30 maggio 2011
15 maggio 2011
hyssenKrupp: un libro già scritto
il manifesto 14.5.2011
Seppellita in fondo a un lungo articolo nella sezione economia finanza e mercati di Repubblica del 14 maggio c’è la seguente precisazione: Heinrich Hieisinger, consigliere delegato della ThyssenKrupp, ha escluso che lo scorporo o la vendita dell’impianto acciai inossidabili di Terni sia legato alla condanna del manager Harald Espenhahn per l’omicidio con dolo preventivo dei sette operai torinesi. Anche un paio di giorni prima (ancora la sezione economica di Repubblica, 11 maggio) i responsabili dell’azienda avevano negato che ci fosse un nesso fra la sentenza torinese, gli applausi della Confindustria al condannato (in primo grado, certo), la possibilità dallo stesso ventilata che la TK potesse andarsene dall’Italia, e le decisioni in atto.
D’altra parte, il processo di dismissione era già nell’orizzonte delle lotte sulla chiusura del magnetico nel 2004-2005. Per esempio, un giovanissimo operaio ternano mi diceva allora: “una multinazionale che può fare il bello e il cattivo tempo sull’andamento dell’acciaio nel mondo, se vogliono chiudere una fabbrica qui lo fanno senza pensarci due volte. Loro avranno un libro, un libro già scritto: leggono e fanno. Gli azionisti lo scrivono e gli amministratori delegati leggono e fanno”. Altri spiegavano che nella conclusione amara dello sciopero del 2005 pesava un ricatto non dichiarato: se non si accettavano le sue condizioni, la ThyssenKrupp era perfettamente in grado di chiudere del tutto non solo il magnetico, ma tutto quanto, e trasferire le produzioni ad altre sua fabbriche sparse per il mondo. Nell’accordo firmato allora, la permanenza a Terni del resto delle produzioni era condizionata impegni delle amministrazioni che non sono stati mantenuti (la creazione di infrastrutture stradali e ferroviarie ad hoc) o non si possono mantenere (uno sconto sul costo dell’energia, che è vietato dalla normativa europea).
Tuttavia, nella logica del “dopo questo, quindi per questo”, il fatto che lo scorporo di Terni sia annunciato sull’onda della sentenza di Torino è come minimo uno straordinario colpo di teatro e un pesante gesto di pubbliche relazioni e di strategia comunicativa. In primo luogo, questa relazione esplicitamente negata ma subdolamente suggerita sposta la responsabilità dei 3500 posti di lavoro a rischio non più su chi li licenzia ma su chi ha “provocato” il licenziamento: e guarda caso, sono i nemici pubblici numero uno del nostro tempo, i magistrati e la Fiom. In secondo luogo, su un piano più di lungo periodo, questa è quella che conosciamo coma la logica della rappresaglia: il potere offeso si rifà sugli innocenti, e la colpa della strage non è di chi li uccide ma di chi ne ha provocato l’onnipotente furore violando l’intangibilità del suo dominio. Il capitale sovrano non solo non accetta responsabilità ma, come una vera e propria forza di occupazione, vuole spazio libero e terra bruciata intorno a sé: nessuna regola, nessun contropotere, solo la forza bruta della violenza e del ricatto. Chi si mette di mezzo lo fa non solo a suo rischio, a ma rischio di tutti.
Sappiamo bene come un successo delle rappresaglie sia stato proprio quello di generare un diffuso senso comune antipartigiano. Su un piano diverso, ma non poi tantissimo, ci sono già i sintomi di un nuovo senso comune anti-magistrati e anti-sindacale che mette le vite umane in secondo piano rispetto alla sovranità delle aziende (questo è il senso non tanto dell’applauso della Confindustria a Espenhahn, quanto dell’invito stesso: lo scandalo sta nel chiamarlo a parlare, poi chiaro che gli batti le mani, mica l’hai invitato per sputargli in faccia) da cui dipende, in una subalternità sempre più gravosa e inattaccabile, la sopravvivenza di chi vive del proprio lavoro e per viverci corre il rischio di morirci. Se denunciare gli incidenti e punire chi ne ha la colpa significa mettere a rischio le condizioni di vita degli altri, allora c’è davvero il rischio che la pratica di quei padroncini di cantiere che, con il silenzio forzoso dei loro dipendenti, nascondevano lontano il corpo degli operai uccisi sul lavoro diventi il paradigma del diritto alla vita di chi lavora in Italia.
