30 ottobre 2009

Diario di viaggio (difficile) fra Kentucky e California

il manifesto 30 ottobre 2009

Lexington, Università del Kentucky. Sto raccontando a una classe di scienze sociali la mia ricerca in Appalachia, e mi viene di dirgli che ho sempre problemi a farmi rimborsare le spese di viaggio dall’università perché Harlan – equivalente di un nostro capoluogo di provincia – non è raggiungibile con nessun mezzo di trasporto pubblico e quindi non ho mai una normale pezza d’appoggio da presentare all’amministrazione. Chiede una ragazza, ma in Italia anche i paesi delle zone rurali ci si arriva coi mezzi pubblici? Dico, in linea di principio sì: almeno fino a quando non ci siamo messi in testa di privatizzare tutto, l’accesso al trasporto pubblico è stato pensato più o meno come un diritto del cittadino. Restano basiti: l’idea che il concetto di diritto si possa applicare a cose come i trasporti gli risulta del tutto sorprendente. Figuriamoci la salute, che è l’argomento del giorno.
La sera, Rhonda, che ha lasciato la carriera di medico per fare la musicista, mi chiede senza preliminari: com’è il vostro sistema sanitario? Glielo spiego – sprechi, cattiva politica e corruzione compresi, ma quello che fa lo fa per tutti. Qui non è così, molto dipende da chi sei. Jo Carson – poeta, performer, drammaturga straordinaria – ha un tumore al colon. Non ha assicurazione né assistenza. Per fortuna è famosa, e i suoi amici e lettori stanno facendo collette per farla curare, forse ce la faranno. Per chi è meno conosciuto e più solo, le cose sono peggio.
Gurney Norman, “poeta laureato” del Kentucky, mi racconta di un parente di sua moglie, anche lui con un tumore. L’assicurazione accetta di pagare solo un frammento delle spese. Gli oppositori della riforma sanitaria si dicono sconvolti al pensiero che dei burocrati statali possano decidere della vita e della morte; ma gli pare normale che lo facciano invece dei burocrati privati che puntano al profitto. Per fortuna, il paziente ha parenti aggiornati, ostinati e con buone relazioni, che armano un tale casino legale e di pubbliche relazioni che alla fine l’assicurazione cede. Ma è una lotta di potere, e la vincono in pochi.
Qualche giorno dopo, a Santa Rosa, California, la prima pagina del giornale locale informa che una delle maggiori HMO – le aziende sanitarie private che gestiscono le assicurazioni – ha rotto i rapporti con l’università di San Francisco e da ora in poi i suoi clienti non avranno più accesso ai servizi degli specialisti universitari. Università e HMO si scambiano insulti e accuse a colpi di inserti pubblicitari sui giornali. Lucia – psicoterapeuta, moglie di docente universitario – mi spiega l’ottimo programma di assicurazione di cui dispone la sua famiglia. Gli costa pochi dollari al mese, è deducibile dalla tasse, copre quasi tutto con un ticket di dieci dollari a visita (gratis per certi controlli preventivi). Lei e il marito hanno avuto ogni sorta di trattamenti chirurgici spendendo pochissimo. Dice: sarei ben contenta di pagare più tasse se questo vantaggio fosse applicabile a tutti.
Suo marito ha compiuto 65 anni, lei sta per arrivarci, e a quell’età tutti i cittadini hanno diritto a Medicare, un programma di assistenza abbastanza efficiente (dicono: se Barack Obama avesse formulato la sua proposta dicendo: Medicare per tutti prima dei 65 anni, lo avrebbero capito al volo e avrebbe avuto molti problemi di meno). Solo che Medicare non scatta automaticamente: negli Stati Uniti, molti diritti - a partire del diritto di voto – ti spettano a domanda, e non sempre il sistema ti facilita l’accesso, basta pensare a quanto è complicato registrarsi per votare. Così, Lucia mi racconta la trafila burocratica che ha dovuto fare per avere Medicare: moduli su moduli sempre più complicati, file, telefonate, lunghe attese per burocrati che ti buttavano giù il telefono… Dice Lucia: io sono istruita, ostinata e conosco i miei diritti, ma pensa alle persone anziane che non hanno tanta familiarità con la scrittura, che parlano poco inglese, che non hanno il coraggio di affrontare chi sta dietro una scrivania. Viene da pensare che gli Stati Uniti siano un po’ come il mondo immaginato da Ghedini, avvocato berlusconiano: anche quando il diritto è uguale per tutti, il suo esercizio e la sua applicazione restano disuguali, un’aleatoria questione di classe.
Da Lexington devo andare a Louisville. Sono le due città principali del Kentucky, grandi come Bologna e Firenze, e distanti uguale, una settantina di miglia. Nonostante il discorso fatto in classe la mattina prima, sono ancora talmente ingenuo da credere di poter fare il viaggio in autobus. Naturalmente, non esiste. Il treno, neanche a parlarne. L’aereo costa una cifra spropositata. Finisco per andarci in taxi: centonovanta dollari, e dubito che qualcuno me li rimborserà mai.

