19 dicembre 2006

Sfere del sacro. Tra la SS. Trinità di Vallepietra e Harlan County, Kentucky

Prendiamo due storie miracolose. La prima viene da Vallepietra. Era la mia prima visita al santuario, a metà anni ’70; facevo interviste più o meno volanti, e chiedevo se qualcuno aveva notizia o testimonianza di eventi miracolosi. Un uomo di Rieti, autista di autobus, racconta:

- Che le dovrei dire – io proprio con esattezza non ne ho visto con questi occhi. Cioè un anno, saranno quattro cinque anni fa, cascò una pietra, e c’era una bancarella che vendeva dei ricordini, giù al santuario. Cascò questa pietra e purtroppo prese sopra a un masso della bancarella e uccise questa persona che vendeva questi santuari, che sarebbe praticamente uno di Vallepietra.
Portelli. Che successe?
. Eh, che successe, purtroppo si staccò questa pietra – adesso, sentir dire la gente, sembra che questo non era divoto a questo santuario.
Portelli. E quindi si fece male?
- E quindi si fece male, cioè no, si fece male – morì, addirittura.
Portelli. Perché non era devoto al santuario?
- A quello che ho potuto sentir dire io, ma proprio con esattezza non potrei spiegare perché io maggiormente, vede, non è che vengo qui e seguo proprio addirittura il santuario.

Quest’altro racconto viene invece da Wallins Creek, contea di Harlan, nella regione mineraria e molto povera del Kentucky Sudorientale, negli Stati Uniti. Il narratore, appartenente alla chiesa Holiness, si chiama Sill Leach, è un ex minatore, nato nel 1925; l’intervista è stata registrata il 25 agosto 1991. E’ presente anche la moglie, Nellie Leach:

Sill Leach. E la lavastoviglie s’è bloccata, e era una lavastoviglie quasi nuova. Allora lei va lì e dice, “Signore”, dice, “non ci possiamo permettere un’altra lavastoviglie. La lavastoviglie, guarda, tu ci devi aiutare e la devi aggiustare tu.” Così il Signore – lei si gira, e la macchina riparte, e non s’è più fermata, dopo che lei ci ha pregato sopra”
Portelli. Il Signore vi ha riparato la lavastoviglie.
Nellie Leach. Il Signore l’ha riparata, no?

Come mostra la mia domanda – un po’ maleducatamente irriverente nelle intenzioni, ma non percepita come tale dagli interlocutori – l’idea del Signore Iddio che dal cielo ripara la lavastoviglie può far venire da ridere. C’è proprio una sproporzione, ai nostri occhi, fa il divino e l’elettrodomestico. E infatti, se confrontiamo i due racconti ci accorgiamo che la differenza principale sta proprio nello spazio: domestico, quotidiano nel racconto americano protestante “fondamentalista”; eccezionale, consacrato, in quello italiano cattolico.
La storia del venditore ucciso dal masso a Vallepietra infatti può essere letta in almeno due modi. Da un lato, la possiamo pensare come punizione del peccatore che si permette di violare lo spazio sacro del Santuario, per di più per vendere la sua merce (mercante nel tempio? La dissacrazione, anche nell’episodio evangelico, forse non consiste solo nella mercificazione del luogo sacro, ma anche nell’incongruità di un’attività “ordinaria” in unno spazio “speciale). Però il narratore, un autista di autobus proveniente da Rieti, aggiunge che anche lui “non è che segu[e] proprio il santuario”: se fosse questo il significato, forse dovrebbe avere qualche timore anche per se stesso. E poi, forse l’immagine di una divinità punitiva e vendicativa non si accorda del tutto con la natura risanatrice del luogo.
Una seconda lettura, forse più complicata ma più suggestiva è quella per cui, in un luogo come Vallepietra – dove gli storpi gettano le stampelle e i muti parlano – le leggi naturali sono normalmente sospese. In un luogo dove (come dice la canzone che cantano i pellegrini) i buoi cascano da grande altezza sopra i sassi, e si rialzano e riprendono a camminare, ci si aspetterebbe che se ti casca un masso in testa non ti faccia niente. Il prodigio allora consiste nella sospensione mirata della prodigiosità del luogo: normalmente, qui non vigono le leggi normali della gravità e della natura; il miracolo consiste nel temporaneo ripristino della normalità.
Prendiamo altre due storie di miracoli. Ancora una volta, Vallepietra, il narratore è un pellegrino di Articoli Corrado:

Io me ce so’ incontrato, sei sette anni fa, che una bambina ha chiamato la mamma, era sordomuta, ha chiamato la prima volta la mamma giù al santuario. Stavo lì proprio e lì quando è successo ‘sto fatto, che la bambina ha chiamato la mamma proprio sotto al santuario, lì so’ stati commossi tutti perché c’era molta gente, poi ciànno tirato indietro, indietro, indietro, e hanno portato questa bambina al pronto soccorso e lì è stata assistita dai carabinieri.

E Closplint, ancora a Harlan County. Il narratore si chiama Delbert Jones, ex minatore, nato nel 1930, intervistato il 24.10.1988:

Mio figlio, aveva dieci anni, era il piccolo della famiglia, e è rimasto ucciso in un incidente di caccia. E avevamo un frigorifero – adesso non c’è più, è andato perduto nell’incendio, ma avevamo fatto delle fotografie. E quando hanno scattato una foto, hanno scattato la macchina fotografica, un giorno ci siamo messi a guardare le foto e dico, che è quella cosa sul frigorifero? Abbiamo guardato meglio, e era Johnny. C’è come una stella, un punto luminoso, sul frigorifero. Gli piacevano le fotografie, gli piaceva fare le foto, e quando hanno scattato quella lui c’è voluto stare dentro, ci doveva proprio stare, caro mio, e è comparso sul frigorifero. E’ stato un miracolo. Ce l’avevamo, la foto, non so che fine ha fatto. Ma mi sarebbe piaciuto fartela vedere.

