(in corso di pubblicazione nella rivista dell'ICSIM, Istituto per la Storia d'Impresa, Terni)
Ho incontrato Ferruccio Mauri nella primavera del 1983. Ero già in una fase avanzata della mia ricerca sulla storia orale di Terni, dei suoi antifascisti e della sua classe operaia, e mi accorsi subito di trovarmi di fronte a una figura diversa da quelle che avevo incontrato fino allora, figure storiche della resistenza e dell’antifascismo, da Arnaldo Lippi a Remo Righetti a Bruno Zenoni. Basta guardare le date: Lippi era del 1899, Righetti del 1901, Zenoni del 1908. Ferruccio Mauri, nato nel 1926, apparteneva a una generazione diversa, che non aveva memoria diretta delle lotte operaie prima del fascismo, delle organizzazioni proletarie e della loro cultura.
Perciò la storia che raccontava non era tanto quella di una tenace opposizione negli anni della dittatura, quanto quella di una presa di coscienza graduale, di una scoperta delle ragioni di classe e della democrazia: “A casa mia non ciavevo né fascismo né antifascismo: facevo la vita del ragazzo in una famiglia che vive per campare, senza interessarsi a queste grandi problematiche”, raccontava. Anche se non veniva da una famiglia “non borghese, ma nemmeno poverissima” e comunque non operaia, respirava la concreta durezza dei rapporti di classe nella città-fabbrica: “non è che c’era un discriminazione nei confronti della classe operaia, ma tu sentivi delle chiusure. Si sentivano, erano corpose; io l’ho inteso come catene.”
Ma l’immaginazione adolescenziale e la pervasiva propaganda del regime lo portano a sognare vie d’uscita fantastiche e avventurose. La famiglia, la parrocchia, soprattutto la scuola gli parlano una lingua di disimpegno da una parte e di “sfrenato nazionalismo” dall’altra, e lui non ha ancora le risorse per costruirsi discorsi alternativi: “io da ragazzetto avevo frequentato anche la parrocchia insomma, no; al Sacro Cuore”; “Io stavo in una scuola, la scuola industriale, frequentata da figli d’operai. Un preside fascista; anche in modo smodato e scorretto. E gli insegnanti fascisti; e quindi un’educazione fascista. E poi l’avventura, la guerra, un fatto nòvo che rompeva il trantran forse.” Sono gli anni dell’impero, della guerra, e come tanti ragazzi di allora anche Ferruccio Mauri è preso dall’entusiasmo: “Me ricordo una grossa manifestazione fatta dagli studenti, a corso Tacito, me ricordo una bara, perché la portavano due ragazzi della mia scuola.”
E tuttavia, ha già imparato, comunque, a guardare le cose con i propri occhi e misurare i miti sulla stregua di quello che vede. A posteriori, rintracciava forse ottimisticamente “una carica anticapitalistica, in modo larvato, da incosciente” persino nella retorica antiplutocratica del regime. E quando i miti gli sfilano davanti, il suo sguardo è già dissacrante:
Io me ricordo quando tornò a Terni la XXIII Marzo [dall'Etiopia]. Allora facevo le scòle elementari. Ce fu il ritorno de questo battaglione; e mi ricordo che co' le scòle ci portarono ad occupare gli appartamenti che davano su via Roma. Quando rientravano questi, tutti baldanzosi, e noi a gettàgli i fiori de sopra. Per me Badoglio era un dio, no; il conquistatore dell' Africa. E la cosa che lo ricondusse a mortale fu il fatto che mentre era li, a presenzia' alla manifestazione, si soffiò il naso con un fazzoletto. lo non potevo immaginare che un dio se soffiasse il naso con un fazzoletto. Allora andiedi a casa e dissi, "ma porca l'oca, ma come mai Badoglio se soffia il naso con il fazzoletto come noi?"
