Il "giovane" Holden
il manifesto 30.1.2010
Ha perfettamente ragione Tommaso Pincio: né il giovane Holden Caulfield né tanto meno il suo autore sono dei ribelli, dei rivoluzionari: non denunciano l’ingiustizia, non si schierano nelle lotte, non enunciano alternative e certamente non hanno letto Marx. Il loro rifiuto estetico e morale della falsità della società di massa li induce a se mai a quella che Albert Hirschmann ha chiamato “uscita”: andarsene, nascondersi. Che poi è coerente con le analisi sociologiche funzionaliste che prevalevano negli anni ’50, secondo cui l’uscita era l’unico modo di sottrarsi a un sistema creduto compatto e privo di contraddizioni. La differenza fra i progetti rivoluzionari europei e i movimenti americani si è fondata in gran parte proprio su questo: fra una cultura antagonista, che faceva leva sulla contraddizioni del sistema, e una cultura alternativa che cercava altre strade e altri mondi al di fuori di esso. Anche per questo un altro libro tutt’altro che rivoluzionario di un autore tutt’altro che rivoluzionario, come On the Road ha generato lo stesso “equivoco” di cui parla Pincio a proposito di Salinger. Che però mi interessa di più e cerco di spiegare perché.
La cosa più curiosa e rivelatrice è proprio il titolo della traduzione italiana – il giovane Holden. A me par di ricordare che Holden Caulfield non tenda a dirsi mai “giovane” – e non sarà un caso se Salinger ce lo descrive come precocemente incanutito, dall’aspetto più anziano della sua età anagrafica. Oscilla se mai fra un’infanzia perduta (quella della sorellina, che guarda caso chiama sempre la vecchia Phoebe: un termine non anagrafico ma di tenerezza sentimentale, che pure non è senza risonanze in questo contesto) e un’età adulta che lo spaventa: basta guardare i suoi gusti musicali. Da una parte, sta il jazz degradato a “fasullo” che va a sentire nei locali e negli hotel dove lo fanno entrare perché lo prendono per più vecchio di com’è. Dall’altro stanno le canzoni per bambini: da quella reinventata da un bambino sentito per strada che dà il titolo al libro, al disco (che non a caso gli si rompe) comprato per la sorellina Phoebe, alla canzone sempre ripetuta che accompagna il girotondo finale. E d’altronde la figura del disco e della giostra, cerchi che ruotano sempre uguali su se stessi accompagnano l’immagine principale, quella del catcher che cerca di fermare i bambini nel campo di avena prima che caschino nell’abisso dell’età adulta; e accompagnano la forma di cerchio del romanzo che comincia e finisce tornando sul suo inizio, nello stesso luogo. Si tratta di fermare il tempo, che va inesorabilmente in una direzione sola: quella della perdita dell’innocenza entrando nel mondo degli adulti, quella dell’entropia (che infatti diventa la figura centrale della letteratura americana negli anni successivi, trionfando naturalmente proprio con Pynchon) o – e in questo sì, oltre che nel linguaggio non standard e nell’età, Holden somiglia a Huckleberry Finn – la direzione inesorabile della corrente del Mississippi che invece che verso la libertà porta nel più profondo della schiavitù, e che mette in crisi Mark Twain quando deve trovare un finale alla sua storia.
La scena più angosciosa del libro è quella in cui Holden sta sull’orlo di un marciapiede, deve attraversare la strada per arrivare dall’altra parte, e a paura di sprofondare nel mezzo. Quello che manca a Holden è proprio quello spazio intermedio che sta fra l’innocenza dell’infanzia e la falsità dell’età adulta. E’ uno spazio che ancora non esiste nel tempo in cui Salinger scrive, ma che proprio Salinger aiuta a inventare: lo spazio dell’adolescenza in cui si collocherà neanche un paio d’anni dopo la “rivoluzione” del rock and roll (Holden lo avrebbe trovato irrimediabilmente volgare, ma se i miei calcoli sono giusti Elvis Presley aveva la sua stessa età) e da cui nascerà subito dopo l’identità generazionale di movimenti alternativi e pacifisti portatori di uno slogan che a Holden sarebbe piaciuto: “non fidarti mai di nessuno sopra i trent’anni”.