L’apparizione sul frigorifero è altrettanto incongrua della sacra riparazione della lavastoviglie, ma un po’ più sconcertante dato che c’è di mezzo la morte e non la possiamo buttare a ridere. La foto miracolosa del ragazzo morto potrebbe essere un ex voto – solo che gli ex voto stanno nei santuari mentre questa immagine miracolosa sta in cucina, su un altro elettrodomestico, e nell’album di famiglia (dando per scontato che la foto esista davvero e non sia una proiezione di desiderio e rimpianto da parte dei genitori addolorati).
La differenza fra questo miracolo nel quotidiano, e la nostra concezione del rapporto fra miracolo e spazio sacro è confermata dall’altro racconto di Vallepietra. L’intera narrazione è dominata dalla deissi: il miracolo avviene “giù al santuario”, anzi “proprio sotto al santuario”, l’avverbio di luogo, “lì”, viene ripetuto tre volte; gli astanti sono invitati insistentemente a farsi “indietro”. Aggiungerei che c’è anche un dato di eccezionalità del tempo, uno strappo nel tempo ordinario: quando il miracolo si conclude e la bambina riprende la parola, il controllo viene restituito alle agenzie del tempo ordinario, il pronto soccorso e i carabinieri (non so se per proteggerla, o per sottoporla a verifica).
Prima di procedere a qualche considerazione interpretativa, vorrei aggiungere un altro racconto di Nellie Leach, che ribadisce la consuetudine con questi piccoli miracoli ordinari nella vita di tutti i giorni, questi microinterventi divini nel quotidiano.

Una volta era andata alla funzione, abitavamo a cinque miglia dalla chiesa e sono andata alla funzione e avevo un buco nel serbatoio della benzina. Usciva la benzina, piano piano. E quando sono ripartita per tornare a casa ho detto agli altri, “Pregate per me, per farmi arrivare a casa,” gli ho detto, “perché non so se mi basta o no la benzina per arrivare a casa.” Arrivo verso un terzo della strada fuori città e verso casa e la macchina comincia a rallentare, e io comincio a pregare, non avevo soldi, non avevo modo di tornare e fare benzina, era tutto chiuso, e cominciai a pregare e dissi, “Caro Signore, la macchina mi pianta qui in piena notte e io sto qui da sola, fammi arrivare almeno in paese, dove ci sono le luci, non ti chiedo di portarmi più in là.” E tenevo il piede fisso sull’acceleratore, non davo più gas, non lo lasciavo andare. E, e so che feci almeno quattro miglia e appena arrivata dentro il paese la macchina muore. Telefono a mio figlio, dico, “sto qui bloccata al ponte, ho finito la benzina”, dico, “fin qui ci sono arrivata con la preghiera.” E lui, “Mamma, che ti piglia?” Dice, “se Dio ti ha portato fin qui,” dice, “ti può portare pure fino a casa.” E io dico, “Be’, io non gli ho chiesto di portarmi a casa,” dico; “gli ho chiesto solo di portarmi dov’erano le luci. E Lui mi ci ha portato. Mi ha portato dov’erano le luci. Ti dico, ha risposto alle mie preghiere.”

La risposta del figlio è senz’altro irriverente, ma forse anche reverente nello stesso tempo. Infatti la sua risposta alla madre (“se Dio ti ha portato fino a qui, ti può portare pure fino a casa”) è una citazione letterale dal più amato e famoso dei canti religiosi americani, “Amazing Grace” (scritto dall’ex capitano negriero John Newfield, di Liverpool, nel 1700, amatissimo da tutti, bianchi e neri): “E’ stata la grazia di Dio che ci ha portato fin qui, e la grazia ci porterà fino a casa”. Il figlio di Nellie Leach si limita a citare la canzone prendendola sul serio, alla lettera – perché la letteralità è la base del discorso “fondamentalista” del sacro in generale. Ho chiesto a Dio di portarmi fino alle luce, e Lui mi ha portato lì e non un metro più in là. Noi prendiamo alla lettera la parola di Dio perché Dio prende alla lettera le nostre preghiere.
Aggiungerei un altro elemento: il diverso rapporto con la tecnologia. Al centro dei racconti di Harlan stanno lavastoviglie, frigorifero, automobile. La capacità protestante di individuare dimensioni simboliche in ogni oggetto ordinario fa sì che non abbia problemi con la modernità: negli spiritual, banchi e neri, la radio, il treno, persino il baseball diventano metafore del rapporto con Dio. Da noi, magari qualche ex voto ringrazia per essere scampati da un incidente automobilistico; ma l'ìggetto centrale è il corpo del fedele, non l'automobile. La macchina resta connotata in senso troppo laico, se non proprio profano, in un discorso che riguarda realtà essenziali e senza tempo, la vita e la morte.
Perciò, come diverso è il rapporto con lo spazio sacro, così è diverso il rapporto coi simboli. Dalle parti di Harlan County, prendono alla lettera Marco 16:15-20: “nel nome mio scacceranno i dèmoni; parleranno in lingue nuove; prenderanno in mano dei serpenti…” E in tante chiese Holiness prendono materialmente in mano i serpenti a sonagli e i copperheads, e se vengono morsi non chiamano il dottore. Confrontiamo con il rituale dei serpenti a Cocullo, studiato da Alfonso Di Nola: lì, alle vipere vengono tolti preventivamente i denti del veleno. A Cocullo, il serpente è un simbolo; a Harlan, è un rischio e una prova tangibile. Così, quando “Amazing Grace” dice che la grazia ci porta a casa (e, nel racconto di Nellie Leach, fino alla luce!), lo intende certo in senso simbolico, spirituale; ma il punto è proprio che il simbolico non esclude il letterale, lo spirituale non esclude il mondano. Perché il mondano è intriso di presenza della spirito.
Qui sta infine il senso profondo di questa differenza culturale. La nostra tradizione relega il sacro in una sfera a parte. Da un lato, una liturgia, degli specialisti del sacro, degli asceti che si separano dal mondo, degli spazi consacrati, degli eventi miracolosi; dall’altro, le istituzioni del mondo laico e le leggi della natura e della società (il pronto soccorso, i carabinieri). Perciò il miracolo tende a essere circondato, in linea di massima, da un’aura di eccezionalità: a parte il luogo, riguarda comunque la vita, la morte, prove cruciali del ciclo dell’esistenza (che magari possono essere pure un esame universitario, che si supera grazie all’intervento speciale di San Giuseppe da Copertino). Nella tradizione protestante, specie nella sua forme più radicali, il sacro permea i quotidiano: l’ascesi non appartiene ai sacerdoti ma a tutti i fedeli, non si pratica in rituali ad hoc ma nel mondo di tutti i giorni. Se vogliamo, è l’altra faccia – quella ispirata, non quella repressiva – del fondamentalismo. Dio è davvero in ogni luogo, compresa la lavastoviglie e il serbatoio della benzina.
Soprattutto, si rovescia il rapporto fra leggi ordinarie del quotidiano e intervento del sacro. Noi tendiamo a immaginare che il mondo vada avanti per suo conto, con leggi naturali (“cause seconde”, magari messe in modo da un “motore immobile” cartesiano), e il miracolo è una sospensione temporanea e locale: se sei un “buon pastore”, i tuoi buoi cadono da grande altezza ma non si fanno niente; se sei un miscredente, ti casca un masso in testa e, inaspettatamente nel luogo acro, ti ammazza. Il miracolo avviene nel luogo sacro, come nel caso della bambina che ritrova la parola; o, come nella storia di fondazione del santuario di Vallepietra, il luogo è riconosciuto come sacro perché è avvenuto il miracolo (cioè, se c’è successo un miracolo vuol dire che era uno spazio speciale e lo segniamo erigendoci un santuario e indicendo un pellegrinaggio). Ricordo vicino Minturno l’apparizione presunta del viso di Gesù sul cancello di una casa: nell’arco di pochi giorni, il luogo divenne meta di pellegrinaggi, preghiere e adorazione.
Nessuno è andato a fare pellegrinaggi davanti al frigorifero di Delbert Jones o alla lavastoviglie di Nellie Leach. Nell’immaginario religioso popolare dell’America profonda, infatti, le cose stanno al contrario: il miracolo non è la rottura della quotidianità, ma la sua stessa essenza. In altre parole, per noi è un miracolo se ci si apre la terra sotto i piedi; per i fedeli di Harlan, il miracolo è che la terra non si apre. Perché se la natura avesse il suo corso, sprofonderemmo tutti e subito all’inferno per i nostri indicibili peccati, personali e originali; ed è solo il permanente intervento di Dio che impedisce che questo avvenga, o almeno lo rinvia. La nostra vita è come quando un giocoliere tiene per aria le palle sempre sul punto di cadere e sempre rilanciate; o come quando in chiesa prendi in mano il serpente e lo maneggi come prendendo in mano la vita e la permanente presenza della morte. Specie a Harlan, detta “la sanguinaria”:

Annie Napier (Cranks Creek, Harlan County, 16 ottobre 1996): Perché ogni volta che uno va in miniera, come entra lì dentro, lavora tutto il tempo con questa cosa – “Ehi, questo potrebbe essere il mio ultimo minuto.” E c’è chi fa quarant’anni e più così, ogni giorno, capisci? Se uno dura quindici, venti anni in miniera, è un miracolo. E poi muore di pneumoconiosi e non se ne accorge nemmeno.

E’ un miracolo letteralmente, non per modo di dire. La prima volta che andai a Vallepietra, incontrai un gruppo di operai della Snia di Rieti che qualche mese prima erano andati alla grande manifestazione metalmeccanica di Roma: era come se giocassero su due ruote distinte, quella laica della lotta e quella sacra della grazia. Per Harlan County, le due cose sono inseparabili. Dice Delbert Jones: “Se non fosse per il sindacato, non avremmo le medicine, non avremmo l’assistenza. Mia moglie aveva bisogno di una sedia a rotelle, non l’avremmo avuta. Certo, abbiamo anche il Signore, dalla nostra parte”. Anche un contratto è un miracolo, come una lavastoviglie riparata. Alla fine del film Harlan County, USA di Barbara Kopple (Oscar per il documentario, 1977), i minatori vittoriosi cantano “Amazing Grace”: “E’ stata la grazia che ci ha portati fin qui, e la grazia ci porterà a casa.”

17 dicembre 2006

Il delitto (di stato) perfetto non esiste

dal manifesto, 17.12.2006

La dolorosa morte di Angel Nieves Diaz in Florida segna un altro capitolo nella complicata e imbarazzante storia della pena di morte negli Stati Uniti, e forse l’accentuazione di una lenta tendenza al ripensamento. Dopo la sua morte lenta e tormentata, il governatore Jeb Bush ha sospeso le esecuzioni capitali (che erano state reintrodotte in Florida nel 1979). E’ un fatto importante.
Il consenso di principio alla pena di morte è ancora largamente maggioritario, anche se ci sono segni incoraggianti di una lenta diminuzione. Ma al di là della lenta crescita del dissenso, qualcosa suggerisce che esiste un’incrinatura nella armatura stessa del consenso, al punto che anche i sostenitori e amministratori della pena capitale non si sentono la coscienza interamente tranquilla: ed è la pretesa che l’uccisione legale avvenga in modo rapido, indolore, senza spargimento di sangue né scene imbarazzanti. Non a caso, sulle forme dell’esecuzione si è sbizzarrito fin dalle origini l’immaginario tecnologico (con risultati fallimentari che, trattandosi della Florida, ricordano anche un altro fallimento tecnologico, quello delle modalità di voto).
“Se la cosa fosse fatta una volta che è fatta, allora sarebbe bene che fosse fatta rapidamente”, rimugina Macbeth, preparando l’assassinio del re Duncan. La ricerca dell’uccisione perfetta non mira solo a ridurre la sofferenza della vittima concentrandola in un solo momento (“A Mastro Ti’, ‘na botta e via”, dice Rugantino al boia nel musical di Garinei e Giovannini); serve soprattutto a far passare i mal di pancia al boia, chiudere il procedimento, restaurare l’ordine e passare ad altro. E invece, per ammazzare Angel Nieves Diaz ci sono voluti trentaquattro minuti e un’iniezione supplementare di veleno (oltre a ventisette anni carcere fra la prima condanna e l’esecuzione): il sangue non s’è visto, ma il tempo sì.
Perciò l’esecuzione – anzi, come la chiamano i comunicati ufficiali, la “procedura” - deve essere, come altre operazioni di morte da cui sollevare la pubblica coscienza, un’operazione “chirurgica” e “umanitaria”. “Tutti i protocolli dell’esecuzione sono stati seguiti accuratamente”, dice il comunicato del Department of Corrections della Florida: è la stessa spiegazione burocratica che giustifica gli omicidi ai posti di blocco in Irak perché “sono state rispettate le regole d’ingaggio”. Come se i protocolli e le regole fossero verità assolute ed eterne e non opera loro. La colpa è sempre del fatto che la vittima si muove in modo imprevisto o che il suo corpo non si adegua alle modalità richieste: così, le autorità carcerarie spigano che “la procedura di questa notte ha richiesto più tempo a cause delle previe condizioni di salute - come se non avessero avuto Diaz sotto mano abbastanza a lungo da sapere che aveva problemi di fegato, e come se fosse compito del condannato tenersi in perfetta salute per facilitare il lavoro e la coscienza del boia.
Il fatto è che la vita resiste alla liscia procedura della morte; non c’è uccisione – per bombe, veleno, elettricità, ghigliottina – che non comporti sofferenza. La maggior parte delle istituzioni americane sembra ancora restia ad ammettere ripensamenti di principio sul diritto dello stato di amministrare la morte; ma anche in coscienze che ci si aspetterebbe impervie, come quella di Jeb Bush, comincia a farsi strada l’idea che farlo in modo indolore è una chimera. La costituzione americana che vieta le forme di punizione “crudeli e inusuali” non enumera quali siano, ma affida la definizione di che cosa sia crudele e inusuale alla coscienza storica e civile dei tempi e dei luoghi. E molto è cambiato dal 1789 al 2006. Ne può venir fuori il paradosso per cui è incostituzionale frustare una persona ma non lo è ucciderla; ma può diventare senso comune la coscienza che uccidere una persona è sempre e comunque una punizione crudele.
Negli Stati Uniti, le grandi riforme sono spesso avvenute in questo modo: non per sfondamento ma per erosione. E’ possibile che rigidità moralistiche e fondamentaliste, intrecciate con memorie storiche di epoche di violenza diffusa e con le nuove paure post-11 settembre rendano ancora per qualche tempo inattaccabile la pena di morte in linea di principio; ma è anche possibile che l’impossibilità di applicarla con la certezza di non uccidere innocenti, e di non uccidere anche i colpevoli in modo inumano, ne limiti gradualmente la sfera di applicazione fino a renderla obsoleta di fatto. E’ una scommessa su cui le organizzazioni umanitarie stanno puntando molto in questi tempi.
Nel frattempo, mentre gli Stati Uniti si avvicinano alla messa in mora della pena di morte, il cattolicissimo governo polacco ne invoca la restaurazione all’interno dell’unione europea. Mentre gli Stati Uniti dibattono sulle punizioni inusuali e crudeli (salvo a Guantanamo e dintorni, ovviamente), il parlamento italiano arriva dopo vent’anni a fare una legge contro la tortura. Mentre loro dubitano delle esecuzioni capitali (ma continuano la guerra), noi discutiamo dell’eutanasia e dell’embrione. Al centro sta sempre la pretesa dei poteri religiosi e politici di controllare la vita e la morte, esautorando le persone il cui corpo è in gioco. La sofferenza di chi è costretto a morire e la sofferenza di chi è costretto a vivere stanno nelle stesse mani.