Se invece tutto questo non c’entra – e sono convinto che, come confermano i compagni del sindacato a Terni, al di là del teatro non c’entra – allora la domanda è un’altra: possibile che si tratti di un imprevedibile fulmine a ciel sereno, una di subitanea catastrofe naturale? Non sarà cioè che, nel neofeudalesimo della globalizzazione, in un’Europa governata, come scriveva Marco D’Eramo, da poteri non eletti e non sottoposti a nessun controllo democratico, noi subiamo le scelte di poteri lontani e imperscrutabili come ineluttabili fatalità? O non sarà invece che, mentre tutto questo era nell’aria, le persone e le istituzioni che sono responsabili di seguire e sorvegliare le politiche industriali in Italia – governo, opposizione, università, uffici studi, sindacati…- non avevano visto i segni o non se ne erano preoccupati, e quindi non avevano preparato una strategia, una risposta, una alternativa – in altre parole: una politica?
Nel frattempo, proprio quando di politica e di governo ci sarebbe più bisogno, l’amministrazione di centro-sinistra di Terni va frantumi per beghe locali fra le anime diverse del partito a vocazione maggioritaria. Poi si lamentano quando qualcuno gli dice che non sono affidabili.
Seppellita in fondo a un lungo articolo nella sezione economia finanza e mercati di Repubblica del 14 maggio c’è la seguente precisazione: Heinrich Hieisinger, consigliere delegato della ThyssenKrupp, ha escluso che lo scorporo o la vendita dell’impianto acciai inossidabili di Terni sia legato alla condanna del manager Harald Espenhahn per l’omicidio con dolo preventivo dei sette operai torinesi. Anche un paio di giorni prima (ancora la sezione economica di Repubblica, 11 maggio) i responsabili dell’azienda avevano negato che ci fosse un nesso fra la sentenza torinese, gli applausi della Confindustria al condannato (in primo grado, certo), la possibilità dallo stesso ventilata che la TK potesse andarsene dall’Italia, e le decisioni in atto.
D’altra parte, il processo di dismissione era già nell’orizzonte delle lotte sulla chiusura del magnetico nel 2004-2005. Per esempio, un giovanissimo operaio ternano mi diceva allora: “una multinazionale che può fare il bello e il cattivo tempo sull’andamento dell’acciaio nel mondo, se vogliono chiudere una fabbrica qui lo fanno senza pensarci due volte. Loro avranno un libro, un libro già scritto: leggono e fanno. Gli azionisti lo scrivono e gli amministratori delegati leggono e fanno”. Altri spiegavano che nella conclusione amara dello sciopero del 2005 pesava un ricatto non dichiarato: se non si accettavano le sue condizioni, la ThyssenKrupp era perfettamente in grado di chiudere del tutto non solo il magnetico, ma tutto quanto, e trasferire le produzioni ad altre sua fabbriche sparse per il mondo. Nell’accordo firmato allora, la permanenza a Terni del resto delle produzioni era condizionata impegni delle amministrazioni che non sono stati mantenuti (la creazione di infrastrutture stradali e ferroviarie ad hoc) o non si possono mantenere (uno sconto sul costo dell’energia, che è vietato dalla normativa europea).