Allora, la differenza rivelatrice fra The Catcher in the Rye e Il giovane Holden sta nel fatto che il romanzo di Salinger contribuisce a creare una categoria che ancora non esiste quando lo scrive ma che si è pienamente imposta quando lo traduciamo pochi anni dopo: la categoria, appunto, del giovane. E’ una categoria ambigua, contemporaneamente morale, politica e di consumo (fra le tante cose che la rendono possibile, per esempio, c’è che i giovani hanno adesso i soldi in tasca per comprarsi i dischi dei loro coetanei, i blue jeans, e magari le scarpe blu di camoscio rivendicate con furore di rivoluzionario consumismo da Elvis e da Carl Perkins (aggiungerei che in questo processo svolge un ruolo centrale un protagonista che Salinger e Holden ignorano completamente: gli afroamericani. Non a caso, il vagabondare di Holden si ferma all’orlo di Central Park che dà su Harlem).
Se Holden avesse conosciuto Howard Zinn, che abbiamo perduto nello stesso giorno in cui è morto il suo autore, avrebbe saputo che si può smettere di essere giovani senza per questo diventare falsi (e senza smettere di essere ribelli). Se avesse sentito Elvis – o, salvognuno Willie Dixon – li avrebbe trovati senz’altro volgari e selvaggi. Ma se avesse letto Ernesto deMartino li avrebbe forse visti come un aspetto di fase di “imbarbarimento” che accompagna l’irruzione sulla scena del mondo delle masse rurali, coloniali, subalterne. Da loro, Holden sarebbe scappato, come infatti è scappato il suo creatore; ma ha contribuito, intenzionalmente o no, ad aprire nella corazza del sistema la falla da cui sono entrati.
Ha perfettamente ragione Tommaso Pincio: né il giovane Holden Caulfield né tanto meno il suo autore sono dei ribelli, dei rivoluzionari: non denunciano l’ingiustizia, non si schierano nelle lotte, non enunciano alternative e certamente non hanno letto Marx. Il loro rifiuto estetico e morale della falsità della società di massa li induce a se mai a quella che Albert Hirschmann ha chiamato “uscita”: andarsene, nascondersi. Che poi è coerente con le analisi sociologiche funzionaliste che prevalevano negli anni ’50, secondo cui l’uscita era l’unico modo di sottrarsi a un sistema creduto compatto e privo di contraddizioni. La differenza fra i progetti rivoluzionari europei e i movimenti americani si è fondata in gran parte proprio su questo: fra una cultura antagonista, che faceva leva sulla contraddizioni del sistema, e una cultura alternativa che cercava altre strade e altri mondi al di fuori di esso. Anche per questo un altro libro tutt’altro che rivoluzionario di un autore tutt’altro che rivoluzionario, come On the Road ha generato lo stesso “equivoco” di cui parla Pincio a proposito di Salinger. Che però mi interessa di più e cerco di spiegare perché.