Berkeley, California, dove cominciarono gli anni ’60 con il Free Speech Movement e la rivolta studentesca del ‘64. Piove e entro in un caffé. Conto venticinque persone sedute a venticinque tavolini separati ciascuno assorto nel suo personale computer. Non si sente una voce, altro che Free Speech. Guardando meglio, vedo che c’è anche una coppia. Lui e lei, ciascuno col suo computer. Mi pare la folla solitaria di cui parlava mezzo secolo fa David Riesman. Faccio una foto col telefonino, non se ne accorgono nemmeno, e comunque la foto non dà l’idea. Mi siedo al mio tavolino singolo, e apro un libro.
La mattina, con David Walls – uno dei ribelli del ’64 – avevamo parlato dell’individualismo in questo paese, e lui giustamente mi aveva detto che c’è anche una contronarrativa: la storia della benevolent community, dell’aiuto reciproco e dell’assistenza prestata volontariamente a chi ha bisogno . Ed è verissimo: è il caso degli amici e dei lettori che corrono in soccorso di Jo Carson. Ma il problema non è la benevolenza, sono i diritti. E anche la comunità, quando c’è, rischia di dissolversi. Sono tutti connessi con chi è lontano, e tutti separati da chi gli siede accanto, come i fedeli calvinisti tutti insieme da soli davanti a Dio.
Per andare a trovare David e sua moglie Lucia a Santa Rosa prendo l’autobus da San Francisco. A differenza del Kentucky e di quasi tutta l’America, San Francisco è una specie di paradiso dei trasporti pubblici: metropolitana stupenda, tram pittoreschi, tante linee di autobus per tutta la Baia. Ci metto tre ore per fare sessanta chilometri, ma vale la pena, il paesaggio dal Golden Gate è fantastico. E sull’autobus si parla solo spagnolo.
In questo paese automobilistico, i mezzi pubblici sono un posto privilegiato per vedere gli invisibili. Già sulla metropolitana sale un ciclista con lunghi capelli bianchi da ex hippie sotto il casco, e attacca con la vicina di posto un lungo discorso un po’ incoerente su un libro che ha letto, scritto da tre italiani, che spiega tutti i misteri dell’assassinio Kennedy, di Oswald e di Ruby (la California è la capitale mondiale delle teorie del complotto). Ma è soprattutto attorno agli autobus interurbani che si addensano i marginali. Mentre aspetto, un ragazzo nero con fluenti dreadlock mi racconta una complicata storia che finisce con la richiesta di soldi, dice per tornare a casa. Gli do qualche dollaro, pensando che non è la prima volta che faccio l’elemosina a un cittadino della più ricca superpotenza del mondo, e se ne va. Poco dopo, arriva una signora. Sta un po’ lì in piedi accanto alla panchina, poi spezza il silenzio: “Questi niggers e questi ebrei che si prendono tanto spazio, sono buoni solo a fare chiacchiere.” E tace. Io resto di sasso. Non è bianca: potrebbe essere asiatica, o indiana. Ai polsi porta braccialetti di perline di quelli che associamo di solito all’artigianato nativo.
A Santa Rosa, ritrovo Lucia e David. Molti anni fa adottarono un bambino afroamericano (con qualche traccia di “sangue” bianco). Adesso il ragazzo è grande, ha sposato una ragazza messicana, ed ecco questi due bambini: neri, bianchi, latini, indiani, bilingui in inglese e spagnolo, e molto belli. Se il mondo va come deve andare, sono loro il futuro, la generazione post-Obama. Magari a un certo punto si sentiranno confusi e vorranno sapere qual è la loro identità. Ma nessuno gliela imporrà più dall’esterno come prigione e come stigma.
Se il mondo va come deve andare. Ma il vecchio mondo ha ancora un sacco di veleno nella coda. Il padre di questi bambini è stato licenziato (dopo aver addestrato quelli che hanno preso il suo posto) e riassunto dopo mesi senza stipendio, con un contratto di sei mesi, senza assistenza e senza pensione. Il Louisville Courier-Journal racconta di un giudice della Louisiana (lo stato più mescolato d’America) che rifiuta di firmare la licenza di matrimonio per una coppia mista: sono preoccupato per i bambini,spiega; questi matrimoni vanno sempre male. Naturalmente, il razzismo non c’entra: “Non sono razzista. E’ solo che non credo giusto mescolare le razze in questo modo. Ho mucchi di amici neri. Vengono a casa mia. Gli celebro i matrimoni, usano il mio bagno.” L’idea che sei tollerante perché lasci che i neri si siedano sul tuo cesso mi pare un tocco di genio assoluto.
Tutti mi chiedono, e a tutti chiedo, che ne pensiamo del Nobel per la pace a Barack Obama. Tutti quelli con cui parlo io sono moderatamente contenti: adesso stiamo a vedere che cosa farà davvero. Ma David riesce a esprimere quello che sentivo anch’io: il nostro compito non è di stare a vedere, aspettare e giudicare: “Quello che farà Obama dipende anche da noi”. Dopo il successo elettorale, i progressisti americani si sono un po’ seduti. Ma domani David e un piccolo gruppo di attivisti andranno a manifestare coi cartelli a favore di nuove leggi ambientaliste. Sui marciapiedi di Telegraph Avenue, dove cominciò tutto nel ’64, mi fermano per chiedere una firma e qualche dollaro per la campagna a favore della riforma sanitaria. Non basteranno a muovere il mondo, ma per fortuna si muovono.