Tuttavia, nella logica del “dopo questo, quindi per questo”, il fatto che lo scorporo di Terni sia annunciato sull’onda della sentenza di Torino è come minimo uno straordinario colpo di teatro e un pesante gesto di pubbliche relazioni e di strategia comunicativa. In primo luogo, questa relazione esplicitamente negata ma subdolamente suggerita sposta la responsabilità dei 3500 posti di lavoro a rischio non più su chi li licenzia ma su chi ha “provocato” il licenziamento: e guarda caso, sono i nemici pubblici numero uno del nostro tempo, i magistrati e la Fiom. In secondo luogo, su un piano più di lungo periodo, questa è quella che conosciamo coma la logica della rappresaglia: il potere offeso si rifà sugli innocenti, e la colpa della strage non è di chi li uccide ma di chi ne ha provocato l’onnipotente furore violando l’intangibilità del suo dominio. Il capitale sovrano non solo non accetta responsabilità ma, come una vera e propria forza di occupazione, vuole spazio libero e terra bruciata intorno a sé: nessuna regola, nessun contropotere, solo la forza bruta della violenza e del ricatto. Chi si mette di mezzo lo fa non solo a suo rischio, a ma rischio di tutti.
Sappiamo bene come un successo delle rappresaglie sia stato proprio quello di generare un diffuso senso comune antipartigiano. Su un piano diverso, ma non poi tantissimo, ci sono già i sintomi di un nuovo senso comune anti-magistrati e anti-sindacale che mette le vite umane in secondo piano rispetto alla sovranità delle aziende (questo è il senso non tanto dell’applauso della Confindustria a Espenhahn, quanto dell’invito stesso: lo scandalo sta nel chiamarlo a parlare, poi chiaro che gli batti le mani, mica l’hai invitato per sputargli in faccia) da cui dipende, in una subalternità sempre più gravosa e inattaccabile, la sopravvivenza di chi vive del proprio lavoro e per viverci corre il rischio di morirci. Se denunciare gli incidenti e punire chi ne ha la colpa significa mettere a rischio le condizioni di vita degli altri, allora c’è davvero il rischio che la pratica di quei padroncini di cantiere che, con il silenzio forzoso dei loro dipendenti, nascondevano lontano il corpo degli operai uccisi sul lavoro diventi il paradigma del diritto alla vita di chi lavora in Italia.
Se invece tutto questo non c’entra – e sono convinto che, come confermano i compagni del sindacato a Terni, al di là del teatro non c’entra – allora la domanda è un’altra: possibile che si tratti di un imprevedibile fulmine a ciel sereno, una di subitanea catastrofe naturale? Non sarà cioè che, nel neofeudalesimo della globalizzazione, in un’Europa governata, come scriveva Marco D’Eramo, da poteri non eletti e non sottoposti a nessun controllo democratico, noi subiamo le scelte di poteri lontani e imperscrutabili come ineluttabili fatalità? O non sarà invece che, mentre tutto questo era nell’aria, le persone e le istituzioni che sono responsabili di seguire e sorvegliare le politiche industriali in Italia – governo, opposizione, università, uffici studi, sindacati…- non avevano visto i segni o non se ne erano preoccupati, e quindi non avevano preparato una strategia, una risposta, una alternativa – in altre parole: una politica?
Nel frattempo, proprio quando di politica e di governo ci sarebbe più bisogno, l’amministrazione di centro-sinistra di Terni va frantumi per beghe locali fra le anime diverse del partito a vocazione maggioritaria. Poi si lamentano quando qualcuno gli dice che non sono affidabili.
12 maggio 2011
"America Profonda": recensione di Bruno Cartosio
il manifesto 5.5.2011
MEMORIA OPERAIA
L'orgoglio dal sottosuolo
«America profonda» di Alessandro Portelli è uno straordinario spaccato di una comunità di minatori nell’Harlan County diventata il simbolo del movimento sindacale statunitense e delle sue battaglie per affermare i diritti civili e sociali della classe lavoratrice. Gli scioperi repressi dalla polizia e dalle guardie private assoldate dai padroni delle miniere, l’eliminazione dei militanti sindacali, mentre gli scavi devastavano e inquinavano un’intera contea. Ma anche la dignità di svolgere un mestiere che pochi volevano fare.