Le catene dei rapporti di classe presto indirizzano la sua vita in una direzione molto diversa e molto più dura. A quattordici anni, Ferruccio Mauri è apprendista alle acciaierie, dove in un’officina scuola non impara solo un mestiere e una disciplina di lavoro, ma anche un’altra logica. La fabbrica è davvero una scuola alternativa:
E lì feci i primi bagni diciamo cosi colla realtà e industriale e produttiva, vero. Il prim'impatto fu terribile, proprio. Me ricordo che c'era 'n operaio, un vecchio operaio che si chiamava, io me lo ricordo ancora, Materazzi; e io gli dissi: "Come so' i capi qui dentro?" Questo me guardò tutto burbero, me fa: "Ricordete 'na cosa, barda' - barda', ragazzo, no? dice, - che qui, devi ammazza' quelli più bòni, e colle budella ce devi strozza' quelli più cattivi". lo rimasi, dico, allora so' tutti nemici qui intorno?
La lotta di classe è una scoperta graduale. In tempo di guerra, passa attraverso “la militarizzazione degli operai”, per cui ogni ritardo, ogni errore, diventa “un sabotaggio verso la produzione bellica”. Ma il vero rito di passaggio, il momento del cambiamento è un altro. Anche qui, Ferruccio Mauri, ancora ragazzo, impara dagli operai – dai loro sguardi, dai loro silenzi. E’ uno dei più bei racconti, anche da un punto di vista proprio “letterario”, che io abbia mai sentito.
E di quel primo periodo all' acciaieria ricordo che portarono tutte le maestranze, allora le chiamavano le maestranze, dell' acciaieria, a piazza Tacito, c'erano gli altoparlanti, la radio che doveva trasmettere il famoso discorso diciamo di guerra di Mussolini, no. E la cosa che m'impressionò - qui ci possono essere delle discordanze, ma quelli che erano vicino a me... lo ero entusiasta della guerra; io ero ragazzetto, l'avventura. Erano quattro giorni che stavo all'acciaieria, avevo partecipato come studente a tutte le manifestazioni pe' la Corsica, pe' la Savoia, pe' la Tunisia, e tutte 'ste cose qui. lo mi ricordo che entrai all'acciaieria che non vedevo l'ora che scoppiasse la guerra. Ma, c'era l'ingenuità del ragazzo; e il fatto della novità, insomma era un fatto nòvo. E andiedi a quest'adunata d'operai; e intorno a me vidi, mentre sentivo che a Roma si battevano le mani - ma forse anche a piazza Tacito; ma coloro che erano vicino a me li vidi fortemente preoccupati. Cioè per la prima volta - questa non è che faccio poesia - vidi la serietà operaia, la preoccupazione. Anche se io non riuscivo a capire le cause. Mentre io gioivo, a Roma si battevano le mani, e attorno a me - perché altri potranno dire, "no, hanno battuto le mani" ma attorno a me, gli operai che stavano con me mostravano forte preoccupazione. Forte preoccupazione.
Questa dunque è la storia di come Ferruccio Mauri si trasforma da ingenuo ragazzo entusiasta della guerra in espressione matura della “serietà operaia”. Certo, non avviene di colpo, in un momento; ma la grandezza di un racconto sta proprio nel modo in cui riassume in un simbolo, un’epifania, un lungo percorso della soggettività.
Ho usato spesso, anche all’università, questo racconto per spigare come funziona la logica della narrazione in età moderna: non più un narratore “onnisciente” (il Manzoni dei Promessi sposi, per esempio), che sa la storia tutta intera ed entra dentro i pensieri e i sentimenti dei personaggi; ma un narratore parziale, coinvolto e circoscritto. La piazza di Terni descritta da Ferruccio Mauri somiglia molto a pagine dei grandi romanzi modernisti, a Henry James o a Joseph Conrad. Il narratore non ci dice com’è, come ragiona la classe operaia: vede solo i volti, e ci dice in che modo quei volti hanno cambiato lui.
La sua autorità narrativa viene precisamente dai suoi limiti. Da un lato, proprio le incertezze, le frasi sospese, le false partenze del racconto riproducono nell’atto narrativo la difficoltà del processo di cambiamento vissuto in quel momento dal narratore. Dall’altro, il suo è un racconto fra i molti possibili (“qui ci possono essere delle discordanze”) ma è un racconto credibile proprio perché racconta solo quello che vede (“intorno a me…”). Soprattutto, il modo in cui Mauri interpreta lo spazio, i volti, i silenzi attorno a sé diventa il cardine della sua nuova coscienza. Basta pensare a come l’opposizione fra la Roma imperiale da cui viene la voce del Duce, e la Terni proletaria segnata dal silenzio operaio serve a istituire una continuità fra l’identità cittadina, l’identità di classe, e l’identità personale in formazione. Da questo momento, Ferruccio Mauri è uno di quegli operai, e la “serietà operaia” diventa il tratto centrale del suo carattere.