La cosa più curiosa e rivelatrice è proprio il titolo della traduzione italiana – il giovane Holden. A me par di ricordare che Holden Caulfield non tenda a dirsi mai “giovane” – e non sarà un caso se Salinger ce lo descrive come precocemente incanutito, dall’aspetto più anziano della sua età anagrafica. Oscilla se mai fra un’infanzia perduta (quella della sorellina, che guarda caso chiama sempre la vecchia Phoebe: un termine non anagrafico ma di tenerezza sentimentale, che pure non è senza risonanze in questo contesto) e un’età adulta che lo spaventa: basta guardare i suoi gusti musicali. Da una parte, sta il jazz degradato a “fasullo” che va a sentire nei locali e negli hotel dove lo fanno entrare perché lo prendono per più vecchio di com’è. Dall’altro stanno le canzoni per bambini: da quella reinventata da un bambino sentito per strada che dà il titolo al libro, al disco (che non a caso gli si rompe) comprato per la sorellina Phoebe, alla canzone sempre ripetuta che accompagna il girotondo finale. E d’altronde la figura del disco e della giostra, cerchi che ruotano sempre uguali su se stessi accompagnano l’immagine principale, quella del catcher che cerca di fermare i bambini nel campo di avena prima che caschino nell’abisso dell’età adulta; e accompagnano la forma di cerchio del romanzo che comincia e finisce tornando sul suo inizio, nello stesso luogo. Si tratta di fermare il tempo, che va inesorabilmente in una direzione sola: quella della perdita dell’innocenza entrando nel mondo degli adulti, quella dell’entropia (che infatti diventa la figura centrale della letteratura americana negli anni successivi, trionfando naturalmente proprio con Pynchon) o – e in questo sì, oltre che nel linguaggio non standard e nell’età, Holden somiglia a Huckleberry Finn – la direzione inesorabile della corrente del Mississippi che invece che verso la libertà porta nel più profondo della schiavitù, e che mette in crisi Mark Twain quando deve trovare un finale alla sua storia.
La scena più angosciosa del libro è quella in cui Holden sta sull’orlo di un marciapiede, deve attraversare la strada per arrivare dall’altra parte, e a paura di sprofondare nel mezzo. Quello che manca a Holden è proprio quello spazio intermedio che sta fra l’innocenza dell’infanzia e la falsità dell’età adulta. E’ uno spazio che ancora non esiste nel tempo in cui Salinger scrive, ma che proprio Salinger aiuta a inventare: lo spazio dell’adolescenza in cui si collocherà neanche un paio d’anni dopo la “rivoluzione” del rock and roll (Holden lo avrebbe trovato irrimediabilmente volgare, ma se i miei calcoli sono giusti Elvis Presley aveva la sua stessa età) e da cui nascerà subito dopo l’identità generazionale di movimenti alternativi e pacifisti portatori di uno slogan che a Holden sarebbe piaciuto: “non fidarti mai di nessuno sopra i trent’anni”.
Allora, la differenza rivelatrice fra The Catcher in the Rye e Il giovane Holden sta nel fatto che il romanzo di Salinger contribuisce a creare una categoria che ancora non esiste quando lo scrive ma che si è pienamente imposta quando lo traduciamo pochi anni dopo: la categoria, appunto, del giovane. E’ una categoria ambigua, contemporaneamente morale, politica e di consumo (fra le tante cose che la rendono possibile, per esempio, c’è che i giovani hanno adesso i soldi in tasca per comprarsi i dischi dei loro coetanei, i blue jeans, e magari le scarpe blu di camoscio rivendicate con furore di rivoluzionario consumismo da Elvis e da Carl Perkins (aggiungerei che in questo processo svolge un ruolo centrale un protagonista che Salinger e Holden ignorano completamente: gli afroamericani. Non a caso, il vagabondare di Holden si ferma all’orlo di Central Park che dà su Harlem).
Se Holden avesse conosciuto Howard Zinn, che abbiamo perduto nello stesso giorno in cui è morto il suo autore, avrebbe saputo che si può smettere di essere giovani senza per questo diventare falsi (e senza smettere di essere ribelli). Se avesse sentito Elvis – o, salvognuno Willie Dixon – li avrebbe trovati senz’altro volgari e selvaggi. Ma se avesse letto Ernesto deMartino li avrebbe forse visti come un aspetto di fase di “imbarbarimento” che accompagna l’irruzione sulla scena del mondo delle masse rurali, coloniali, subalterne. Da loro, Holden sarebbe scappato, come infatti è scappato il suo creatore; ma ha contribuito, intenzionalmente o no, ad aprire nella corazza del sistema la falla da cui sono entrati.