10 dicembre 2006

Gli schiavi dei Lumi alla presa della BastigliaRiproposto il volume di C.L.R. James «I giacobini neri», un classico della storiografia sociale

Pagine rigorose e avvincenti per ricostruire la rivoluzione antischiavista che portò alla cacciata dei francesi e alla fondazione della Repubblica di Haiti. Un grande sommovimento sociale che dai Caraibi si diffuse negli Usa, cambiando la storia mondiale. Per poi essere rimnosso dalla storia dei vincitoriAlessandro PortelliCi sono libri che spostano radicalmente l'idea occidentale della storia, l'immagine che l'Occidente ha di sé, che mettono il margine e la periferia al centro, in maniera talmente radicale che la nostra cultura fa praticamente finta che non esistano. Due di questi libri uscirono sul finire degli anni '30: Black Reconstruction in America di W. E. B. DuBois, e The Black Jacobins. Toussaint L'Ouverture and the San Domingo Revolution di C.L.R. James. I loro autori sono due giganti del ventesimo secolo, ma per la maggior parte dei nostri storici e politologi potrebbero anche non esistere. E forse non esistono veramente: dopo tutto, non erano neanche bianchi, e per di più - ciascuno a modo suo e in tempi diversi - sono stati tutti e due comunisti e partecipi con un altro comunista, George Padmore (già:«chi era costui?»), delle origini del movimento panafricano e anticolonialista.In Black Reconstruction, tuttora mai tradotto in italiano (ne tratta una piccola e preziosa monografia di Lauso Zagato, che risale al 1975), W. E. B. DuBois spazzava via la versione etnocentrica della guerra civile americana: lungi dall'essere passivamente liberati dalla benevolenza di Lincoln e del Nord, gli afroamericani hanno avuto un ruolo decisivo nella propria liberazione e nell'esito della guerra. È stato quello che DuBois chiamava lo «sciopero generale» degli schiavi, la loro fuga in massa verso le file dei soldati nordisti, a far crollare l'apparato produttivo del Sud ribelle e decidere una guerra che il Nord non riusciva a vincere. Gli schiavi, gli afroamericani, insomma, non sono stati oggetto di una storia monopolizzata dai bianchi e dalle classi dominanti, ma protagonisti della propria liberazione e, con essa, della storia intera.Il vento della libertàTre anni dopo, C. L. R. James fa un passo avanti: è la storia intera del nostro mondo che ruota attorno alle vicende di un'isola caraibica, Santo Domingo, e al protagonismo degli schiavi che conquistarono la libertà e fondarono la prima repubblica africana, Haiti. I giacobini neri era già uscito molti anni fa, e ritorna oggi nella traduzione di Raffaele Petrilli rivista e adattata da Filippo Del Lucchese, con introduzione di Sandro Chignola e una postfazione dello scrittore americano Madison Smartt Bell (Derive Approdi, pp. 363, euro 25).Sul finire del '700, spiega James, Santo Domingo era la «più bella colonia del mondo» e, per questo, un inferno di orrore schiavista. Grande quasi quanto l'Irlanda, divisa fra la Francia e la Spagna, Santo Domingo stava all'economia settecentesca dello zucchero e del cotone un po' come il Bahrein e il Kuwait stanno a quella novecentesca del petrolio: una fonte apparentemente inesauribile di ricchezza, estratta con brutalità assoluta tanto nei confronti della terra quanto nei confronti di quella merce umana importata dall'Africa talmente a buon mercato che era più conveniente ammazzare uno schiavo irrispettoso e comprarne un altro che adattarsi a tollerarlo. Ma anche su questa isola spira sul volgere del secolo il vento della libertà e della rivoluzione. Gli Stati Uniti hanno appena conquistato l'indipendenza; e la madrepatria francese è nel pieno della sua grande rivoluzione. James segue con minuzia rabbiosa gli andirivieni, le contraddizioni, le discussioni di una Francia rivoluzionaria dove la borghesia rivendica la libertà, le masse proletarie parigine spingono per l'uguaglianza, e la questione della schiavitù è la cartina di tornasole su cui si misura la verità della rivoluzione. Dopo tutto, le navi cariche di schiavi all'andata e di zucchero al ritorno sono di proprietà dei grandi borghesi rivoluzionari di Nantes; e persino i bianchi e mulatti schiavisti di Santo Domingo si identificano con la repubblica. Ma i veri «giacobini», suggerisce James, non stanno a Parigi, ma nelle piantagioni e nelle montagne di Haiti. Qui, come più tardi in Virginia e in Georgia, saranno proprio gli schiavi - analfabeti, appena arrivati dall'Africa, trattati da subumani e semiselvaggi - a incarnare, a portare fino in fondo e a rendere possibili quei valori di libertà che i loro padroni rivendicano per sé fingendo di ritenerli universali (subito dopo la dichiarazione d'indipendenza, in cui Thomas Jefferson e i coloni americani proclamavano che «tutti gli uomini sono creati uguali», furono inondati di lettere e petizioni dei loro schiavi e dei neri liberi che dicevano, in sostanza: benissimo, d'accordo, quando si comincia? Naturalmente, ci volle una guerra, e non bastò nemmeno).C.L.R. James racconta una storia complicata, spesso confusa, di alleanze e rotture, tanto fra bianchi, mulatti e neri a Santo Domingo quanto fra le diverse anime di classe della rivoluzione in Francia (con in mezzo i tentativi dell'Inghilterra, patria della libertà, di inserirsi e mettere le mani sulla più ricca colonia del mondo). È una guerra senza esclusione di colpi, di massacri e tradimenti da tutte le parti, durata dodici anni finché ogni compromesso è spazzato via e ai neri ribelli non resta altra scelta che l'indipendenza e la repubblica.Un immenso sommovimentoAl centro dell'analisi di James sta una difficile relazione: da un lato, i fattori di classe, trattati con rigore marxiano d'altri tempi, ma tuttora sostanzialmente persuasivi nel disegno generale; dall'altro, una personalità eccezionale, Toussaint L'Ouverture, un altro di quei grandi protagonisti della storia umana di cui la nostra cultura finge di ignorare l'esistenza.Anche per questo, avrei preferito che invece del sottotitolo che gli è stato dato nell'edizione italiana La prima rivolta contro l'uomo bianco fosse stato mantenuto quello originale: Toussaint L'Ouverture e la rivoluzione di Santo Domingo. Un po' perché questa rivoluzione ha cercato fino all'ultimo di non avere come antagonista «l'uomo bianco» (ce n'erano diversi fra i consiglieri e gli aiutanti di Toussaint) ma un'istituzione e un rapporto di classe: la schiavitù. Soprattutto, perché il nodo problematico su cui James insiste è proprio quello del rapporto fra il singolo «grande uomo» Toussaint e un immenso sommovimento sociale collettivo, una grande vicenda di masse. «Non fu Toussaint a fare la rivoluzione - scrive infine James -, ma la rivoluzione a fare Toussaint»; c'è una copla di fandango rivoluzionario andaluso che dice, «qui ci vorrebbe un Fidel come a Cuba, ma dobbiamo sapere che un popolo che sa quello che vuole partorisce un proprio Fidel»). Io aggiungerei che la rivoluzione ha fatto Toussaint perché altrimenti non poteva fare se stessa.Toussaint aveva quarant'anni e si chiamava Toussaint Breda quando, non senza esitazioni, si unisce alla rivolta iniziata dal cimarron voodoo Boukman, prende il nome di L'Ouverture come a dire che adesso si apre un'epoca nuova, e presto ne diventa il capo carismatico indiscusso. C'è qualcosa di doloroso quando James osserva che senza le straordinarie circostanze storiche in cui si trovarono a vivere, grandi protagonisti come Toussaint, Christophe, Dessalines avrebbero vissuto e sarebbero morti inosservati, trattati fino alla fine solo come fidati, innocui subalterni e servitori. (Nel 1821, ispirata in gran parte dalle vicende di Haiti, si prepara a Charleston, South Carolina, una rivolta di schiavi. Quando Rolla, uno dei capi, è arrestato, il suo padrone disse: non ci posso credere; era il mio schiavo più fidato, gli ho tante volte affidato la mia famiglia. Gli chiede: ma che intenzioni avevi? E Rolla: piantarti la spada nella pancia e tagliarti la testa, a te e a tutti i tuoi. Senza quel tentativo di rivolta, anche Rolla sarebbe stato ricordato solo come un fedele e fidato domestico. Quanto furore si annida nell'anima di tanti oppressi che non incontrano le circostanze adatte?).Una personalità socialeLa Francia rivoluzionaria abolisce la schiavitù in ritardo, quasi per caso e un po' pentendosene; Napoleone la restaura ma ormai è troppo tardi, e gli eserciti che manda per domare Santo Domingo vengono distrutti dalle febbri e dai ribelli neri (Toussaint paga con la libertà e la vita l'essersi fidato della Francia rivoluzionaria; e Dessalines completerà il lavoro senza scrupoli e senza pietà). Ed è qui che il mondo gira attorno alla centralità di Haiti. Ricordiamoci: la Francia era allora padrona della ricca e fertile valle del Mississippi, da New Orleans (Orléans, appunto) al confine canadese (attraverso luoghi chiamati Saint Louis, Louisville, D'etroits, Sault Sainte Marie, Des Moines...) e non si era ancora rassegnata alla recente perdita del Canada. Il recupero di Santo Domingo è allora la pietra angolare di un disegno imperiale francese dai Caraibi al circolo polare artico, attraverso la valle del Mississippi e il Canada riconquistato nella guerra contro gli inglesi. Sono gli schiavi neri di Haiti a far saltare questa visione: senza la preziosa Santo Domingo, non ne vale più la pena. Guardate: nel 1802, Haiti è indipendente; nel 1803, Napoleone svende tutta la valle del Mississippi ai neonati Stati Uniti, per quattro centesimi l'acro. Sconfitta dai suoi schiavi, la Francia abbandona il Nord America. Il resto - la frontiera, l'espansione, l'egemonia degli Stati Uniti - è la storia dell'Occidente fino a noi. Ma attorno ad Haiti ruota una storia controfattuale che sarebbe piaciuta a Philip K. Dick: e se Haiti avesse perso, sarebbe il francese oggi la lingua egemone?Gli schiavi fuggiaschi della Georgia, gli schiavi rivoluzionari di Santo Domingo non hanno scritto episodi marginali, magari entusiasmanti, della nostra storia. L'hanno fatta loro. Post scriptum. Sulle pagine culturali di Repubblica del 3 novembre, un corrispondente letterario da New York commemora William Styron scrivendo che «Nelle Confessioni di Nat Turner affrontò l'abominio della schiavitù attraverso gli occhi di un personaggio immaginario di un afro-americano che tentò una ribellione nei confronti dei "padroni"». A parte le inspiegabili virgolette (i padroni erano letteralmente tali: proprietari degli schiavi), forse vale la pena di informarlo che Nat Turner non è «immaginario» per niente: si è ribellato, ha terrorizzato il Sud, è stato sconfitto ed è stato giustiziato nel 1831 lasciando una memorabile narrazione di sé. Ma Nat Turner è altrettanto inconcepibile di Toussaint e Dessalines, e di George Padmore: semplicemente, ci rifiutiamo di accettare la loro esistenza, la loro rivolta, la loro intelligenza. D'altronde, questo è lo stesso critico che anni fa sulle stesse pagine sbeffeggiava intellettuali neri come Henry Louis Gates, Jr. e Kwame Appiah perché la loro Encyclopaedia Africana dava troppo spazio, pensate, al «giocatore di cricket» C. L. R. James

