Le Fosse Ardeatine e la memoria abbandonata
il manifesto 25.3.09
L’anniversario della strage nazista delle Fosse Ardeatine è stato segnato quest’anno da un doppio, concentrico pessimo uso della memoria: la falsificazione antipartigiana da una parte, l’esorcismo conciliatorio dall’altra.
La falsificazione è l’indecente campagna scatenata dal giornale ufficiale dei vescovi cattolici e ripresa dall’immarcescibile TG2, sulla presunta responsabilità dei partigiani, rei di non essersi consegnati ai nazisti per evitare la rappresaglia. Le basi di questa campagna sono quanto di più inconsistente: per l’ennesima volta, è saltato fuori qualcuno che dice o scrive di avere visto il mitico manifesto in cui si invitavano i partigiani a “presentarsi.”
Non è una gran scoperta: di gente che sostiene la stessa cosa ce n’è sotto ogni sampietrino di Roma. Però c’è anche gente che sostiene di avere visto l’autostoppista fantasma e la babysitter assassina: perché di questo si tratta, di una leggenda metropolitana (un po’ meno innocua), o meglio di un mito nel senso pieno della parola – cioè, di una narrazione talmente necessaria per sorreggere una convinzione a priori da essere del tutto impermeabile ai fatti. E’ inutile sforzarsi di argomentare le risultanze della ricerca storica, fare appello ai documenti. Che gliene frega ai giornalisti dell’Avvenire che il generale Kesselring negò in tribunale che quei manifesti fossero mai esistiti, anzi disse che non ci avevano nemmeno pensato; e che il boia della Ardeatine, Herbert Kappler, al suo processo non ne abbia mai fatto cenno; e che da nessun archivio ne sia mai saltata fuori una copia o almeno una fotografia; e che il manifesto effettivamente affisso dai nazisti desse notizia della strage solo dopo che era già avvenuta (“quest’ordine è già stato eseguito”)? Basta il primo venuto che dice il contrario per strillare “Ecco la prova” – un titolo che da solo indica che la “prova” serve solo a confermare quello di cui erano convinti già prima: la colpa è dei partigiani, i nazisti poverini ci sono stati costretti. D’altronde, non aveva scritto la stessa cosa l’Osservatore Romano il giorno dopo il massacro?
L’esorcismo conciliatorio si è realizzato ritualmente davanti al luogo della strage, con ex fascisti neanche tanto ex come La Russa a versare (metaforicamente, metaforicamente!) lacrime di coccodrillo sulle vittime “dei totalitarismi”. Nel luogo più sacro della memoria dell’antifascismo, gli antifascisti erano assenti, flebili o generici. Abbiamo affidato agli eredi di Almirante pure la nostra memoria, pure la Resistenza deve aspettare che sia Fini a rendergli l’onore che non si nega agli sconfitti. Il gesto di omaggio, in parte opportunistico e in parte autentico, reso da Fini alle Ardeatine all’inizio degli anni ’90 si è trasformato nel suo contrario: nella definitiva appropriazione alla destra di uno dei nostri luoghi di memoria più cari. Non si tratta di definitiva accettazione da parte della destra dei valori dell’antifascismo, come vorrebbero letture ottimistiche; si tratta del contrario, della relegazione dell’antifascismo a un passato che ha solo valenza rituale. L’ennesima indecente assimilazione di nazismo e comunismo (di fronte a un luogo dove sono sepolti più di cento comunisti ammazzati dai nazisti) e l’ammonimento a non ripetere gli “errori del passato” (quali, esattamente? Li vogliamo nominare?) servono in ultima analisi a prendere le distanze dalla storia, a relegare nel passato i rischi della nostra civiltà, e all’apologia del nostro democratico, bipartitico e governabile presente di ronde, xenofobie, razzismi.
Ma non è a questo che serve la memoria. La memoria serve a disturbare il presente, a metterci a disagio, a farci stare male. Le Fosse Ardeatine non sono, ricordiamolo, il peggior crimine nazista in Italia (ricordiamoci di Marzabotto e, Spike Lee a parte, di Sant’Anna di Stazzema, e delle infinite stragi piccole medie e grandi dalla Sicilia a Bassano del Grappa). Non sono neanche il peggio che sia successo a Roma: sono quasi duemila gli ebrei romani che non sono tornati dai campi di sterminio; e nessuno ha un conto esatto di quanti sono tornati fra i settecento carabinieri deporti a ottobre 1943 o i novecento deportati del Quadraro ad aprile del ’44 – e neanche delle migliaia sepolte sotto i bombardamenti alleati. Se le Fosse Ardeatine hanno un potere così grande sulle nostre passioni, allora, è soprattutto per le modalità che ne fanno in un certo senso la sintesi simbolica di tutte queste stragi: il luogo, una grande città, capitale dello stato e della chiesa cattolica; la composizione geografica e sociale delle vittime, provenienti da tutta Italia, da tutte le classi sociali, da tutto l’arco delle generazioni, delle scelte politiche, delle religioni (compresi gli apolitici e gli atei).