24 ottobre 2009

Harlan County, 1931: i minatori e la crisi

il manifesto\alias - 24.10.2009 (numero dedicato al New Deal e alla Grande Depressione)

Questo è un estratto, tradotto e condensato, di un capitolo del manoscritto del libro che sto finendo di scrivere, dal titolo provvisorio "They Say in Harlan County", sulla storia e la cultura di Harlan County, le storiche lotte dei minatori e le battaglie di oggi per l’ambiente.

Racconta Tillman Cadle, minatore e sindacalista: “Quando arrivò la depressione, la ditta mi disse di venire a lavorare a Yancey, Harlan County. Si lavorava solo un giorno alla settimana. Il mio vicino di casa, quando arrivava il giorno che si lavorava, gi dovevo dare io qualche cosa da mangiare se no non si reggeva in piedi.” Era l’estate del 1931 e c’era la crisi. Il mercato del carbone era crollato e, come scrive lo storico John Hevener, “molti minatori cominciarono a sentire i morsi della povertà più abietta.”
“Chi aveva un po’ di terra, o degli animali, aiutava gli altri; e così sono sopravvissuti” (Lloyd Stokes). “Durante la Depressione, mia nonna ha dato da vivere alla famiglia vendendo verdura nei villaggi minerari. Papà aveva quattro o cinque anni e zappava il granturco e i fagioli e lei se li metteva in spalla e li andava a vendere. Con quel pezzetto di terra erano molto, molto più ricchi di tanta gente a Harlan County” (Mildred Shackleford).

Hazel King. C’era poco da mangiare, e c’era chi rubava. Se avevi maiali, vacche, polli o altro, dovevi stare molto attento, se no spariva. Mia madre mi ha raccontato di un maiale che era sparito e hanno seguito le tracce fino a casa di un tale, e quando l’hanno arrestato per il furto del maiale lui ha detto, certo, sono stato io: la mia famiglia moriva di fame e era questione di rubare o lasciarli morire.

Il 7 gennaio 1931, il giornale locale annunciava: “La HCCOA (associazione operatori minerari) prevede un futuro luminoso per l’industria del carbone.” Il 16 febbraio, l’associazione annunciava un taglio del dieci percento alle paghe già da fame.