L'«America profonda» è quella grande parte della società statunitense di cui quasi nessuno parla - e di cui ogni tanto qualcuno straparla - perché quasi tutti ne sanno poco o nulla. Qualcuno ne vede frammenti, come dei fotogrammi, nel corso di un suo viaggio coast to coast o da nord a sud, ma raramente collega tra loro le disparate marginalità che gli passano sotto gli occhi e le solleva al di sopra dell'inatteso, del curioso o del pittoresco. Qualche volta la si vede al cinema o in tv, spesso in forma di caricatura. Compare nelle cronache quando in essa succedono cose da paura. Quell'America così priva della familiarità che le metropoli hanno ai nostri occhi è un mosaico fatto di luoghi diversi, sempre lontani dalle grandi città,spesso caratterizzati dalla diffusa povertà e dal fatto che chi le abita lavora (o ha lavorato, o lavorerebbe se ne avesse la possibilità) nei settori primari dell'economia: agricoltura, allevamento, miniere.
"America profonda" di Alessandro Portelli (Donzelli, pp. V-XXII, 535, euro 35) racconta di un pezzo di quel mondo. La contea di Harlan che è al centro della sua narrazione è collocata tra le cime e le valli dei Monti appalachiani del Kentucky sud-orientale. Per tutto il secolo scorso la Harlan County è stata un luogo di miniere di carbone - a lungo perforate nel sottosuolo, negli ultimi decenni a cielo aperto - e di grandi lotte operaie, di resistenza umana e di disastri ambientali.
Gli essenziali in gioco
È un mondo che Portelli ha frequentato e studiato per più di trent'anni e le persone che parlano nel libro lo hanno accolto e spesso ospitato in casa loro, con cui ha parlato ripetutamente e che gli hanno raccontato le loro storie personali e familiari e le storie dei luoghi e gli hanno cantato le loro canzoni. Il libro dà conto delle centinaia di interlocuzioni registrate nel corso degli anni attraverso le trascrizioni delle voci, tagliate e montate in base a un ordine tematico che si sviluppa lungo un asse cronologico e copre l'intero ultimo secolo.
L'architettura del libro è, nella sostanza, analoga a quella già sperimentata nelle due precedenti opere maggiori di Portelli: Biografia di una città, su Terni, e L'ordine è già stato eseguito. Anche in America profonda il filo storico-narrativo è tenuto insieme dalle parti scritte in prima persona dall'autore, che mette in ordine, connette, elabora, spiega, contestualizza i suoi «materiali», offrendo al lettore un'altra straordinaria prova di lavoro interdisciplinare. E infatti, così come il libro su Via Rasella e le Fosse ardeatine gli aveva valso il premio Viareggio nel 1999, quest'ultima fatica - uscita prima negli Stati Uniti che in Italia - gli ha meritato il «Weatherford Award» dell'«Appalachian Studies Association» e del «Loyal Jones Appalachian Center» del Berea College.
Le città del carbone
In una sua nota diaristica, di lavoro, citata nell'introduzione, Portelli scriveva nel 1988: «Quello che è in gioco qui sono gli essenziali: vita, morte; acqua, aria, terra. La natura. Tutto è ridotto all'osso. Le colline scendono ripide verso le valli strette dove c'è a malapena spazio per la strada, il torrente e i binari; i pendii sono o lussureggianti di foglie selvagge, o spogliati nudi fino alle ossa di carbone della terra. La vita è spesso violenta ed estrema... Non ho praticamente incontrato neanche una famiglia che non avesse un'esperienza di morte violenta, di invalidità, cecità, malattia. E il sovrannaturale è altrettanto drammatico. La religione è carica di emotività».
E le parole con cui quegli essenziali vengono individuati, evocati, discussi e sofferti sono altrettanto scabre. La religione: Lydia Surgener: «Sono solo due i posti dove andare. Solo due che dominano nei cuori, e sono il Signore o il Diavolo. E finché non sei un cristiano rinato sei un servitore del Diavolo». I rapporti sociali: Kevin Greer: «Mia cugina..l'hanno impiccata su a Pineville. L'hanno impiccata perché stava con un bianco». Annie Napier: «Io non sapevo la differenza tra bianchi poveri e neri poveri, eravamo tutti poveri». Melody Donegan: «L'ospedale quaggiù, se non hai la tessera sanitaria o l'assicurazione o i soldi, non ti accettano».
