La polizia uccide
Il 4 febbraio 1999, Amadou Diallo, uno studente africano che era a New York per motivi di studio, fu fermato da quattro agenti di polizia sulla soglia della sua casa del Bronx. Mentre metteva la mano in tasca per estrarre il portafoglio e far vedere i documenti, i quattro gli esplosero contro 41 colpi di arma da fuoco, uccidendolo. Diallo era disarmato. I poliziotti dissero che erano alla ricerca di un criminale e che la sua descrizione poteva corrispondere alla fisionomia di Amadou Diallo. Effettivamente, tanto il ricercato quanto la vittima erano neri. I quattro poliziotti resteranno impuniti.
Pochi mesi dopo, il 4 giugno, ad Atlanta, Bruce Springsteen e la E Street Band eseguono per la prima volta una nuova canzone – 41 Shots: “E’ un’arma, è un coltello, è un portafogli? È la tua vita, non è un segreto che puoi essere ammazzato solo perché vivi nella tua pelle americana”. La strofa centrale della canzone è un dialogo fra una madre e un figlio: “In queste strade, Charles, devi capire le regole. Se un poliziotto ti ferma, promettimi che sarai sempre educato, che non ti metterai a correre e scappare, e che terrai le mani bene in vista”.
Sono praticamente le stesse parole che il sindaco di New York, Bill de Blasio (sua moglie è nera, e quindi lo sono ufficialmente i suoi figli), ha pronunciato dopo l’uccisione impunita di Eric Garner, afroamericano ucciso a New York il 17 luglio 2014 dalla polizia: “Mia moglie e io abbiamo dovuto parlarne per anni a nostro figlio Dante. E’un bravo ragazzo, che rispetta la legge, a cui non verrebbe mai in mente di fare niente di male, eppure c’è una storia che ci pesa addosso, ci sono dei pericoli che corre – abbiamo dovuto letteralmente addestrarlo, come tante famiglie di questa città per decenni, e insegnargli a stare molto attento quando incontra gli agenti di polizia che sono lì per proteggerlo. E’ un doloroso senso di contraddizione che i nostri ragazzi vedono – la polizia è qui per proteggerci eppure c’è una storia che dobbiamo superare, perché tanti dei nostri ragazzi hanno paura. E tante famiglie hanno paura”. Anche il poliziotto che ha ucciso Eric Garner è stato assolto.
I figli del sindaco di New York sono neri. E’ nero anche il presidente degli Stati Uniti, e sono nere le sue figlie. Il 26 febbraio 2012 Trayvon Martin, un ragazzo nero di 17 anni, disarmato, fu ucciso a Sanford, Florida, dal vigilante George Zimmerman (anche lui assolto, dopo un lungo ciclo di indagini e processi). Barack Obama commentò: “Quando penso a quel ragazzo, penso alle mie figlie… Se avessi un figlio, somiglierebbe a Trayvon” – avrebbe la stessa “pelle Americana” e correrebbe gli stessi rischi. Puoi essere figlio del sindaco, figlio del presidente, o un borsista africano del Bronx, non fa differenza: la prima e ultima cosa che gli agenti vedono è la tua pelle.
La morte di Michael Brown, diciottenne disarmato ucciso il 9 agosto 2014 da un poliziotto bianco a Ferguson, Missouri, e quella di Eric Garner, soffocato a morte da un poliziotto bianco a New York il 17 luglio 2014 sono solo un paio fra gli episodi recenti di una lunga storia. Le più drammatiche rivolte dei ghetti americani – Los Angeles 1992, Miami 1996, Cincinnati 2002 – sono scaturite da episodi di violenza poliziesca. Ma gli episodi di Ferguson e New York hanno segnato un cambiamento nello stato d’animo della popolazione afroamericana, e non solo, risultato di un’amara presa d’atto: l’elezione di un presidente afroamericano ha conferito alla comunità nera una maggiore certezza dei propri diritti di cittadinanza, e reso più insopportabile il fatto che continuino ad essere violati impunemente come se niente fosse cambiato. Così, alla mobilitazione locale e nazionale dopo l’uccisione di Michael Brown (e alle risposte violente della polizia), hanno fatto seguito i “die-in” a New York e altrove, in cui centinaia di persone, bianchi e neri insieme come ai tempi della lotta per i diritti civili, si sono distese a terra ripetendo come slogan le ultime parole di Eric Garner: “I can’t breathe”, non posso respirare. Eric Garner è stato ucciso da in “chokehold”, la presa da dietro con le braccia attorno alla gola.