Tillman Cadle. Stavamo davanti a un negozio, e vedevo questi che guardavano affamati la roba da mangiare, al di là del vetro. E dissi, ragazzi, abbiamo lavorato per creare tutta questa roba, ma c’è un vetro fra il cibo e noi. E un giorno c’era un comizio a Pineville,e l’ultimo a parlare era un certo Randalls, che lo chiamavano il predicatore bestemmiatore perché certe volte parlava proprio pesante. E alla fine del discorso disse, “Allora, ci rivediamo tutti qui il prossimo weekend.” E una voce nella folla grida, “Che ci andiamo a fare a casa, sen non possiamo portare da mangiare alle famiglie?” Lui chiede, quanti siete qui che non hanno niente in casa da mangiare per cena?, e un sacco di mani si alzano. Allora lui salta giù dai gradini e dice, venite con me. E parte verso quel negozio e, Dio mio, gli vanno tutti appresso.

“Entrarono nell’A&P di Evarts , non avevano niente da mangiare per l’inverno, così vennero coi sacchi – avanti ragazzi, riempiteli. Stessa cosa la sera dopo. E mio zio, aveva un negozio e dovette ingaggiare sei o sette persone per fare la guardia la notte. Dovevi vedere i binari, dove si erano rotti i sacchi, la farina sparsa, roba buttata – avevano preso più di quello che potevano portare e gli toccò buttarlo via” (Ray Ellis). “Quello dell’A&P si prese un bello spavento e chiamò la direzione a Louisville. La direzione gli disse, dagli da mangiare, ma digli che lo facciano pure con la concorrenza. Così la settimana dopo invece che a Pineville lo fecero a Middlesboro” (Tillman Cadle). Harry e Bema Appleman commercianti di Harlan, davano da mangiare gratis a cinquanta bambini ogni giorno; furono incriminati per “sindacalismo criminale.” La Croce Rossa rifiutò di intervenire: dissero che se ne doveva occupare la sezione locale, che era in mano agli operatori.
Jim Garland, minatore, sindacalista e folk singer, disse a una commissione senatoriale: “Il cibo dei minatori consiste in patate, fagioli, maiale salato e bulldog gravy, che si chiama così perché dovresti essere un bulldog per mangiarla. E’ un misto d’acqua, farina e lardo, e si mangia coi fagioli o con un ‘panino all’acqua’: pane bagnato nell’acqua e lardo.” A Straight Creek, riferiva Jim Garland, “tra la primavera e l’inizio dell’estate almeno 25 bambini sono morti di una malattia chiamata flux, che viene perché non si mangia una dieta variata e per mancanza di latte e del cibo giusto per i bambini. Gli infiamma lo stomaco e le viscere, e sanguinano.” Un funzionario della sanità statale disse alla commissione del Senato che i bambini sotto i due anni morti di flux o altre malattie intestinali erano stati 56 nel 1929, 91 nel 1930, e 84 nel 1931. Molly Jackson, ostetrica, sindacalista e folksinger, raccontava: “Li sento ancora i bambini che piangono per la fame. Li ho tenuti in braccio e li ho visti morire con le malattie della povertà – tubercolosi, pellagra, flux. Ho visto il figlio di mia sorella morire a 14 mesi per mancanza di latte mentre i padroni giravano con le loro belle macchine e le mogli e i figli vestiti di seta e gioielli pagati col sangue e il sudore dei minatori.”
Il febbraio 1931, B. R. Gilbert, minatore di Crummies Creek, scrisse a John L. Lewis, presidente del sindacato, la United Mine Workers of America (UMW):
Caro Fratello: questo è un appello a te per aiutarmi non ho avuto una giornata di lavoro da quando ha chiuso Black Mountain i padroni di Harlan Ct. non mi danno lavoro ho finito tutto quello che avevo messo da parte quando lavoravo adesso sono alla mercé degli altri predico ancora il sindacalismo dappertutto… Davvero mi serve aiuto ti imploro umilmente fratello Lewis, aiutami in qualche modo. Ti prego non mi respingere ho 2 figli piccoli e non hanno Madre se ti viene in mente un modo per aiutarmi io ti ricorderò sempre e farai felici quei preziosi piccoli.
Due settimane dopo, Lewis rispose: “Mi dispiace molto di apprendere delle circostanze in cui si trova. Sono però costretto a informarla che in base ai regolamenti del Sindacato non disponiamo di fondi per soccorsi individuali e mi è pertanto impossibile aiutarla. Sono certo che potrà trovare altre soddisfacenti soluzioni per far fronte alle sue necessità.”