06 dicembre 2006

Pete Seeger in Italia

Mercoledì 13 Dicembre ore 18

CASA DELLA MEMORIA E DELLA STORIA
Via San Francesco di Sales 4

Il CIRCOLO GIANNI BOSIO
presenta
"PETE SEEGER IN ITALIA"
nuovo CD prodotto in collaborazione con IL MANIFESTO

Interverranno:
DARIO TOCCACELI - curatore del CD
GINO CASTALDO, FELICE LIPERI, ALESSANDRO PORTELLI

Musica dal vivo con DARIO TOCCACELI, MARIANO DE SIMONE, LUIGI GRECHI, FRANCIS KUIPER, ANDREA CARPI.

Proiezione di filmati e documenti audiovisivi inediti.

Ingresso libero
Info 06/68135642
www.circologiannibosio.it

02 dicembre 2006

Per un incontro fra laici e credenti a Ravenna

Il 2 dicembre avrei dovuto partecipare a Ravenna a un incontro su "Uguaglianza, identità e differenze. Quale dialogo per un mondo comune", organizzato dall'Università per la formazione permanente degli adulti "Giovanna Bosi Maramotti", con Khaled Fouad Allam dell'unviersità di Trieste e la pastora valdese letizia Tomassone. All'ultimo momento non sono potuto andare, e per farmi un poco perdonare ho mandato a Paola patuelli, organizzatrice dell'incontro, questo testo.