La “chokehold” (“presa a soffocamento”) è parente stretta di quella mortale pratica della”contenzione” che ha provocato non poche vittime anche in Italia. L’abbiamo vista al cinema nella morte di Radio Raheem in Fai la cosa giusta di Spike Lee (che infatti ha mixato le immagini del suo film con quelle della morte di Garner in un video di grande efficacia). “I can’t breathe” è sia una ripresa letterale delle ultime parole di Garner soffocato dalla “chokehold”, sia una metafora dell’atmosfera irrespirabile che si è creata attorno al rapporto fra polizia e minoranze negli Stati Uniti– “la storia che ci grava addosso” , nella parole del sindaco de Blasio. E’ un clima che è stato reso ancora più pesante dall’assassinio di due poliziotti a New York, il 21 dicembre 2014, da parte di un attentatore afroamericano che si è poi suicidato. Nessuno dei due poliziotti uccisi - Liu Wenjin and Raphael Ramos – era bianco. L’evento ha aggravato ancora di più la tensione fra le forze di polizia da un lato e la comunità afroamericana e i difensori dei diritti civili dall’altro, come se la morte di due agenti delegittimasse le proteste e la rabbia per l’assassinio dei ragazzi neri. Ma gli inviti di de Blasio sospendere le proteste hanno avuto un effetto molto limitato.
A questa tensione contribuiscono una serie di elementi: lo spirito di corpo, la certezza dell’impunità, il razzismo diffuso, il cosiddetto racial profiling, la segregazione residenziale e la cultura delle armi.
Un malinteso spirito di corpo non è certo una specificità americana: i casi Cucchi, Aldrovandi, Magherini e tanti altri mostrano come anche in Italia le cosiddette forze dell’ordine si chiudano a riccio a protezione dei loro membri responsabili di atti di violenza, come se denunciare un abuso da parte di singoli agenti equivalesse ad aggredire l’intera organizzazione anziché cercare di migliorarla. Anche negli Stati Uniti la polizia copre gli abusi invece di liberarsi dei responsabili e arriva (come da noi nel caso di Aldrovandi) a manifestare pubblicamente in difesa dei responsabili.
Negli Stati Uniti, questa difesa corporativa ha assunto toni anche spettacolari. Si era appena diffusa la notizia della canzone di Bruce Springsteen su Amadou Diallo che i poliziotti di New York si sono dichiarati insultati e offesi e hanno annunciato – seguiti da stampa simpatetica – il boicottaggio dei concerti di Springsteen. La canzone non l’avevano neanche sentita, ma nominare i “41 colpi” gli pareva in sé una provocazione intollerabile: sull’episodio doveva scendere il silenzio, il solo fatto di parlarne era un’aggressione all’intero corpo di polizia. Eppure la canzone è forse l’unico testo nella cultura popolare americana che cerca di vedere anche il punto di vista dei poliziotti e immaginare la loro umanità: la prima strofa li mostra inginocchiati davanti al corpo di Diallo, che pregano disperatamente perché non muoia. Più recentemente, si è ripetuto il gesto clamoroso dei poliziotti che, in occasione della commemorazione dei due commilitoni uccisi, hanno voltato pubblicamente e ostentatamente le spalle al sindaco de Blasio, colpevole di avere constatato che i ragazzi neri hanno motivo di avere paura della polizia.
La dimensione corporativa culmina con il senso di impunità. Anche questa non è una specificità americana: basta pensare alle brillanti carriere dei poliziotti condannati dopo i fatti di Genova del 2001. Allo stesso modo, gli assassini di Amadou Biallo, Michael Brown, Eric Garner, Trayvor Martin sono andati tutti impuniti, ed è stato anche questo che ha suscitato la rabbia e l’indignazione in tutto il paese. C’è una sistematica vicinanza ideologica, sociale e culturale fra l’universo delle forze dell’ordine e quello delle commissioni che indagano e infine decidono sul loro comportamento. Spesso (un po’ come nei nostri processi per stupro – o come nel caso Cucchi), il procedimento nei confronti degli agenti si è trasformato in un’aggressione all’identità delle vittime nel tentativo di dimostrare, contro ogni evidenza, che erano loro gli aggressori (è il caso delle prime versioni della morte di Michael Brown – ma anche il paradossale tentativo di dimostrare che nel caso di Trayvor Martin il vero razzista era lui) o comunque che se l’erano cercata, che se lo meritavano, che erano dei poco di buono marginali.