“Sentivi che c’era qualcosa nell’aria,” raccontò poi Chester Poore, che avrebbe scontato dieci anni di carcere per la sua partecipazione agli eventi dei mesi successivi. “Ovvio – dato che non si sapeva da dove sarebbe venuto il prossimo pasto.” Due settimane dopo il taglio delle paghe, William J. Turnblazer e Philip Murray, dirigenti della UMW, annunciarono a un’assemblea di duemila minatori che il sindacato era pronto a tornare a Harlan e Bell. Scriveva Turnblazer a Lewis: “Lo spirito dei minatori a Harlan County è meraviglioso. Non ho mai visto un gruppo di uomini condurre una lotta come questa, nonostante che gli abbiamo detto che non possiamo dargli nessun aiuto finanziario”.
Anzi, era il sindacato che chiedeva soldi a loro: “Volevano [un dollaro] come quota di iscrizione, e non ce l’aveva nessuno. La maggior parte non aveva da mangiare, figuriamoci se si potevano iscrivere al sindacato” (Tillman Cadle). Scrive Jim Garland: “Chiunque avesse sangue nelle vene avrebbe comprato latte per i bambini prima di dare i soldi a un’organizzazione.” Molti comunque si iscrissero; secondo un testimone, “ci fu chi vendette il letto per mettere insieme quel dollaro.”
Il giorno dopo l’assemblea di Pineville, i minatori che avevano partecipato si trovarono licenziati e sfrattati dalle case di proprietà delle compagnie, con le loro cose buttate in mezzo alla strada. Molti si spostarono a Evarts, una delle poche località indipendenti, non di proprietà delle compagnie, e cominciarono a organizzarsi: “Ma fu la base a fare tutto, non c’erano i dirigenti, solo i leader di base” (Tillman Cadle). W. B. Jones, minatore licenziato, fu eletto segretario; William Hightower,minatore licenziato, analfabeta, di 77 anni, fu eletto presidente. Migliaia di minatori prestarono giuramento e manifestarono in tutta la contea sventolando la bandiera americana. A fine aprile, gli iscritti erano ottomila. “Parlavi con loro e ti dicevano tutti la stessa cosa: se scioperi fai la fame, e se non scioperi fai la fame. Alla fine non era neanche uno sciopero, era una guerra contro la fame” (Tillman Cadle).
In tutti i racconti, gli anni dal 1931 al 1941 non sono tanto una successione di lotte distinte, quanto una guerra ininterrotta. Scriveva il New York Times: “Harlan sembra una zone di guerra. Flotte di automobili sfilano per la comunità, cariche di guardie e delegati dello sceriffo armati di fucili, mitra, lacrimogeni. I diritti civili sono calpestati, si arresta la gente con le scuse più improbabili, si invadono le case senza mandato.” Lo scrittore Malcolm Cowley, che venne a Harlan e Pineville con un carico di aiuti, scriveva: “Non ho mai visto tante armi di ogni sorta, carabine, fucili di precisione, pistole automatiche e mitra, dall’epoca dell’offensiva sul fronte francese nel 1917”. Philip Murray testimoniò che gi operatori di Harlan “impongono una tassa su ogni tonnellata di carbone estratto, e la usano per comprare munizioni e armi da guerra e metterle nelle mani di irresponsabili che vanno in giro sparando e ammazzando.” Tecnicamente, si trattava di delegati dello sceriffo; i minatori li chiamavano thug: guardie armate, per lo più pagate dagli operatori, incaricate dallo sceriffo di tenere i minatori al loro posto. “So per certo di criminali tirati fuori dalle prigioni, gli mettevano un distintivo e diventatavano la legge. Erano killer e basta” (Tillman Cadle). Tra i 169 delegati nominati dallo sceriffo Blair, 64 erano sotto processo per atti criminali, e 34 erano pregiudicati. Bill Randolph era sotto processo per il suo quarto omicidio in Kentucky quando gli operatori di Harlan gli pagarono la cauzione e lo misero a sorvegliare la miniera di Three Point. L’11 giugno 1931, Bill Randolph uccise Joe Chasteen, aderente al sindacato.
“Che cos’è la legge? Un thug armato che gira con un macchinone”, disse un donna di Harlan. Certi nomi ricorrono nelle cronache di Harlan: Frank White, Lee Fleenor, George Lee - and Ben Unthank, al quale l’associazione degli operatori diede ottomila dollari da spendere in armi e dinamite.
Tillman Cadle. Ben Unthank venne a casa mia, insieme con due thug e col capo della polizia di Middlesboro e tutti gli altri. Avevano un mandato d’arresto, ero accusato di sindacalismo criminale, e diceva che dovevano portare il mio corpo vivo o morto al tribunale della contea. Erano armati fino ai denti, se mi ammazzavano dicevano che avevo fatto resistenza. Ma io non ero a casa quando vennero. Dissero a mia madre, “è inutile che si nasconde; lo troviamo, e lo ammazziamo come un cane”. Lei lo guarda dritto negli occhi e gli fa: “Sporco arnese che non sei altro, dice, può essere che quando lo trovate non sarete solo voi a sparare”. Vedi, ero considerato uno dei meglio tiratori del Kentucky.

