W.E.B. DuBois: sulla linea del colore
Tantissimi anni fa, sarà stato il 1969, su un banco di libri di seconda mano a New York, comprai un piccolo libro con la copertina gialla, di un autore che non avevo mai sentito nominare – W. E. B. Du Bois, chi era costui? – ma con un titolo affascinante: The Souls of Black Folk, le anime del popolo nero. Fu una lettura emozionante e sconvolgente: Du Bois intrecciava come nessuno una prosa eloquente e poetica con una critica tagliente, un’osservazione sociale e una partecipazione emotiva profonde. E mi domandavo come mai non ne avevo mai sentito parlare.
Scriveva tanti anni fa Cesare Pavese: sono finiti i tempi in cui scoprivamo l’America. Lui si riferiva a un certo senso di disillusione postbellica, al senso che l’America immaginata non avesse quella forza propulsiva democratica in cui avevano sperato gli antifascisti. Ma io credo che i tempi in cui scoprivamo l’America siano finiti nel momento in cui abbiamo smesso di essere soggetti attivi della ricerca e della scoperta e ci siamo accontentati di recepire acriticamente le immagini e i canoni che l’America egemonica ci trasmetteva. E abbiamo lasciato sterminati territori d’America ancora inesplorati. L’opera di Du Bois – ghettizzato in quanto nero, cancellato in quanto anticolonialista e infine comunista, eppure grandissimo –è uno degli esempi più significativi: che capiamo dell’America, noi che crediamo di saperne tutto, se ignoriamo uno dei suoi grandi protagonisti?
Le anime del popolo nero è’ uno dei grandi capolavori di tutta la letteratura e di tutto il pensiero sociale americano. E’ del 1903, ma ha dovuto aspettare il 2007 per essere tradotto (grazie a Paola Boi) in un’Italia che ripubblica a scatola chiusa qualunque banale novità d’importazione. Nel 1975 era uscito, isolato e ignorato, in saggio di Lauso Zagato su uno dei suoi grandi capolavori storiogafici, Black Reconstruction. Ma solo adesso a Du Bois è dedicata finalmente un’eccellente scelta di scritti politici e sociologici, curata ed esaurientemente introdotta da Sandro Mezzadra (Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, Il Mulino) che permette ai lettori italiani di riconoscere in questo leader politico, sociologo, storico, poeta e romanziere afroamericano –uno dei giganti del ventesimo secolo, non solo negli Stati Uniti ma in tutta quell’area triangolare che intreccia America, Europa e Africa. Nato nel 1863 nel New England, Du Bois fu il primo afroamericano a prendere il dottorato a Harvard (studiando con William James), si perfezionò a Berlino con Max Weber (e al ritorno fondò la sociologia moderna negli Stati Uniti), creò la National Association for the Advancement of Colored People, promosse i congressi panafricani che preparano le indipendenze africane, morì nel 1960 ad Accra, capitale di un Ghana appena diventato indipendente, dopo essersi iscritto, a novant’anni, al partito comunista.
Le anime del popolo nero si apriva con un saggio – ripreso anche in questa antologia – in cui Du Bois poneva la domanda cruciale: un nero, un americano: posso essere entrambe le cose? L’elezione di Barack Obama sembrava voler dire che, finalmente, sì, si può. Ma una parte considerevole, rumorosa e influente del paese continua a insistere che no, non si può: il nero Obama non può essere americano letteralmente (secondo i “birthers” non è nato negli Stati Uniti) né culturalmente (il 40% di americani continua a credere che sia musulmano – cioè, come proclamava il pastore Terry Jones, una creatura del diavolo). Ma è una domanda che dovremmo porre anche noi: si può essere “negri italiani”, si può essere sia Rom, sia italiani.