Cara Paola, e carissime amiche e amici,
Non trovo le parole per scusarmi abbastanza del fatto che ragioni che davvero non controllo mi sottraggano a un incontro a cui tenevo molto, e che molto mi incuriosiva. Conto sulla vostra comprensione, e su un’altra occasione che fisseremo presto.
Mi incuriosiva questa occasione, come anche quelle a cui ho avuto il privilegio di partecipare a Monte Giove, per una domanda elementare: come c’entro io, che non riesco a trovare in me neanche una traccia di tensione verso la religiosità, in esperienze di dialogo come la vostra, o come Monte Giove? Ed è una domanda che rivolgo in primo luogo a me stesso: come mai sono così contento quando mi capita di esservi coinvolto? Proverò a ragionarci sopra con alcune considerazioni e una storia.
Partirei da una definizione che ho trovato nelle vostre lettere di preparazione a questo incontro, e in cui credo di riconoscermi:
Laicità: non solo essere consapevoli dell’esistenza di altre differenze, ma esserne curiosi, con passione, sapendo di essere portatori di una parziale differenza, come ci ricorda Enzo Bianchi nel suo recente La differenza cristiana. Senza dimenticare la necessità di un mondo comune, che non è immediatamente, naturalmente, politicamente senz’altro dato, ma che è, se c’è, risultato voluto e costruito.
Ecco, mi accorgo che la stessa parola che ho già usato due volte – curiosità – ritorna nella vostra definizione di che significa essere laici: essere curiosi con passione, desiderio di conoscere ciò che noi non siamo. E’ anche per questo che passo il mio tempo facendo ricerca sul campo in luoghi diversi, che leggo e studio culture e lingue diverse dalla mia. Proprio il fatto di essere lontano dall’esperienza religiosa mi porta ad esserne un appassionato curioso, ascoltatore, indagatore. Certe volte ho pensato che di fronte all’esperienza e al discorso religiosi mi sento come una persona senza orecchio musicale portata a un concerto: c’è qualcosa nell’aria che io non sento ma gli altri sì, e magari se potessi capire di che si tratta mi divertirei di più. Aggiungo subito che lo stesso vale in direzione inversa: anche chi non ha orecchio per la laicità (e sono in tanti, anche fra i laici, a non avercelo!) rischia di chiudersi in una fortezza fideistica e non sentire cose preziose che sono nell’aria.
Allora forse una delle ragioni che mi commuovono e mi entusiasmano in questi contesti di dialogo è il fatto che ci ascoltiamo fra noi non nonostante, ma proprio perché esistono fra noi dei terreni non condivisi. Le molte cose che ci uniscono – la pace, la non violenza, l’uguaglianza… quel neminem ledere di cui parlate, che credo voglia dire non solo non fare male a nessuno ma anche cercare il bene di tutti – queste cose sono il terreno condiviso che ci permette di incontrarci su quelle che non abbiamo in comune: la fede degli uni, la distanza dalla fede degli altri; capire come fondazioni etiche differenti possono portare a valori comuni; e creare, su queste condivisioni e queste differenze, quel “mondo comune” di cui parla Enzo Bianchi, un mondo che è non solo necessario ma anche, speriamo e col nostro contributo, possibile. Senza conversioni, anche perché se gli altri diventano come noi qualcosa si perde. C’è una canzone di Giovanna Marini in cui dice che vorrebbe che Dio regalasse un altro pianeta a chi “non vuole né vincere né costringere né convincere, ma solo vivere, vivere, vivere con l’altra gente e tanto spazio attorno a sé.” Ecco, questo è quel pianeta che certi nostri incontri provano a prefigurare già su quello in cui stiamo adesso. Come scrive Morelli, “muoversi liberamente fra le meravigliose diversità del mondo”.
Una delle parole chiave del nostro tempo, e non solo, è senz’altro dialogo. Ma proprio perché è una parola lunga e vasta, ha bisogno di ragionamenti. Dialogo di chi, con chi, come? Dialogo, dialogo interreligioso, dialogo ecumenico… Ho trovato al tempo stesso commoventi e sconcertanti le immagini televisive del Papa a Istanbul. Commoventi perché qualunque incontro di pace lo è, qualunque momento in cui ci si parla oltre le barriere; e perché dire che è peccato uccidere in nome di Dio (o, come direi io, è un delitto uccidere, in qualunque nome) è un’affermazione che va ascoltata non solo a Oriente, ma anche in quell’Occidente dove i presidenti dicono che Dio gli ha detto di bombardare l’Irak. Sconcertanti perché mentre mi pare logico che il Papa e i suoi interlocutori agissero e dialogassero nel loro ambito interreligioso, mi pareva che i nostri media presentassero il dialogo interreligioso come l’unico dialogo possibile fra le culture - come se quindi le civiltà si riassumessero nelle rispettive religioni. E io? Con chi parlo, chi parla con me?
Di qui, due cose. La prima è che non mi riconosco in quei laici, tra cui leader politici a cui sono vicino, che ritengono che per poter dialogare col mondo cattolico devono annunciare in pubblico una loro privata tensione religiosa, una loro “ricerca di Dio” che li legittimi agli occhi dei credenti. In questo modo, infatti, smettono di dialogare da laici non credenti, impoveriscono il dialogo e smettono di rappresentare chi non condivide la loro ricerca (se questa esiste davvero).
La seconda è che le tavole di dialogo interreligioso che si aprono da varie parti, fra cui con aspetti molto interessanti a Roma, sono realtà necessarie e importanti, ma che dobbiamo stare attenti a non prevenire i rischi di stato confessionale costruendo uno stato pluriconfessionale.
E’ questa, per esempio, una parte importante dell’esperienza degli Stati Uniti. La separazione fra stato e chiese infatti non deriva storicamente da una laicità dello stato (l’invocazione a Dio è presente anche sui biglietti di banca) ma dal fatto che al momento della costituzione erano presenti molte chiese diverse, per cui lo stato sceglie di non riconoscersi in una ma in tutte (aggiungendo poi nel secondo dopoguerra, il riconoscimento della presenza ebraica e, più recentemente, omaggi formali all’Islam intrecciati con la sua demonizzazione). Il risultato è che in questo stato così formalmente separato dalle chiese la dialettica politica si gioca continuamente su rivendicazioni di fede spesso estreme e dogmatiche, e che dichiararsi fuori dal discorso religioso significa negli Stati Uniti mettersi in condizioni di minorità (o spingere a estremi un po’ assurdi una correttezza politica laicista tutta formale, come in certe campagne contro il presepe negli uffici postali).
Il dialogo di cui mi sento partecipe è, dunque, quel dialogo ecumenico di cui parlano i vostri documenti: un dialogo, cioè, che coinvolge tutti, senza pregiudiziali a priori, e che tutti ci trasforma e arricchisce. (Restando ancora a Roma: l’esistenza di due “tavoli” separati, uno per il dialogo interreligioso e uno per la laicità può essere funzionale per un po’ di tempo ma andrà alla fine superata). Sulla base dell’esperienza di Camaldoli, definite dialogo ecumenico come “apertura all’altro, silenzio e meditazione, fuga da un mondo che si è fatto sistema tritatutto, consumista e distruttore della natura.” E qui viene la storia che vi voglio raccontare.