Al centro di questo quadro, naturalmente, sta il razzismo: il pregiudizio e la paura dell’altro. Non è certo un’esclusiva della polizia, ma diversi studi hanno dimostrato che tra i poliziotti il pregiudizio è ancora più diffuso che nella popolazione in generale. Per esempio, in un esperimento condotto dopo l’uccisione di Diallo, la maggioranza dei soggetti scambiavano oggetti innocui per armi con più frequenza se l’immagine era accompagnata da un faccia nera che non da una faccia bianca; e questa tendenza era ancor più marcata fra gli agenti di polizia che avevano partecipato all’esperimento. Come disse uno dei ricercatori, “i poliziotti sono addestrati ad essere molto sensibili alle armi, ma non a disfare gli stereotipi razziali inconsci”.
Anche qui non si tratta di una speciale perversità americana: un pregiudizio, implicito e talora esplicito, segna anche il rapporto fra forze dell’ordine e stranieri e migranti in Italia. Ma negli Stati Uniti riceve una definizione e una sanzione quasi istituzionale, sotto il nome di “racial profiling”. Il profiling è una tecnica investigativa che cerca di identificare gli autori di atti criminosi ricostruendone dagli indizi disponibili i tratti psicologici e il retroterra culturale; il profiling razziale è invece l’abitudine degli agenti di assumere l’identità etnica o il colore della pelle di una persona come motivo per ritenerla automaticamente sospetta di comportamenti criminali. Teoricamente il “racial profiling” sarebbe vietato, ma nella pratica investe continuamente la vita quotidiana di afroamericani e ispanici. Per esempio, essere neri, magari benvestiti, e alla guida di una macchina non scassata può essere motivo per venire sospettati di averla rubata ed essere fermati e inquisiti (è successo al filosofo e professore universitario Cornell West). Il “black English” afroamericano ha inventato una ironica definizione di questo crimine: DWI, Driving While Black (parodia del DUI, Driving Under the Influence, guida in stato di ubriachezza o sotto gli effetti della droga): guida in stato di nerità. Un rapporto del Dipartimento della Giustizia riferisce che neri e gli ispanici alla guida vengono perquisiti tre volte più spesso dei bianchi quando vengono fermati per motivi di traffico. Gli afroamericani hanno il doppio delle possibilità di essere arrestati e il quadruplo delle possibilità di subire atti violenti in occasione di incontri con la polizia.
Essere nero, giovane e maschio è in sé segno di essere sospetto o direttamente criminali: la presunzione di innocenza si rovescia, sei colpevole fino a prova contraria. Puoi essere anche un professore di Harvard di fama internazionale, come Henry Louis Gates, ma se sei nero e stai armeggiando di fronte alla porta di casa tua, puoi essere arrestato e portato in commissariato (per aver criticato questo comportamento, Barack Obama – sospettato di solidarietà razziale - ha dovuto chiedere scusa al poliziotto protagonista di questo brillante arresto e premiarlo con un invito alla Casa Bianca). Una legge varata in Arizona nel 2010 ordinava che chiunque fosse arrestato per qualunque motivo doveva dimostrare di non essere un immigrato clandestino: ovviamente, il sospetto gravava in primo luogo su chiunque sembrasse di origine messicana o chicana.
L’episodio di Henry Louis Gates rinvia a un altro elemento: la segregazione residenziale. Nella sua narrazione autobiografica (Black Boy, 1946), Richard Wright ricorda la paura con cui lui, ragazzo nero, attraversava i quartieri bianchi tornando a casa dal lavoro. I “restrictive covenants”, gli accordi fra proprietari per non vendere o affittare case ad afroamericani, sono vietati dalle leggi sui diritti civili di Lyndon Johnson negli anni ’60; ma, nella misura in cui la razza si incrocia con la classe, i quartieri restano in gran parte socialmente, e quindi etnicamente omogenei – tanto più in quanto si sono diffuse le cosiddette “gated communities”, i quartieri privati recintati ed esclusivi in cui vive solo chi è simile a tutti gli altri. Così, come un nero al volante di una bella macchina è sospetto di furto, così un nero che apre la porta di casa sua in un quartiere borghese di Cambridge, Massachusetts non può essere altro che un rapinatore. Un nero in un quartiere del genere è un corpo fuori posto: c’entra anche questo nell’uccisione di Trayvor Martin in Florida: prima di scontrarsi con lui e di ucciderlo, il vigilante George Zimmerman chiamò la polizia per avvertire che “un tizio assai sospetto…. un maschio nero... sta guardando le case”, ed è quindi – nero, giovane, maschio - automaticamente sospetto di volerle rapinare.