E naturalmente, lo sceriffo Blair. “Ho fatto tutto quello che potevo,” disse Blair a un giornalista, “per aiutare gli operatori. Non ci possono essere compromessi quando i disordini sindacali investono la contea e i Rossi vengono a Harlan County”. Ricorda Bryan Whitfield, il più ostinatamente antisindacale degli operatori di Harlan: “Chi era quello sceriffo che ci piaceva tanto? Lo sceriffo Blair. Per noi era un’ottima persona. Il sindacato pensava che era un mascalzone. A quel tempo avevamo problemi col lavoro. Naturalmente ci sono stati dei morti, ogni tanto. Non volevamo il sindacato. Non volevamo che nessuno ci venisse a dire come fare i nostri affari. Blair era un ottimo sceriffo. Alcuni dei suoi delegati erano un po’ ruvidi, ma in quei tempi dovevi essere se volevi sopravvivere.”
Sam Reece, dirigente di base, dovette scappare e nascondersi. Raccontava sua moglie, Florence: “I thug di Blair vennero a casa nostra parecchie volte mentre Sam era nascosto. Frugarono in tutte le stanze, nelle credenze, per tutta la casa. Guardavano sotto i materassi, e se trovavano una lettera, un pezzo di carta, lo portavano via. Sentii che dovevo fare qualche cosa. Non avevamo neanche un pezzo di cara in casa; strappai una pagina da un calendario appeso al muro e scrissi la canzone: ‘Dicono che a Harlan County non si può essere neutrali, o stai col sindacato o sei un thug di J. . Blair. Which side are you on? Da che parte stai?’”
“C’erano duri da tutte e due le parti, non è stata una passeggiata di thug” (Bill Winters). Bryan Whitfield mi fa vedere i buchi delle pallottole che gli spararono in casa, e mi racconta dei candelotti di dinamite che trovò in giardino. In aprile, il thug Jess Pace rimase ucciso (e un minatore ferito) in una sparatoria a Evarts, dove era andato per arrestare dei minatori che avevano picchiato un crumiro. A Shield e a Cawood saltarono in aria i macchinari delle miniere e bruciarono case di proprietà della compagnia. Picchetti armati giravano da una miniera all’altra: “Non dicevano come si chiamavano; si chiamavano tutti Jones, i Jones Boys. E ti dico, gli facevano passare brutti momenti ai crumiri” (Lloyd Lefevre).
Il 28 aprile, nascosti nella vegetazione di Black Mountain, una cinquantina di uomini amati aprirono il fuoco contro un gruppo di crumiri; i delegati e le guardie risposero, ma non furono riportate vittime da nessuna delle due parti. “Diavolo, certo che ho ordinato di sparare per uccidere”, disse Blair: “Quando fanno un agguato e sparano ai miei uomini, i miei rispondono, e sparano per uccidere. Le usiamo per questo le armi, quaggiù.” Dopo lo scontro, Blair dichiarò al giornale locale che tutto era tranquillo e non si prevedevano altri problemi. Si sbagliava.