Da circa tre decenni vado tutti gli anni in una zona marginale, periferica, povera degli Stati Uniti, la contea di Harlan, nel Kentucky. E’ una contea con una lunga, e oggi quasi cancellata, storia di conflitto sociale (spesso sanguinoso: la chiamano Bloody Harlan, Harlan la sanguinaria), oggi lacerata da violenze contro l’ambiente che avvelenano l’acqua e l’aria e fanno a pezzi gli alberi, la terra e le persone; e da un’endemica, tragica diffusione di droghe. Nel microcosmo di Harlan, sono presenti tutte le varietà dell’esperienza religiosa cristiana, dalle più liberali alle più estreme –da cattolici e anglicani ai pentecostali maneggiatori di serpenti. Ma quella che dà il segno decisivo è senza dubbio la variante evangelica o pentecostale che oggi riassumeremmo sotto l’etichetta di “fondamentalista”: interpretazione letterale della Bibbia, senso del sacro nell’esperienza ordinaria, narrazioni diffuse di visioni e miracoli, applicazione di norme religiose alla vita quotidiana (per esempio: divieto alle donne di tagliarsi i capelli), e così via.
Nei miei soggiorni a Harlan, sono generalmente ospitato presso famiglie di questo tipo. Vivo con loro, e con loro faccio una cosa che non mi viene mai di fare quando sono a casa: vado in chiesa. Vado in chiesa perché ci vanno loro, perché è quasi l’unico spazio sociale che esiste, perché vi si pratica musica coinvolgente e oratoria emozionante. E ogni volta, quando arriva il momento, dopo avermi salutato e dato il benvenuto, mi si chiede di “testimoniare”. E’ un momento sempre imbarazzante: lo sanno benissimo che non sono “salvato”, molti sanno o sospettano che sono comunista (cosa per loro quasi totalmente incomprensibile), ma mi conoscono, sanno che gli voglio bene e me ne vogliono in cambio. Così, navigo in questi miei interventi sulla lama di rasoio di un discorso che loro possano condividere, senza però fingere una religiosità che non sento. Parlo della distruzione degli alberi e delle montagne, contro cui anche questi cristiani fondamentalisti si organizzano e lottano; parlo della pace, in una piccola città che ha in questo momento 115 uomini in Irak; parlo delle cose di cui parliamo fra noi. Solo una volta hanno cercato di convertirmi (ed era una predicatrice venuta da fuori, che non mi conosceva); ma, anche sapendomi “non salvato”, mi hanno sempre accolto fraternamente nelle loro piccole chiese.
Se devo pensare alla mia più intensa esperienza di dialogo ecumenico, penso alla vecchia signora malandata e con le gambe piagate, incontrata nella chiesa di legno di Cranks Creek, che vedendomi straniero mi disse: “Tu vieni da oltre le acque, ma non sei un russo?” “Anche i russi sono persone”, dissi io. E lei: “E allora perché ci vogliono uccidere?” Ecco, cercai di spiegarle che non era vero, e lei mi stette a sentire.
La cosa profonda per cui ci vado però è ancora un’altra: le chiese dei miei amici spesso non hanno nessuno sull’altare; o, se sull’altare c’è qualcuno, è qualcuno che fa lo stesso mestiere e la stessa vita, contadino o minatore, dei fedeli sui banchi. Sono piccolissime comunità di poveri, in cui si parla, si canta, si testimonia a turno, soprattutto si sta insieme, e si evocano vibrazioni profonde delle emozioni più radicali, in cui la disperazione, la sofferenza, l’alienazione sono momentaneamente sospese dalla fratellanza. Non c’è niente da idealizzare, ci mancherebbe altro; fra loro ci sono ipocrisie, gelosie, falsità, razzismo come in ogni altro luogo. Ma nei momenti migliori con queste persone con cui non ho quasi niente in comune (fra l’altro non sono sicuro nemmeno di come votano) ha vissuto quello che voi chiamate dialogo ecumenico: “apertura all’altro”, cioè me; “silenzio e meditazione”, nei lunghi momenti di preghiera individuale; “fuga da un mondo che si è fatto sistema tritatutto, consumista”, e autodifesa collettiva contro un sistema “distruttore della natura.”
E c’è dell’altro: quelle vibrazioni della sensibilità religiosa che in me non sento, le ho percepite fra loro in certi momenti assai più che in tutte le liturgie con cui sono cresciuto. E’ un tipo di fervore, di apertura emotiva, di comunicazione fatta con la parola e con tutto il corpo, con la danza e con la trance, che mi mette un po’ paura e mi lascia fuori, ma che poi scorre sotto certi momenti entusiasmanti del meglio della cultura americana – per esempio, in certi culmini fusionali nei grandi momenti di partecipazione politica e magari in certi concerti rock. Quando Martin Luther King parla a Washington della liberazione degli afroamericani con lo stile anaforico, formulaico, ritmico, pieno di risonanze bibliche (i fiumi, le valli, le montagne) fa irrompere nella politica la passione profonda che ha imparato a esprimere nella sua chiesa battista di Montgomery. Quando Bruce Springsteen nel suo concerto a New York fa propria la modalità oratoria dei predicatori tradizionali e invoca “un battesimo rock and roll, un bar mitvah rock and roll”, traduce nel nostro mondo laico e un po’ trasgressivo quel fervore autentico che le chiese povere, bianche e nere, hanno tramandato come strumento di sopravvivenza e di umanità di fonte all’emarginazione, al razzismo, alla schiavitù, all’oppressione.
Nella sua lettera, Paola Patella ricorda di avermi conosciuto attraverso un mio scritto su Toni Morrison. Toni Morrison è venuta pochi giorni fa, con nostra grande emozione, a un convegno a lei dedicato a Penne, vicino Pescara. E ha detto qualcosa che risuona con certi vostri discorsi. I vostri documenti parlano della necessità di apprendere i principi della comunionalità, dell’amore, della convivenza, del dialogo. Non sono cose istintive, sono il risultato di un lavoro. Specularmente, Toni Morrison ha detto a Penne: “il razzismo, il pregiudizio, c’è bisogno di impararli” – nel senso che anche questi non sono atteggiamenti spontanei, con cui nasciamo, ma prigioni mentali in cui veniamo rinchiusi dal discorso violento che respiriamo ogni giorno. E allora, se razzismo e violenza sono cose che si imparano, possiamo rispondere a questa didattica spaventosa imparando, come qui si sta cercando di fare, il loro contrario.
E poi c’è un’altra cosa in Toni Morrison, uno dei momenti altissimi in cui il discorso religioso si fa davvero universale perché non ci vuole “né costringere né convincere”, ma solo aiutarci a guardare noi stessi fra gli altri. E’ il momento in cui Baby Suggs, santa, ex schiava, predicatrice senza ordinazione, sale su una grande pietra al centro di una radura, insegna agli oppressi, agli spezzati, ai frustati, ai marchiati, agli inseguiti, agli esuli, ai disprezzati a piangere e a ballare, e ad amare se stessi - a non tradurre la loro pena in odio, violenza, autodistruzione. Vorrei che Paola lo leggesse alla fine di questo intervento. Intanto, vi ringrazio per avermi invitato, vi ringrazio per avermi, spero, perdonato, e vi ringrazio per la pazienza di stare a sentire.