A tutto questo va aggiunta l’ossessione americana per le armi. Questo elemento funziona in due direzioni convergenti. Da un lato, questo significa che la polizia, spesso munita - come quella di Ferguson, Missouri, di armi pesanti da guerra – non ha molte remore a usarle. Dall’altro, il fatto che ci siano così tante armi in circolazione induce negli agenti l’aspettativa che qualunque soggetto “sospetto” sia armato. Nella maggior parte degli Stati Uniti, l’unico elemento di moderazione sul possesso delle armi è la norma che autorizza a portarle purché siano visibili; la Florida, dove viene ucciso Trayvor Martin, è uno di quegli stati che invece autorizzano il possesso di armi anche nascoste. Bisogna armarsi, dice la National Rifle Association, perché solo così ci si può difendere dagli aggressori armati che stanno dappertutto: una mentalità da assedio che si traduce, dopo l’11 settembre, in quell’ossessione del terrorismo che salda le paure private alle paranoie pubbliche
Così, al pregiudizio e al “racial profiling” si aggiunge la paura. I poliziotti vedono una minaccia in ogni nero e in ogni ispanico povero nel posto sbagliato: Andy Lopez, un ragazzino messico-americano di13 anni, viene ucciso a Sonoma, California, il 22 ottobre 2013, da un delegato dello sceriffo che scambia il suo fucile giocattolo per un’arma vera. Certo, spesso le armi sono vere sul serio, non di rado l’affermazione di avere sparato per legittima difesa corrisponde a verità, e non sono pochi i poliziotti che restano uccisi nell’esercizio delle loro funzioni. Altre volte, si tratta di un’affermazione non dimostrata ma plausibile. Ma anche in questi casi troppo spesso l’addestramento ricevuto non mette i poliziotti in grado di controllare il panico o di rispondere a una minaccia vera o percepita senza uccidere.
Il 24 dicembre 2014, Antonio Martin, 18 anni, è ucciso da un poliziotto a St. Louis, non lontano da Ferguson, mentre sono ancora vive le proteste per l’uccisione di Brown e Garner. La polizia afferma che era armato. Il video di sorveglianza della stazione di servizio dove avviene il fatto mostra che Martin ha un braccio teso verso l’agente; non si distingue nessuna arma ma il poliziotto “ha sparato perché aveva paura per la propria vita”. Era la terza persona uccisa dalla polizia a St. Louis dopo la morte di Michael Brown. In un altro caso la vittima era effettivamente armata e aveva sparato per prima.
Ma al di là di episodi comprensibili, resta il fatto che gli Stati Uniti sono un paese che fa un uso sproporzionato della repressione e del carcere, e che questa distorsione grava in modo sproporzionato sulla popolazione afroamericana e latina. Un documento della National Association for the Advancement of Colored People (l’organizzazione che lavora soprattutto sui diritti legali degli afroamericani), fornisce alcuni dati (http://www.naacp.org/pages/criminal-justice-fact-sheet). Gli Stati Uniti sono il 5% della popolazione mondiale, ma hanno il 25% delle persone in carcere (2,3 milioni al 2008). Il 3,2% della popolazione è sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, in carcere o in libertà provvisoria. Afroamericani e ispanici sono circa un quarto della popolazione degli Stati Uniti, ma costituiscono quasi il 60% dei detenuti. Il 58% dei detenuti nei carceri giovanili è nero; e sono in aumento anche le donne nere detenute. In Italia, dove la quota di stranieri sulla popolazione residente è attorno al 7%, gli stranieri in carcere sono attorno al 23%.
Nel frattempo la polizia continua a uccidere: nel mese di gennaio 2015, quindi dopo tutto quello che è successo dopo la morte di Michael Brown, le persone uccise dalla polizia – di tutti i colori, in ogni genere di circostanze, sono 58. Nel 2014, i morti per mano della polizia superavano i 600.
Il 28 dicembre 2014 a Jacksonville in Florida David Scott è ucciso da una squadra speciale di polizia. L’ufficio dello sceriffo spiega: “Hanno visto che aveva in mano un oggetto che sembrava una pistola, lo puntava come se fosse una pistola, e gli hanno sparato 21 volte al torso, alle braccia e alle gambe.” L’oggetto che aveva in mano, che ha indotto gli agenti a un panico omicida, era una scatola avvolta in un calzino.
La morte di Amadou Diallo non ha insegnato niente.