erano ragazzi, non avevano mai visto una cosa simile, in un paese sconosciuto…”
L’inferno in West Virginia c’era per davvero: nel 1903, il console d’Italia protestò presso il governo americano (erano altri tempi!) per le condizioni di semi-schiavitù in cui erano tenuti gli immigrati italiani in West Virginia. Non solo loro: “Medievale West Virginia!,” inveiva Mary “Mother” Jones, leggendaria sindacalista dei minatori americani: “quando arrivo in paradiso, voglio parlare a Dio del West Virginia.” In West Virginia, nel 1921, c’era la guerra civile: i minatori in rivolta armata si scontravano con gli eserciti privati dei padroni (i “contractors” di allora), e la nascente aviazione militare americana sperimentava su di loro la guerra aerea e i bombardamenti (per fortuna, in modo fallimentare). Nel 1912, a Paint Creek e Cabin Creek, i minatori si erano ribellati contro il potere feudale delle compagnie minerarie, la complicità delle istituzioni, la violenza della repressione, e per la prima volta avevano conquistato i diritti sindacali. E il 6 dicembre 1907, a Monongah, West Virginia, il più tragico disastro minerario della storia degli Stati Uniti aveva ucciso 361 uomini, di cui 171 italiani, provenienti soprattutto dal Molise, dall’Abruzzo, e poi da tutte le regioni dell’Italia meridionale.
Il Ministero degli Esteri ricorda il centenario di questa “tragedia dimenticata” (non da tutti, non da tutti!) con una ricca e documentata pubblicazione. Mi fa un po’ dissonanza la carta patinata, il “comitato per le celebrazioni” (celebrazioni?) zeppo di autorità. Ma mi commuove la poesia in epigrafe, del poeta immigrato Efrem Bartoletti, figlio di mezzadri umbri, per la fosca ingenuità del tono (“Quale bocca infernal fumida e nera \ e ripiena di Morte e di sciagura…”) ma anche perché è datata Hibbing, Minnesota, 1912 – lo stesso anno dello sciopero di Pant Creek e Cabin Creek, e la stessa città mineraria dove, trent’anni dopo, sarebbe nato Robert Zimmerman, detto Bob Dylan.
Soprattutto, sono di grande utilità l’appendice documentaria e molti dei saggi che costituiscono la parte più importante del libro. Così, Norberto Lombardi colloca Monongah in un contesto terrificante di massacri sul lavoro, con migliaia di vittime, compresi tantissimi italiani: “La tragedia di Monongah è… solo l’apice di un percorso cadenzato di lutti e di dolore… che denota una strutturale esposizione ai rischi e la mancanza di efficaci regole d protezione e di controlli.” Potrebbe averlo scritto adesso: Monongah non è lontano da Newurgh, dove morirono 38 mintaori nel 1886, o da Fairmont, dove nel 1968 ne morirono 78 minatori. Il disastro più recente, in Wet Virginia, è del 2006: dodici morti. Ma ho fra le mani il ritaglio di un giornale di quelle parti che dice, i disastri con molte vittime fanno notizia, ma in miniera si muore uno alla volta, tutti i giorni (ci vuole la strage della Thyssenkrupp a Torino perché media e politici si accorgano dei nostri morti quotidiani).
Ancora: Andreina De Clementi collega la vicenda degli italiani di Monongah alle ragioni storiche dell’emigrazione dalle campagne italiane; Rudolph Vecoli riassume la storia delle lotte e descrive le condizioni feudali a cui si ribellavano i minatori (“In queste company towns i baroni del carbone controllavano tutto, le capanne, le botteghe, i servizi sanitari, le scuole e le chiese, e talvolta anche lo stesso pensiero dei lavoratori. La paga degli operai non era in dollari correnti ma in script della compagnia”, redimibili solo allo spaccio aziendale dove ogni aumento di salario era compensato da un equivalente aumento dei prezzi. Stefano Luconi allarga lo sguardo a tutte le lotte degli operai italiani negli Stati Uniti, dai sigarai siciliani in Florida alle operaie tessili di Lawrence in Massachusetts (dove inventarono la frase “vogliamo il pane, e vogliamo anche le rose”): una storia davvero cancellata da a un’immagine oleografica, conservatrice e sbagliata degli italo-americani promossa da associazioni “etniche” e governanti interessati (d’altronde già molti anni fa Bruno Cartosio aveva parlato di queste vicende come componente di quel movimento operaio internazionale che troppo spesso viene spezzettato nelle narrazioni storiche paese per paese). E poi, l’appendice documentaria, con quei laceranti elenchi di nomi, le lettere, la scrittura faticosa delle lettere dei migranti riprodotte anastaticamente e quella burocratica delle istituzioni, il tira e molla sugli indennizzi fra Washington, Stati Uniti e comuni come Duronia del Sannio o Torella del Sannio, le fotografie, le lapidi, i monumenti commemorativi…
Una classica canzone di Alfredo Bandelli sugli emigranti li chiamava “i deportati della borghesia.” Deportati, importati, contrabbandati, rispediti indietro, ammazzati, archiviati se va bene con duecento dollari alle vedove o ai figli. Il paragone fra gli italiani emigrati e i rumeni o senegalesi immigrati è troppo inevitabile per avere bisogno di sottolinearlo. A me invece viene in mente un’altra cosa. Nello stesso anno in cui l’aviazione bombardava i minatori in West Virginia, gli aerei inglesi bombardavano a tappeto la città di Baghdad. Io credo che anche i morti di Monongah nel 1907 e quelli nell’Irak di oggi sono collegati, parte dello stesso processo: una rivoluzione industriale, una modernità, un dominio di classe che fin dall’inizio hanno mangiato energia, e per continuare a mangiarne massacrano le persone, dell’alto con le bombe nelle guerre per il petrolio in Medio Oriente o nel profondo delle miniere per il carbone. Ne sono morti ancora un centinaio, pochi giorni fa, in Cina.