Si riuniscono ogni anno, anche se in pochi e sempre più in età, per rivendicare il diritto di rifiutare di uccidere e ricordare il coraggio civile di chi ha pagato questa scelta con la libertàManchester, Inghilterra, domenica, da poco passato mezzogiorno. Esco da un internet cafè e mi avvio in cerca di un posto dove mangiare qualcosa. Il Liverpool ha vinto rocambolescamente la Coppa d’Inghilterra, i giornali informano di altri due soldati inglesi morti in Irak. Fa freddo, dopo giorni di insolito sole. In uno slargo dietro la cattedrale, mi attirano le voci di un coro. Inevitabilmente, mi accosto. L’unica parola che distinguo è “freedom,” libertà. Una quarantina di persone in cerchio, per lo più coi capelli bianchi; alcuni sono chiaramente troppo vecchi per stare in piedi e gli hanno portato delle sedie. Sono pochi, in mezzo alla grande piazza vuota, ma emanano quella tranquilla dignità, molto protestante, di chi non ha bisogno di far parte di una moltitudine per affermare un messaggio morale. Mi ricordano, e forse anche sono, quei sopravvissuti di un’antica sinistra che qui come negli Stati Uniti continuano a incontrarsi per ricordare e ribadire le loro antiche ragioni. Dietro di loro, un cartello su un cavalletto: “Per tutti coloro che hanno affermato e affermano il diritto di rifiutare di uccidere.” È la giornata internazionale dell’obiezione di coscienza, e io, come quasi tutti, non lo ricordavo. Ma loro sì.
Una statua di pietra neraAlle spalle del gruppo, su tre gradini di piedistallo, una statua di pietra nera, una donna circondata da piccioni, o forse colombe. Alcuni li ha in grembo, altri becchettano sui gradini dove è distesa una bandiera arcobaleno, chissà se venuta dall’Italia, con la scritta “peace”. Passa poca gente, rallentano interessati e rispettosi, e tirano dritto. Si ferma un gruppetto di ragazzine coi vestiti della domenica e i palloncini in mano, dirette forse a qualche compleanno; una donna del gruppo si ferma a parlare con loro, dà un volantino alla signora che le accompagna; restano qualche minuto e poi continuano verso la loro festa. L’unico che si è fermato fino alla fine sono io – anche perché comunque non sto andando da nessun’altra parte.
Tutti i partecipanti alla cerimonia, in cerchio, hanno in mano un garofano bianco. Quando ne danno uno anche a me mi rendo conto che su ciascun gambo è attaccata una striscetta con un nome. Il mio si chiama Valentin Gulai. Prende la parola Malcolm Pittock, smilzo, canuto, abiti blu come da lavoro. “Ormai sono rimasti in pochi di quelli che hanno fatto obiezione di coscienza durante la guerra,” dice guardando intorno ai presenti più anziani di lui. “Restiamo soprattutto noi che l’abbiamo fatto nel dopoguerra.” Lui ha fatto obiezione nel 1949; gli hanno proposto diversi servizi alternativi, la forestale o altro; “ma io volevo affermare un principio, e fare il servizio alternativo sarebbe stato un riconoscimento del loro diritto di dirmi che cosa dovevo fare. Io volevo affermare un principio elementare che mi avevano sempre insegnato: che uccidere è una cosa malvagia.” Il processo si trascina per anni, finisce in carcere nel 1954. “Come ho fatto a spiegarlo a mia madre? Le ho detto, la nostra vicina di casa è straniera: ti andrebbe che mi reclutassero per ammazzare il figlio della tua vicina?”
Malcolm, però, ha anche un tradizione familiare che, secondo uno schema più frequente di quanto si pensi, non si trasmette linearmente dai genitori al figlio, ma lateralmente, come una mossa del cavallo: “Durante la prima guerra mondiale, mio zio materno, al fronte in Francia, rifiutò di continuare a sparare. Lo arrestarono, lo condannarono alla fucilazione; poi Lloyd George, primo ministro, gli commutò la pena in dieci anni di carcere. Alla fine della guerra lo lasciarono andare.”
Dai nazisti ai quaccheriNe prende lo spunto per ricordare la lunga storia dell’obiezione di coscienza, dagli obiettori nella Germania nazista ai testimoni di Geova, dal pacifismo dei Quaccheri ai soldati inglesi che sono in prigione per avere rifiutato di continuare a combattere in Irak. Invita a scrivergli, e a scrivere agli obiettori di coscienza che sono ora in carcere negli Stati Uniti: “quando ero in carcere ho ricevuto centinaia di lettere e sono state un grande aiuto per continuare a resistere.” Cita le parole di Mark Plowman (se ho capito bene i nome), l’ultimo a fare obiezione di coscienza dopo avere combattuto in guerra: “L’esercito è una macchina che trasforma le persone in strumenti in mani altrui. Se continuassi a fare il soldato mi renderei responsabile del più grave dei crimini: distruggere la vita di centinaia civili, di persone che non conosco e non mi hanno fatto niente” (più tardi, un’altra oratrice ricorderà che dalla seconda guerra mondiale , da qua ndo l’arma principale è il bombardamento, in poi i civili sono la maggioranza delle vittime). Il volantino che mi hanno messo in mano ricordea Camilo Mejia, soldato americano, obiettore in Irak, condannato a un anno di carcere nel 2004; Ben Griffin, primo militare dei corpi speciali inglesi, che rifiuta di continuare a combattere in Irak una guerra che ritiene moralmente ingiusta; e Malcolm Kendall-Smith, medico dell’aeronautica, che ha rifiutato di tornare in Irak a combattere una guerra che considera illegale.