Qui, diceva, in questo posto qui, noi siamo carne, carne che piange e che ride, carne che balla a piedi nudi sull’erba. Amatela. Amatela tanto. Laggiù non amano la vostra carne. La disprezzano. Non amano i vostri occhi – sono capaci di strapparveli come se niente fosse. E non amano nemmeno la pelle della vostra schiena. Quelli laggiù ve la strappano. E miei cari, non amano le vostre mani. Loro le usano e basta, le stringono, le mozzano, le lasciano vuote. Amate le vostre mani! Amatele! Alzatele e baciatele. Usatele per toccare gli altri, battetele, accarezzatevi la faccia, perché non amano nemmeno quella. Siete voi che la dovete amare, voi. E no, non vogliono bene alla vostra bocca. Quelli ve la spaccano e poi ve la spaccano ancora. Non ascoltano quello che dice. Non ascoltano quello che grida. Quello che ci mettete dentro per nutrire il vostro corpo, ve lo rubano e in cambio vi danno gli avanzi. No, non amano la vostra bocca. Dovete amarla voi. E’ della carne che vi parlo, adesso. Carne che ha bisogno di essere amata. Piedi che hanno bisogno di riposare e di ballare, schiene che hanno bisogno di sostegni, spalle che hanno bisogno di braccia, di braccia forti, vi dico. E statemi a sentire, miei cari, statemi a sentire. Quelli non amano il vostro collo, bello, diritto, e senza cappio. Perciò amate il vostro collo, metteteci la mano sopra, trattatelo bene, accarezzatelo e tenetelo dritto. E tutte le parti interne, che quelli butterebbero ai porci, dovete amare anche quelle. Il fegato scuro, scuro – amatelo, amatelo, e anche il cuore che batte, batte sempre, amate anche quello. Più degli occhi e dei piedi. Più dei polmoni che non hanno ancora mai respirato aria libera. Più del ventre che racchiude la vita e delle parti intime che danno la vita, ascoltatemi, amate il vostro cuore. Perché questa è la cosa più preziosa che avete.