Ma soprattutto, la memoria delle Fosse Ardeatine ci disturba per il modo in cui si è compiuta la strage. Sbagliano le lapidi affisse in giro per Roma che commemorano gli uccisi come vittime della “barbarie”, della “bestialità, della “ferocia” nazista. Le Fosse Ardeatine non sono una strage barbara, sono una strage profondamente civilizzata: come i campi di sterminio non si potevano fare senza le ferrovie e i computer, anche le Ardeatine non si potevano fare senza quei pilastri dello stato moderno che sono gli archivi da cui desumere gli elenchi dei candidati alla morte, la logistica per trasportarli sul luogo della morte, la burocrazia per spuntare i nomi dalle liste. Solo l’Occidente moderno ha i mezzi per fare cose simili. I “barbari”, i “selvaggi”, le bestie sono capaci di fare cose orrende; ma questa l’abbiamo fatta noi uomini civili con gli strumenti della nostra civiltà. Insieme a tante cose nobili e belle, alle radici dell’Europa ci sono le Fosse Ardeatine, Babi Yar, Auschwitz. Di questo dovremmo parlare, il 24 marzo di ogni anno.
E non l’ha fatta la “belva nazista” che ossessionava l’immaginario del piccolo Grossman in Vedi alla voce amore: l’hanno fatta “uomini comuni,” esseri umani come noi. In tutta la sua autodifesa al processo, Herbert Kappler insisteva sul “rispetto umano” per vittime e carnefici insieme: non far sparare troppo da vicino per non sfigurare i cadaveri, non dare i conforti religiosi alle vittime per non doverli dolorosamente interrompere per ammazzarle, confortare paternamente i poveri soldati che andavano in pezzi dopo tante ore di sangue… Come facciamo a non riconoscere noi stessi nelle parole di Kappler (il paradossale dibattito californiano se l’iniezione mortale sia o meno una pena crudele…), a non vederci i germi delle nostre guerre umanitarie, dei nostri bombardamenti democratici, delle nostre civilizzate torture?
Se la strage delle Ardeatine l’hanno compiuta uomini civili come noi, vuol dire che il rischio ce l’abbiamo dentro anche noi. Possiamo essere vittime, ma possiamo essere carnefici, o complici silenziosi. La figlia di uno degli uccisi delle Ardeatine si interrogava sulle finestre chiuse mentre sotto, per le strade di Roma, passavano i camion con i destinati alla morte. Ecco, forse un “errore del passato” da non ripetere è chiudere di nuovo le finestre quando dalle nostre basi partono gli aerei per Abu Ghraib, o quando nelle nostre strade scorrono i camion e le ronde verso le violenze sempre nuove e sempre uguali del nostro tempo.
L’anniversario della strage nazista delle Fosse Ardeatine è stato segnato quest’anno da un doppio, concentrico pessimo uso della memoria: la falsificazione antipartigiana da una parte, l’esorcismo conciliatorio dall’altra.
La falsificazione è l’indecente campagna scatenata dal giornale ufficiale dei vescovi cattolici e ripresa dall’immarcescibile TG2, sulla presunta responsabilità dei partigiani, rei di non essersi consegnati ai nazisti per evitare la rappresaglia. Le basi di questa campagna sono quanto di più inconsistente: per l’ennesima volta, è saltato fuori qualcuno che dice o scrive di avere visto il mitico manifesto in cui si invitavano i partigiani a “presentarsi.”
Non è una gran scoperta: di gente che sostiene la stessa cosa ce n’è sotto ogni sampietrino di Roma. Però c’è anche gente che sostiene di avere visto l’autostoppista fantasma e la babysitter assassina: perché di questo si tratta, di una leggenda metropolitana (un po’ meno innocua), o meglio di un mito nel senso pieno della parola – cioè, di una narrazione talmente necessaria per sorreggere una convinzione a priori da essere del tutto impermeabile ai fatti. E’ inutile sforzarsi di argomentare le risultanze della ricerca storica, fare appello ai documenti. Che gliene frega ai giornalisti dell’Avvenire che il generale Kesselring negò in tribunale che quei manifesti fossero mai esistiti, anzi disse che non ci avevano nemmeno pensato; e che il boia della Ardeatine, Herbert Kappler, al suo processo non ne abbia mai fatto cenno; e che da nessun archivio ne sia mai saltata fuori una copia o almeno una fotografia; e che il manifesto effettivamente affisso dai nazisti desse notizia della strage solo dopo che era già avvenuta (“quest’ordine è già stato eseguito”)? Basta il primo venuto che dice il contrario per strillare “Ecco la prova” – un titolo che da solo indica che la “prova” serve solo a confermare quello di cui erano convinti già prima: la colpa è dei partigiani, i nazisti poverini ci sono stati costretti. D’altronde, non aveva scritto la stessa cosa l’Osservatore Romano il giorno dopo il massacro?