Nel libro ci sono anche il folklore locale, le tradizioni orali e le canzoni di lotta - una delle più famose dell'intera storia sindacale è Which Side Are You On?, scritta da Florence Reece nel 1931 - e le rappresentazioni letterarie e cinematografiche di Harlan County. Ma la parte principale del libro riguarda inevitabilmente il lavoro e le lotte per conquistare e mantenere il diritto all'organizzazione sindacale. Anche la lotta di classe è un essenziale a Harlan County. Ray Ellis: «Attorno all'inizio del secolo, l'unica cosa che c'era qui era il taglio dei boschi». Poi,subito dopo la Prima guerra mondiale, vennero le miniere e le coaltowns e i camps recintati col filo spinato, in cui tutto era controllato dalla società mineraria, che ai dipendenti dava una casa in cui abitare (finché non li licenziava), che imponeva l'uso dei suoi buoni acquisto nei suoi empori e manteneva l'ordine con la sua polizia privata e le sue prigioni e, spesso, con i predicatori al suo servizio. Hazel Leonard: «La paga non la prendevamo mai, perché non guadagnavamo molto e lo spendevamo tutto al company store». Jerry Johnson: «Avevo dodici anni e finita la scuola andai (IN MINIERA) a aiutare mio padre a caricare carbone». Le leggi sul lavoro infantile non erano rispettate. Tillman Cadle: «Se un ragazzo lavorava col padre, caricava col contrassegno del padre. Così, se si faceva male in miniera o ci moriva, la compagnia diceva: "Questo ragazzo non ci risulta sul libro paga"».
Polmoni neri
C'erano la fatica e la costrizione, ma anche l'orgoglio del proprio lavoro, scrive Portelli, come «combinazione di forza fisica, abilità, coraggio, resistenza e solidarietà sul lavoro». Earl Turner: «Non era solo forza - ci voleva abilità». «Sì ne sono orgoglioso, sono orgoglioso di quello che ho fatto», diceva Bernard Mimes, anche se i padroni delle miniere tenevano più ai muli che agli uomini. Delbert Jones: «Al tempo che organizzavamo il sindacato... magari moriva un uomo in miniera, dicevano, "mettilo sul mucchio delle scorie, lo portiamo fuori stasera, ma stai attento a quel mulo, che non muoia"».
La lotta per l'introduzione e la difesa del sindacato è durata cinquant'anni. Poco di meno l'altra per ottenere le provvidenze contro le malattie del mestiere. Tra queste il blacklung, i polmoni anneriti e irrigiditi dalla polvere di carbone. Lloyd Lefevre: «Non puoi fare niente, non hai abbastanza aria per fare niente. Ti stanchi subito. Ce l'hai nei polmoni» e James Wright: «Ti alzi una mattina e respiri bene, la mattina dopo ti alzi e non ce la fai a respirare». Alla fine il sindacato, la United Mine Workers, istituì le sue cliniche, che durarono fino a quando il sindacato resistette e i suoi iscritti ebbero la consistenza numerica per tenerle in piedi, poi basta. I padroni, niente, mai; le visite mediche le facevano pagare.
Mai nessun diritto nella Bloody Harlan - la Harlan sanguinaria dei padroni, insanguinata del sangue dei lavoratori - che non sia stato strappato con lotte spietate tra i minatori e gli scherani dei padroni quasi sempre in combutta con le polizie locali. I primi tentativi di sindacalizzazione finirono all'inizio degli anni Trenta. Tillman Cadle: «Decisero di spazzare via il sindacato e alla fine ci riuscirono. All'inizio della Grande Depressione, non c'era più traccia di sindacato». Dopo di allora una drammatica ciclicità, in cui a ogni tentativo di sindacalizzazione corrispondevano battaglie, armi in pugno da entrambe le parti, in cui «le regole erano un po' messe da parte. E, giocavamo per vincere. A qualunque costo» (Arthur Johnson).