Mauri non faceva un’epica di se stesso. Sarebbe stato facile, per uno che a 17 anni era partigiano in montagna, dire che la coscienza ce l’aveva innata. E invece il suo era un racconto essenzialmente ironico, animato dalla distanza fra l’uomo maturo che narrava e il ragazzo incerto, in una lunga fase evolutiva, di cui parlava. L’orgoglio stava proprio in questo processo lungo di formazione e trasformazione sempre parziale, in cui tutto cambiava e niente veniva rinnegato. Non è un caso che, nell’altro racconto iniziatico della sua esperienza partigiana, Mauri invita espressamente chi ascolta a interpretare da sé la storia raccontata:
Tant' è che io quando - ecco, qui l'esempio poi costruitelo come ve pare - io andetti in montagna la sera stessa dell'8 settembre. Dopo ci fu un fatto a Narni: uno di Narni uccise un tedesco, e venne a rifugiarsi dove stavamo noi, su a San Pancrazio. All'epoca, credo che fosse nel gennaio o febbraio del 1944. Questo, siccome lo conoscevo già da Narni, me fece, disse, "qui stiamo bene, posso sta' sicuro, qui siamo tutti comunisti". "Ma che comunisti, che comunisti, - dissi, qui no, qui siamo antitedeschi", insomma. Per dirti, io ancora nel gennaio del '44, pur essendo passato nella trafila della fabbrica, non riuscivo ad essere - ero un ragazzo de diciassett'anni, indubbiamente, con tutte le carenze politiche culturali di un ragazzo de diciassett'anni, ma, non ero un comunista. lo me ricordo 'na cosa: io la prima sera che andetti a San Pancrazio, sul monte, siccome venivo da 'n certo tipo de famiglia, non borghese, ma nemmeno poverissima, ecco, nemmeno poverissima, come educazione, io da ragazzetto avevo frequentato anche la parrocchia insomma, no; al Sacro Cuore. E per me la sera si concludeva sempre col nome del padre e il bacio del padre e della madre prima d'anda' a dormi', no. Ma io per lunghe notti, le prime notti, a San Pancrazio, non ho mai dormito perché me vergognavo da fàmmi il nome del padre e fàmme vede', insomma, no.
Ferruccio Mauri non è comunista all’inizio della sua esperienza partigiana; ma continua a cambiare. Dopo la liberazione di Terni, si arruola nel gruppo di combattimento “Cremona” per continuare la guerra di liberazione fino al nord; e la sua immaginazione è già diversa. Ricorda un momento difficile, “in cui ci stavamo prendendo un mucchio di botte dai tedeschi, e stavamo lì lì per scappare”. L’ufficiale grida tre volte “avanti Savoia!” e nessuno si muove. “S’alzò in piedi un compagno - repubblicano – dice: ‘Avanti Stalin!’ Si spostò tutta la compagnia”.
Quarant’anni dopo, raccontando quest’episodio, probabilmente Mauri non pensava più a Stalin negli stessi termini di quel momento (e d’altra parte, sottolineando che il grido veniva da un repubblicano, suggerisce anche che già allora Stalin appartenesse più all’immaginario che alla politica in senso stretto). Comunque, non rimuove, non dimentica. La sua storia – che continua dopo, nell’impegno sindacale, nel partito, nel lavoro, nelle istituzioni – è tutto il contrario della rigida fissità che abbiamo imparato ad associare con lo stalinismo: è la storia di una persona che cambia, che impara, che si trasforma e che si evolve, e che di tutte le vicende che attraversa – la famiglia, la parrocchia, la scuola, la fabbrica, la resistenza, il partito… - porta dentro di sé un insegnamento, mai subito ma sempre filtrato da una coscienza critica e da uno sguardo intelligente. Tanti dicono “la mia vita è un romanzo”; se un romanzo non è tanto un cumulo di vicissitudini quanto la storia della crescita di una coscienza, allora poche vite sono più “romanzo” di quella di Ferruccio Mauri raccontata da lui stesso.