Le risposte di Du Bois a questa domanda si evolvono nel corso della sua lunga vita. Alla fine risposta sembra essere: no. Quando in piena guerra fredda il governo degli Stati Uniti gli toglie il passaporto, lui prende la cittadinanza del Ghana. Ma lo sforzo di tenere insieme “queste due anime, due pensieri, due tensioni non conciliate, due ideali contrastanti in un solo corpo scuro, la cui tenace forza soltanto lo trattiene dall’andare in pezzi” e di “fondere il suo doppio sé in un sé migliore e più vero” alimenta una ricerca sempre aperta e in evoluzione, molto ben documentata in questa antologia – dall’ipotesi giovanile di fondare sull’accettazione delle teorie positivistiche ottocentesche sulle razze un progetto di unità di azione politica e culturale dei neri d’America, alla rivendicazione di un diritto di cittadinanza fondato su secoli di lavoro africano nella costruzione d’America e sulla partecipazione dei neri alla prima guerra mondiale, fino all’impegno per l’unità panafricana e di qui per l’unità fra il modo africano di entrambi i lati dell’Atlantico e il movimento operaio mondiale.
Era il 1891, e il giovane William Edward Burghardt Du Bois confutava nella sua tesi di laurea il mito secondo cui il razzismo nascerebbe da un originario “senso di repulsione” fra le razze: “l’evidenza storica”, scriveva, mostra che “il pregiudizio fece la sua comparsa soltanto dopo un lungo periodo di alimentazione artificiale attraverso le leggi del paese” (quanta xenofobia italiana oggi è “spontanea” e quanta è alimentata e prodotta a leggi e governi?). Più tardi, un capitolo (anche questo incluso nel libro) della sua autobiografia decostruiva l’idea stessa di “razza” semplicemente raccontando chi erano i suoi antenati – africani, francesi, olandesi, un intreccio inestricabile che peraltro sta già in quel suo lungo e complicato nome anglosassone (William), olandese (Burghardt) e francese (Du Bois). Più avanti, rileggeva la storia dell’Africa precoloniale non solo per dimostrare infondatezza delle teoria sull’”inferiorità” innata degli africani per restituirgli un ruolo centrale nella storia di tutti.
Quando lessi per la prima volta Le anime del popolo nero rimasi folgorato dall’affermazione che dà il titolo anche all’antologia curata da Mezzadra: “il problema del ventesimo secolo è il problema della linea del colore”. La linea del colore è quella che lacera le anime del popolo nero, che attraversa il corpo dello stesso Du Bois (come Obama, sia bianco, sia nero), e che spacca il mondo orizzontalmente fra Nord e Sud e verticalmente lungo l’”Atlantico nero” fra America e Africa – e che viene attraversata e ribadita dal commercio degli schiavi (a cui Du Bois dedica uno dei suoi libri più importanti), dal colonialismo e dall’imperialismo.
In questo senso, il saggio su “Il saccheggio dell’Africa” dovrebbe essere lettura obbligata di chiunque voglia capire il mondo globalizzato in cui viviamo. Insieme al C. L. R. James dei Giacobini neri, il Du Bois del “Saccheggio dell’Africa” fa saltare le versioni eurocentriche della storia mondiale: se, come dimostra James, l’evento che cambia radicalmente la storia del mondo è la rivoluzione di Haiti, qui Du Bois riassume gli argomenti e i dati che dimostrano inequivocabilmente che la ricchezza, il progresso, la modernità del Nord del mondo si reggono sul sistematico saccheggio delle persone e delle risorse del continente africano e dell’Asia. La storia del mondo che si fa a Londra, Parigi e New York dipende dalla storia del mondo che fanno i cacciatori di schiavi e di avorio nel Benin e nel Congo. E abbiamo buoni motivi per pensare che, con qualche cambiamento e spostamento di metodi e di luoghi, sia ancora oggi così.