Le cime decapitate
Ma alla lunga hanno vinto i padroni, sempre sparando su sindacalisti e lavoratori, licenziando i riottosi e mettendoli nelle liste di proscrizione, importando crumiri, affamando i minatori e le loro famiglie. Una delle poche eccezioni è stata la lotta vittoriosa di Brookside, consegnata alla storia dal film girato da Barbara Kopple nel 1973 - Harlan County, USA - che poi vinse l'Oscar per il documentario nel 1977. La presenza fisica della troupe nei giorni e luoghi dello sciopero «forse ha salvato delle vite... Può avere evitato che qualcuno venisse ucciso», ha detto Mickey Messer a Portelli, credibilmente. Già a quel tempo e però sempre più in seguito l'evoluzione dell'industria mineraria chiudeva le miniere di profondità e le sostituiva con lo strip mining e infine con il mountain top removal, la rimozione integrale delle cime delle montagne. Gli effetti sono tanto mortali sul paesaggio, quanto sulle persone: inquinamento delle falde acquifere e dell'aria, masse enormi di detriti giù dai fianchi ripidi delle colline, occlusione dei corsi d'acqua e alluvioni devastanti, esplosioni che lanciano a distanza massi grandi e piccoli. E tuttavia, chiude Portelli, la lotta per sopravvivere non è mai venuta meno. Una voce per tutte: «Sono sopravvissuta a tantissime cose», dice Tammy Haywood; all'assassinio del marito, al tumore al seno, alla fatica di crescere i figli da madre sola: «Sì sono una tosta. Ma credo che venga dal fatto che sono nata qui».
MEMORIA OPERAIA
L'orgoglio dal sottosuolo
«America profonda» di Alessandro Portelli è uno straordinario spaccato di una comunità di minatori nell’Harlan County diventata il simbolo del movimento sindacale statunitense e delle sue battaglie per affermare i diritti civili e sociali della classe lavoratrice. Gli scioperi repressi dalla polizia e dalle guardie private assoldate dai padroni delle miniere, l’eliminazione dei militanti sindacali, mentre gli scavi devastavano e inquinavano un’intera contea. Ma anche la dignità di svolgere un mestiere che pochi volevano fare.
L'«America profonda» è quella grande parte della società statunitense di cui quasi nessuno parla - e di cui ogni tanto qualcuno straparla - perché quasi tutti ne sanno poco o nulla. Qualcuno ne vede frammenti, come dei fotogrammi, nel corso di un suo viaggio coast to coast o da nord a sud, ma raramente collega tra loro le disparate marginalità che gli passano sotto gli occhi e le solleva al di sopra dell'inatteso, del curioso o del pittoresco. Qualche volta la si vede al cinema o in tv, spesso in forma di caricatura. Compare nelle cronache quando in essa succedono cose da paura. Quell'America così priva della familiarità che le metropoli hanno ai nostri occhi è un mosaico fatto di luoghi diversi, sempre lontani dalle grandi città,spesso caratterizzati dalla diffusa povertà e dal fatto che chi le abita lavora (o ha lavorato, o lavorerebbe se ne avesse la possibilità) nei settori primari dell'economia: agricoltura, allevamento, miniere.
"America profonda" di Alessandro Portelli (Donzelli, pp. V-XXII, 535, euro 35) racconta di un pezzo di quel mondo. La contea di Harlan che è al centro della sua narrazione è collocata tra le cime e le valli dei Monti appalachiani del Kentucky sud-orientale. Per tutto il secolo scorso la Harlan County è stata un luogo di miniere di carbone - a lungo perforate nel sottosuolo, negli ultimi decenni a cielo aperto - e di grandi lotte operaie, di resistenza umana e di disastri ambientali.
Gli essenziali in gioco
È un mondo che Portelli ha frequentato e studiato per più di trent'anni e le persone che parlano nel libro lo hanno accolto e spesso ospitato in casa loro, con cui ha parlato ripetutamente e che gli hanno raccontato le loro storie personali e familiari e le storie dei luoghi e gli hanno cantato le loro canzoni. Il libro dà conto delle centinaia di interlocuzioni registrate nel corso degli anni attraverso le trascrizioni delle voci, tagliate e montate in base a un ordine tematico che si sviluppa lungo un asse cronologico e copre l'intero ultimo secolo.