Obiezione fiscale alla guerraDopo di lui parla una donna più giovane, Birgit Vollm, che fa parte di un’organizzazione
per l’obiezione fiscale contro la guerra. “Dal 1960,” dice, “la coscrizione obbligatoria è stata abolita; ma se non ci arruolano più per andare a fare la guerra, ci arruolano facendoci pagare le tasse che le finanziano e la sostengono. Non ci vogliono come soldati, vogliono i nostri soldi per fare la guerra. Siamo tutti arruolati, nel momento stesso in cui paghiamo le tasse sui prodotti che compriamo tutti i giorni.” Ricorda l’esempio di Henry David Thoreau, il grande scrittore americano che nel 1848 scontò una storica e simbolica notte in prigione per essersi rifiutato di pagare le tasse per la guerra contro il Messico. “Le spese militari sono otto volte quelle per l’aiuto allo sviluppo. Oggi l’obiezione di coscienza passa per l’obiezione fiscale.”
La cerimonia continua con delle letture di poesie. Un po’ per l’accento del Nord inglese che non mi è familiare, un po’ perché il megafono da cui parlano è antidiluviano (e queste persone anziane hanno poca familiarità col microfono), un po’ anche perché il vento è salito e io sono controvento, capisco solo a sprazzi. Una donna legge una poesia che parla di fragole, non capisco bene come: “ci danno le fragole ma noi vogliamo solo la verità”. Un uomo anziano coi capelli arruffati legge come se fosse una poesia il testo di una canzone di Ewan McColl, il grande protagonista militante del folk revival britannico: “Più di ogni altra cosa volevo vedere il mondo, ma mi hanno fatto capire che l’avrei potuto fare solo con le armi in mano. Il testo è solo un poco aggiornato: “Preferisco restare tutta la via alla pompa di benzina,” dice adesso l’ultima strofa, “che vedere il mondo da dietro il mirino di un fucile sulle rive dell’Eufrate.” La gente applaude e lui av verte: “non ho finito, ne ho un’altra da infliggervi”; e, con la voce incerta della sua età ma con la convinzione dei suoi anni, canta una ballata di fine ‘700: la storia di un disertore, che è arruolato a forza nella marina come allora si usava, scappa, viene ripreso e costretto a “servire il re”. La canzone popolare continua a fare il suo dovere, anche in questa fredda giornata di Manchester. Più tardi il coro canterà tre canzoni, due africane e una hawaiana: invocazioni alle divinità della terra, agli antenati, alla pace, rese un po' tutte uguali ma sincere. Alla lontana, ricordano lo stile a cappella di gruppi come Ladysmith Black Mumbazo. Mentre cantano una canzone Xhosa, passa una coppia di africani; chissà che effetto gli fa, se la riconoscono, quest’Africa passata per le limpide voci del Manchester Community Choir.
Si chiamano i nomi sui fiori
Ma prima delle canzoni di chiusura c’è il culmine della cerimonia: la chiamata degli obiettori di coscienza i cui nomi sono sui nostri fiori. Sono nomi di tutti i paesi, di tutto il secolo. Chiamano in ordine alfabetico, dall’Albania alla Yugoslavia, dicendo qualche parola sulle persone chiamate. Il mio Valentin Gulai lo chiamano alla B di Bielorussia: è stato arrestato di recente, è ancora in carcere. Per l’Italia, nominano Pietro Pinna, arrestato e condannato due volte (a 10 e 6 mesi) nel 1949. Non ho idea di chi fosse. Nella lista dei paesi, chiamano persino il “Roman Empire”: Maximilianus, decapitato in Africa nel 295 dopo Cristo. Neanche di lui avevo mai sentito parlare.
Ad ogni chiamata, chi ha il fiore col nome si avvicina alla bandiera della pace sui gradini della statua e depone il fiore (i più anziani fqaticano anche a fae qjuei pochi passi, hanno bisogno di aiuto). È un rituale un po’ patetico e sentimentale, ma non è che ci siano molti altri modi di rendere omaggio. La chiamata dei nomi mi sembra una delle forme prevalenti della ritualità del nostro tempo – dalle Fosse Ardeatine alle Torri Gemelle, dal memoriale del Vietnam a Washington al monumento alle vittime del bombardamento del 19 luglio 1943 a San Lorenzo a Roma, si chiamano e si scrivono i nomi, uno per uno. La società di massa riconosce che in ognuna delle sue stragi gli uccisi sono persone singole, individui e non numeri di una statistica. Ogni massacro è anche una molteplicità di singoli omicidi.
Mentre mi allontano alla fine, vedo su un palo della luce un cartello, messo lì a suop tempo dalle autorità: azzurro cielo con una colomba bianca e la scritta, “Manchester city of peace”. Magari è solo un omaggio superficiale ai buoni sentimenti, magari la gente che ci passa non ci fa nemmeno caso. Ma questi coraggiosi vecchietti ogni l’hanno fatto diventare, almeno per un’ora, vero.
pubblicato su il manifesto, 20 maggio 2006