Allo stesso modo, in Black Reconstruction (su cui giustamente Mezzadra si sofferma nell’introduzione) Du Bois demolisce le letture etnocentriche e patriottarde della Guerra Civile: non è Lincoln a liberare gli schiavi, ma lo “sciopero generale e la fuga di massa degli schiavi che fa crollare la Confederazione sudista e decide una guerra che il Nord non riusciva a vincere. Il discorso antirazzista e antimperialista, dunque, non si limita alla protesta e all’elenco degli orrori, ma fonda un altro protagonismo panafricano nella storia mondiale, dai grandi imperi precoloniali in Africa alla centralità afroamericana nella storia degli Stati Uniti. Ed è infine la riluttanza ad ammettere questo protagonismo e questa centralità che relega giganti come Du Bois nella nicchia artificiale e marginale degli studi “etnici” sulle “minoranze” e che fin qui ha permesso a gente istruita e progressista di non spere chi è. Per esempio, qualche anno fa, il più “colto” dei nostri quotidiani pubblicava nella pagina dei libri l’articolo di un suo corrispondente dagli Stati Uniti che irrideva alla Enciclopedia afroamericana curata da Henry Louis Gates, Jr. e Anthony Appiah: pensate, diceva scandalizzato, che questi danno più spazio a uno sconosciuto come Du Bois che a Kant (nello stesso articolo, scriveva che C. L. R. James era un giocatore di cricket!). Quando gli proposi un intervento per spiegare chi era Du Bois, dissero arrogantemente che ai loro lettori non interessava. Ma ho il sospetto che leggeremmo anche Kant diversamente, un po’ meno eurocentricamente, se avessimo un po’ di frequentazione con Du Bois.
Una sola osservazione marginale. Rendere in italiano la prosa complessa di Du Bois è un’impresa improba, e i traduttori di questo libro hanno fatto un lavoro lodevole. Inevitabilmente, qualche scoria resta. Un esempio. Quando nel capitolo iniziale Du Bois parla delle contraddizioni a causa delle quali l’artigiano nero finisce per diventare “a poor craftsman”, la traduzione non è tanto “un povero operaio” quanto “un artigiano scadente”: Du Bois non cerca qui di suscitare la nostra compassione per i lavoratori sfruttati, ma denuncia senza indulgenza anche gli effetti di degrado che la linea del colore produce sulle anime del popolo nero. Ma sono inezie, in un lavoro prezioso e ben fatto.
Scriveva tanti anni fa Cesare Pavese: sono finiti i tempi in cui scoprivamo l’America. Lui si riferiva a un certo senso di disillusione postbellica, al senso che l’America immaginata non avesse quella forza propulsiva democratica in cui avevano sperato gli antifascisti. Ma io credo che i tempi in cui scoprivamo l’America siano finiti nel momento in cui abbiamo smesso di essere soggetti attivi della ricerca e della scoperta e ci siamo accontentati di recepire acriticamente le immagini e i canoni che l’America egemonica ci trasmetteva. E abbiamo lasciato sterminati territori d’America ancora inesplorati. L’opera di Du Bois – ghettizzato in quanto nero, cancellato in quanto anticolonialista e infine comunista, eppure grandissimo –è uno degli esempi più significativi: che capiamo dell’America, noi che crediamo di saperne tutto, se ignoriamo uno dei suoi grandi protagonisti?