L’esorcismo conciliatorio si è realizzato ritualmente davanti al luogo della strage, con ex fascisti neanche tanto ex come La Russa a versare (metaforicamente, metaforicamente!) lacrime di coccodrillo sulle vittime “dei totalitarismi”. Nel luogo più sacro della memoria dell’antifascismo, gli antifascisti erano assenti, flebili o generici. Abbiamo affidato agli eredi di Almirante pure la nostra memoria, pure la Resistenza deve aspettare che sia Fini a rendergli l’onore che non si nega agli sconfitti. Il gesto di omaggio, in parte opportunistico e in parte autentico, reso da Fini alle Ardeatine all’inizio degli anni ’90 si è trasformato nel suo contrario: nella definitiva appropriazione alla destra di uno dei nostri luoghi di memoria più cari. Non si tratta di definitiva accettazione da parte della destra dei valori dell’antifascismo, come vorrebbero letture ottimistiche; si tratta del contrario, della relegazione dell’antifascismo a un passato che ha solo valenza rituale. L’ennesima indecente assimilazione di nazismo e comunismo (di fronte a un luogo dove sono sepolti più di cento comunisti ammazzati dai nazisti) e l’ammonimento a non ripetere gli “errori del passato” (quali, esattamente? Li vogliamo nominare?) servono in ultima analisi a prendere le distanze dalla storia, a relegare nel passato i rischi della nostra civiltà, e all’apologia del nostro democratico, bipartitico e governabile presente di ronde, xenofobie, razzismi.
Ma non è a questo che serve la memoria. La memoria serve a disturbare il presente, a metterci a disagio, a farci stare male. Le Fosse Ardeatine non sono, ricordiamolo, il peggior crimine nazista in Italia (ricordiamoci di Marzabotto e, Spike Lee a parte, di Sant’Anna di Stazzema, e delle infinite stragi piccole medie e grandi dalla Sicilia a Bassano del Grappa). Non sono neanche il peggio che sia successo a Roma: sono quasi duemila gli ebrei romani che non sono tornati dai campi di sterminio; e nessuno ha un conto esatto di quanti sono tornati fra i settecento carabinieri deporti a ottobre 1943 o i novecento deportati del Quadraro ad aprile del ’44 – e neanche delle migliaia sepolte sotto i bombardamenti alleati. Se le Fosse Ardeatine hanno un potere così grande sulle nostre passioni, allora, è soprattutto per le modalità che ne fanno in un certo senso la sintesi simbolica di tutte queste stragi: il luogo, una grande città, capitale dello stato e della chiesa cattolica; la composizione geografica e sociale delle vittime, provenienti da tutta Italia, da tutte le classi sociali, da tutto l’arco delle generazioni, delle scelte politiche, delle religioni (compresi gli apolitici e gli atei).
Ma soprattutto, la memoria delle Fosse Ardeatine ci disturba per il modo in cui si è compiuta la strage. Sbagliano le lapidi affisse in giro per Roma che commemorano gli uccisi come vittime della “barbarie”, della “bestialità, della “ferocia” nazista. Le Fosse Ardeatine non sono una strage barbara, sono una strage profondamente civilizzata: come i campi di sterminio non si potevano fare senza le ferrovie e i computer, anche le Ardeatine non si potevano fare senza quei pilastri dello stato moderno che sono gli archivi da cui desumere gli elenchi dei candidati alla morte, la logistica per trasportarli sul luogo della morte, la burocrazia per spuntare i nomi dalle liste. Solo l’Occidente moderno ha i mezzi per fare cose simili. I “barbari”, i “selvaggi”, le bestie sono capaci di fare cose orrende; ma questa l’abbiamo fatta noi uomini civili con gli strumenti della nostra civiltà. Insieme a tante cose nobili e belle, alle radici dell’Europa ci sono le Fosse Ardeatine, Babi Yar, Auschwitz. Di questo dovremmo parlare, il 24 marzo di ogni anno.
E non l’ha fatta la “belva nazista” che ossessionava l’immaginario del piccolo Grossman in Vedi alla voce amore: l’hanno fatta “uomini comuni,” esseri umani come noi. In tutta la sua autodifesa al processo, Herbert Kappler insisteva sul “rispetto umano” per vittime e carnefici insieme: non far sparare troppo da vicino per non sfigurare i cadaveri, non dare i conforti religiosi alle vittime per non doverli dolorosamente interrompere per ammazzarle, confortare paternamente i poveri soldati che andavano in pezzi dopo tante ore di sangue… Come facciamo a non riconoscere noi stessi nelle parole di Kappler (il paradossale dibattito californiano se l’iniezione mortale sia o meno una pena crudele…), a non vederci i germi delle nostre guerre umanitarie, dei nostri bombardamenti democratici, delle nostre civilizzate torture?
Se la strage delle Ardeatine l’hanno compiuta uomini civili come noi, vuol dire che il rischio ce l’abbiamo dentro anche noi. Possiamo essere vittime, ma possiamo essere carnefici, o complici silenziosi. La figlia di uno degli uccisi delle Ardeatine si interrogava sulle finestre chiuse mentre sotto, per le strade di Roma, passavano i camion con i destinati alla morte. Ecco, forse un “errore del passato” da non ripetere è chiudere di nuovo le finestre quando dalle nostre basi partono gli aerei per Abu Ghraib, o quando nelle nostre strade scorrono i camion e le ronde verso le violenze sempre nuove e sempre uguali del nostro tempo.