L'architettura del libro è, nella sostanza, analoga a quella già sperimentata nelle due precedenti opere maggiori di Portelli: Biografia di una città, su Terni, e L'ordine è già stato eseguito. Anche in America profonda il filo storico-narrativo è tenuto insieme dalle parti scritte in prima persona dall'autore, che mette in ordine, connette, elabora, spiega, contestualizza i suoi «materiali», offrendo al lettore un'altra straordinaria prova di lavoro interdisciplinare. E infatti, così come il libro su Via Rasella e le Fosse ardeatine gli aveva valso il premio Viareggio nel 1999, quest'ultima fatica - uscita prima negli Stati Uniti che in Italia - gli ha meritato il «Weatherford Award» dell'«Appalachian Studies Association» e del «Loyal Jones Appalachian Center» del Berea College.
Le città del carbone
In una sua nota diaristica, di lavoro, citata nell'introduzione, Portelli scriveva nel 1988: «Quello che è in gioco qui sono gli essenziali: vita, morte; acqua, aria, terra. La natura. Tutto è ridotto all'osso. Le colline scendono ripide verso le valli strette dove c'è a malapena spazio per la strada, il torrente e i binari; i pendii sono o lussureggianti di foglie selvagge, o spogliati nudi fino alle ossa di carbone della terra. La vita è spesso violenta ed estrema... Non ho praticamente incontrato neanche una famiglia che non avesse un'esperienza di morte violenta, di invalidità, cecità, malattia. E il sovrannaturale è altrettanto drammatico. La religione è carica di emotività».
E le parole con cui quegli essenziali vengono individuati, evocati, discussi e sofferti sono altrettanto scabre. La religione: Lydia Surgener: «Sono solo due i posti dove andare. Solo due che dominano nei cuori, e sono il Signore o il Diavolo. E finché non sei un cristiano rinato sei un servitore del Diavolo». I rapporti sociali: Kevin Greer: «Mia cugina..l'hanno impiccata su a Pineville. L'hanno impiccata perché stava con un bianco». Annie Napier: «Io non sapevo la differenza tra bianchi poveri e neri poveri, eravamo tutti poveri». Melody Donegan: «L'ospedale quaggiù, se non hai la tessera sanitaria o l'assicurazione o i soldi, non ti accettano».
Nel libro ci sono anche il folklore locale, le tradizioni orali e le canzoni di lotta - una delle più famose dell'intera storia sindacale è Which Side Are You On?, scritta da Florence Reece nel 1931 - e le rappresentazioni letterarie e cinematografiche di Harlan County. Ma la parte principale del libro riguarda inevitabilmente il lavoro e le lotte per conquistare e mantenere il diritto all'organizzazione sindacale. Anche la lotta di classe è un essenziale a Harlan County. Ray Ellis: «Attorno all'inizio del secolo, l'unica cosa che c'era qui era il taglio dei boschi». Poi,subito dopo la Prima guerra mondiale, vennero le miniere e le coaltowns e i camps recintati col filo spinato, in cui tutto era controllato dalla società mineraria, che ai dipendenti dava una casa in cui abitare (finché non li licenziava), che imponeva l'uso dei suoi buoni acquisto nei suoi empori e manteneva l'ordine con la sua polizia privata e le sue prigioni e, spesso, con i predicatori al suo servizio. Hazel Leonard: «La paga non la prendevamo mai, perché non guadagnavamo molto e lo spendevamo tutto al company store». Jerry Johnson: «Avevo dodici anni e finita la scuola andai (IN MINIERA) a aiutare mio padre a caricare carbone». Le leggi sul lavoro infantile non erano rispettate. Tillman Cadle: «Se un ragazzo lavorava col padre, caricava col contrassegno del padre. Così, se si faceva male in miniera o ci moriva, la compagnia diceva: "Questo ragazzo non ci risulta sul libro paga"».