Le anime del popolo nero è’ uno dei grandi capolavori di tutta la letteratura e di tutto il pensiero sociale americano. E’ del 1903, ma ha dovuto aspettare il 2007 per essere tradotto (grazie a Paola Boi) in un’Italia che ripubblica a scatola chiusa qualunque banale novità d’importazione. Nel 1975 era uscito, isolato e ignorato, in saggio di Lauso Zagato su uno dei suoi grandi capolavori storiogafici, Black Reconstruction. Ma solo adesso a Du Bois è dedicata finalmente un’eccellente scelta di scritti politici e sociologici, curata ed esaurientemente introdotta da Sandro Mezzadra (Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, Il Mulino) che permette ai lettori italiani di riconoscere in questo leader politico, sociologo, storico, poeta e romanziere afroamericano –uno dei giganti del ventesimo secolo, non solo negli Stati Uniti ma in tutta quell’area triangolare che intreccia America, Europa e Africa. Nato nel 1863 nel New England, Du Bois fu il primo afroamericano a prendere il dottorato a Harvard (studiando con William James), si perfezionò a Berlino con Max Weber (e al ritorno fondò la sociologia moderna negli Stati Uniti), creò la National Association for the Advancement of Colored People, promosse i congressi panafricani che preparano le indipendenze africane, morì nel 1960 ad Accra, capitale di un Ghana appena diventato indipendente, dopo essersi iscritto, a novant’anni, al partito comunista.
Le anime del popolo nero si apriva con un saggio – ripreso anche in questa antologia – in cui Du Bois poneva la domanda cruciale: un nero, un americano: posso essere entrambe le cose? L’elezione di Barack Obama sembrava voler dire che, finalmente, sì, si può. Ma una parte considerevole, rumorosa e influente del paese continua a insistere che no, non si può: il nero Obama non può essere americano letteralmente (secondo i “birthers” non è nato negli Stati Uniti) né culturalmente (il 40% di americani continua a credere che sia musulmano – cioè, come proclamava il pastore Terry Jones, una creatura del diavolo). Ma è una domanda che dovremmo porre anche noi: si può essere “negri italiani”, si può essere sia Rom, sia italiani.
Le risposte di Du Bois a questa domanda si evolvono nel corso della sua lunga vita. Alla fine risposta sembra essere: no. Quando in piena guerra fredda il governo degli Stati Uniti gli toglie il passaporto, lui prende la cittadinanza del Ghana. Ma lo sforzo di tenere insieme “queste due anime, due pensieri, due tensioni non conciliate, due ideali contrastanti in un solo corpo scuro, la cui tenace forza soltanto lo trattiene dall’andare in pezzi” e di “fondere il suo doppio sé in un sé migliore e più vero” alimenta una ricerca sempre aperta e in evoluzione, molto ben documentata in questa antologia – dall’ipotesi giovanile di fondare sull’accettazione delle teorie positivistiche ottocentesche sulle razze un progetto di unità di azione politica e culturale dei neri d’America, alla rivendicazione di un diritto di cittadinanza fondato su secoli di lavoro africano nella costruzione d’America e sulla partecipazione dei neri alla prima guerra mondiale, fino all’impegno per l’unità panafricana e di qui per l’unità fra il modo africano di entrambi i lati dell’Atlantico e il movimento operaio mondiale.
Era il 1891, e il giovane William Edward Burghardt Du Bois confutava nella sua tesi di laurea il mito secondo cui il razzismo nascerebbe da un originario “senso di repulsione” fra le razze: “l’evidenza storica”, scriveva, mostra che “il pregiudizio fece la sua comparsa soltanto dopo un lungo periodo di alimentazione artificiale attraverso le leggi del paese” (quanta xenofobia italiana oggi è “spontanea” e quanta è alimentata e prodotta a leggi e governi?). Più tardi, un capitolo (anche questo incluso nel libro) della sua autobiografia decostruiva l’idea stessa di “razza” semplicemente raccontando chi erano i suoi antenati – africani, francesi, olandesi, un intreccio inestricabile che peraltro sta già in quel suo lungo e complicato nome anglosassone (William), olandese (Burghardt) e francese (Du Bois). Più avanti, rileggeva la storia dell’Africa precoloniale non solo per dimostrare infondatezza delle teoria sull’”inferiorità” innata degli africani per restituirgli un ruolo centrale nella storia di tutti.
Quando lessi per la prima volta Le anime del popolo nero rimasi folgorato dall’affermazione che dà il titolo anche all’antologia curata da Mezzadra: “il problema del ventesimo secolo è il problema della linea del colore”. La linea del colore è quella che lacera le anime del popolo nero, che attraversa il corpo dello stesso Du Bois (come Obama, sia bianco, sia nero), e che spacca il mondo orizzontalmente fra Nord e Sud e verticalmente lungo l’”Atlantico nero” fra America e Africa – e che viene attraversata e ribadita dal commercio degli schiavi (a cui Du Bois dedica uno dei suoi libri più importanti), dal colonialismo e dall’imperialismo.
In questo senso, il saggio su “Il saccheggio dell’Africa” dovrebbe essere lettura obbligata di chiunque voglia capire il mondo globalizzato in cui viviamo. Insieme al C. L. R. James dei Giacobini neri, il Du Bois del “Saccheggio dell’Africa” fa saltare le versioni eurocentriche della storia mondiale: se, come dimostra James, l’evento che cambia radicalmente la storia del mondo è la rivoluzione di Haiti, qui Du Bois riassume gli argomenti e i dati che dimostrano inequivocabilmente che la ricchezza, il progresso, la modernità del Nord del mondo si reggono sul sistematico saccheggio delle persone e delle risorse del continente africano e dell’Asia. La storia del mondo che si fa a Londra, Parigi e New York dipende dalla storia del mondo che fanno i cacciatori di schiavi e di avorio nel Benin e nel Congo. E abbiamo buoni motivi per pensare che, con qualche cambiamento e spostamento di metodi e di luoghi, sia ancora oggi così.
Allo stesso modo, in Black Reconstruction (su cui giustamente Mezzadra si sofferma nell’introduzione) Du Bois demolisce le letture etnocentriche e patriottarde della Guerra Civile: non è Lincoln a liberare gli schiavi, ma lo “sciopero generale e la fuga di massa degli schiavi che fa crollare la Confederazione sudista e decide una guerra che il Nord non riusciva a vincere. Il discorso antirazzista e antimperialista, dunque, non si limita alla protesta e all’elenco degli orrori, ma fonda un altro protagonismo panafricano nella storia mondiale, dai grandi imperi precoloniali in Africa alla centralità afroamericana nella storia degli Stati Uniti. Ed è infine la riluttanza ad ammettere questo protagonismo e questa centralità che relega giganti come Du Bois nella nicchia artificiale e marginale degli studi “etnici” sulle “minoranze” e che fin qui ha permesso a gente istruita e progressista di non spere chi è. Per esempio, qualche anno fa, il più “colto” dei nostri quotidiani pubblicava nella pagina dei libri l’articolo di un suo corrispondente dagli Stati Uniti che irrideva alla Enciclopedia afroamericana curata da Henry Louis Gates, Jr. e Anthony Appiah: pensate, diceva scandalizzato, che questi danno più spazio a uno sconosciuto come Du Bois che a Kant (nello stesso articolo, scriveva che C. L. R. James era un giocatore di cricket!). Quando gli proposi un intervento per spiegare chi era Du Bois, dissero arrogantemente che ai loro lettori non interessava. Ma ho il sospetto che leggeremmo anche Kant diversamente, un po’ meno eurocentricamente, se avessimo un po’ di frequentazione con Du Bois.
Una sola osservazione marginale. Rendere in italiano la prosa complessa di Du Bois è un’impresa improba, e i traduttori di questo libro hanno fatto un lavoro lodevole. Inevitabilmente, qualche scoria resta. Un esempio. Quando nel capitolo iniziale Du Bois parla delle contraddizioni a causa delle quali l’artigiano nero finisce per diventare “a poor craftsman”, la traduzione non è tanto “un povero operaio” quanto “un artigiano scadente”: Du Bois non cerca qui di suscitare la nostra compassione per i lavoratori sfruttati, ma denuncia senza indulgenza anche gli effetti di degrado che la linea del colore produce sulle anime del popolo nero. Ma sono inezie, in un lavoro prezioso e ben fatto.