Polmoni neri
C'erano la fatica e la costrizione, ma anche l'orgoglio del proprio lavoro, scrive Portelli, come «combinazione di forza fisica, abilità, coraggio, resistenza e solidarietà sul lavoro». Earl Turner: «Non era solo forza - ci voleva abilità». «Sì ne sono orgoglioso, sono orgoglioso di quello che ho fatto», diceva Bernard Mimes, anche se i padroni delle miniere tenevano più ai muli che agli uomini. Delbert Jones: «Al tempo che organizzavamo il sindacato... magari moriva un uomo in miniera, dicevano, "mettilo sul mucchio delle scorie, lo portiamo fuori stasera, ma stai attento a quel mulo, che non muoia"».
La lotta per l'introduzione e la difesa del sindacato è durata cinquant'anni. Poco di meno l'altra per ottenere le provvidenze contro le malattie del mestiere. Tra queste il blacklung, i polmoni anneriti e irrigiditi dalla polvere di carbone. Lloyd Lefevre: «Non puoi fare niente, non hai abbastanza aria per fare niente. Ti stanchi subito. Ce l'hai nei polmoni» e James Wright: «Ti alzi una mattina e respiri bene, la mattina dopo ti alzi e non ce la fai a respirare». Alla fine il sindacato, la United Mine Workers, istituì le sue cliniche, che durarono fino a quando il sindacato resistette e i suoi iscritti ebbero la consistenza numerica per tenerle in piedi, poi basta. I padroni, niente, mai; le visite mediche le facevano pagare.
Mai nessun diritto nella Bloody Harlan - la Harlan sanguinaria dei padroni, insanguinata del sangue dei lavoratori - che non sia stato strappato con lotte spietate tra i minatori e gli scherani dei padroni quasi sempre in combutta con le polizie locali. I primi tentativi di sindacalizzazione finirono all'inizio degli anni Trenta. Tillman Cadle: «Decisero di spazzare via il sindacato e alla fine ci riuscirono. All'inizio della Grande Depressione, non c'era più traccia di sindacato». Dopo di allora una drammatica ciclicità, in cui a ogni tentativo di sindacalizzazione corrispondevano battaglie, armi in pugno da entrambe le parti, in cui «le regole erano un po' messe da parte. E, giocavamo per vincere. A qualunque costo» (Arthur Johnson).
Le cime decapitate
Ma alla lunga hanno vinto i padroni, sempre sparando su sindacalisti e lavoratori, licenziando i riottosi e mettendoli nelle liste di proscrizione, importando crumiri, affamando i minatori e le loro famiglie. Una delle poche eccezioni è stata la lotta vittoriosa di Brookside, consegnata alla storia dal film girato da Barbara Kopple nel 1973 - Harlan County, USA - che poi vinse l'Oscar per il documentario nel 1977. La presenza fisica della troupe nei giorni e luoghi dello sciopero «forse ha salvato delle vite... Può avere evitato che qualcuno venisse ucciso», ha detto Mickey Messer a Portelli, credibilmente. Già a quel tempo e però sempre più in seguito l'evoluzione dell'industria mineraria chiudeva le miniere di profondità e le sostituiva con lo strip mining e infine con il mountain top removal, la rimozione integrale delle cime delle montagne. Gli effetti sono tanto mortali sul paesaggio, quanto sulle persone: inquinamento delle falde acquifere e dell'aria, masse enormi di detriti giù dai fianchi ripidi delle colline, occlusione dei corsi d'acqua e alluvioni devastanti, esplosioni che lanciano a distanza massi grandi e piccoli. E tuttavia, chiude Portelli, la lotta per sopravvivere non è mai venuta meno. Una voce per tutte: «Sono sopravvissuta a tantissime cose», dice Tammy Haywood; all'assassinio del marito, al tumore al seno, alla fatica di crescere i figli da madre sola: «Sì sono una tosta. Ma credo che venga dal fatto che sono nata qui».