La settimana dopo, in uno scontro passato alla storia come “la battaglia di Evarts” rimasero uccisi almeno tre uomini dello sceriffo e un minatore del sindacato. Harlan fu occupata dalla Guardia nazionale, la UMW, terrorizzata, abbandonò il territorio. Poche settimane dopo, arrivavano a Harlan gli organizzatori della National Miners Union, un sindacato comunista. La NMU condusse la lotta per un altro anno, e fu tragicamente sconfitta. Solo nel 1933, con l’inizio del New Deal, la UMW tornò a Harlan; ma bisognò lottare, anche sanguinosamente, fino al 1941 prima che i padroni firmassero il contratto.

Il Nobel a Obama e il furore dei "patrioti"

il manifesto 11 ottobre 2009

Come si è potuto vedere anche su You Tube, i patrioti della destra americana avevano applaudito entusiasticamente una sconfitta degli Stati Uniti (il malconsigliato tentativo di Obama di portare le Olimpiadi a Chicago). Adesso sono patriotticamente sgomenti e infuriati per quello che a tutti gli altri sembra un successo del loro paese: l’assegnazione del premio Nobel per la pace al presidente americano Barack Obama.
Sul significato di questo premio “sulla fiducia” a una figura che ha riaperto la speranza e cambiato il linguaggio delle relazioni internazionali – e che al tempo stesso è ancora molto lontano da conseguire la maggior parte degli obiettivi che di questa speranza sono oggetto – si è già scritto molto, e analisi molto equilibrate sono apparse anche sul manifesto. Più che tornarci sopra, vorrei riflettere un momento su questo paradossale patriottismo reazionario che plaude alle sconfitte e va in tilt ai successi del suo rappresentante eletto.
Adesso invece media con grandissimi ascolti e molta influenza sull’opinione pubblica – radio, blog, riviste, televisioni – sparano a zero. Per esempio, l’autorevole columnist Andy McCarthy scrive sull’autorevole e molto conservatrice National Review: “Questo premio è una concessione simbolica a chi si oppone all’eccezionalismo americano, alla potenza americana, al capitalismo americano, all’autodeterminazione americana, e al perseguimento americano degli interessi americani nel mondo.” Col solo fatto di essere in carica, “Obama può fare più di ogni altro personaggio nella storia per portare avanti il programma ‘Giù l’America dal piedistallo’”.
Ma come si fa, comunque, a dire che un riconoscimento a un presidente degli Stati Uniti è un atto antiamericano? Eppure, nel suo discorso dopo l’annuncio del premio Obama ha ribadito l’intenzione di rinforzare la leadership mondiale degli Stati Uniti. Certo, sull’”eccezionalismo” (la unicità e superiorità americana sul mondo) Obama qualche dubbio l’ha sollevato – abbastanza per convincere questi patrioti che l’eccezione è lui e gridare ai quattro venti che Barack Obama non è americano. E’ la prima volta che un presidente è fatto oggetto, in nome della patria, di una simile campagna di legittimazione e di odio (negli anni ’30, i ricchi rifiutavano di nominare Franklin Delano Roosevelt e lo chiamavano “quello là”, “that man” – ma restavano sostanzialmente nell’alveo di una normale opposizione politica). Barack Obama non è americano letteralmente: c’è tutta una campagna che sostiene sapendo di mentire che non è nato negli USA e non è nemmeno cittadino americano. E non è americano ideologicamente: è “musulmano”, “socialista”, “pacifista”
Però è veramente nero. Su RedState, uno dei più influenti blog di destra, l’opinionista Erick Erickson scrive: “Non mi ero reso conto che il Premio Nobel per la Pace praticava l’’affirmative action’, riservava una quota alle minoranze; ma solo così posso spiegarmi una notizia del genere”. Non ci scandalizziamo – autorevoli intellettuali italiani avevano detto e scritto praticamente le stesse cose quando il Nobel per la letteratura andò a Toni Morrison.
E Rush Limbaugh, l’idrofobo personaggio radiofonico che molti considerano il vero leader del partito repubblicano: “Con questo premio le elite del mondo invitano Obama Uomo di Pace a non portare avanti l’ondata militare in Afghanistan, a non agire contro l’Iran e il suo programma nucleare e sostanzialmente a portare avanti la sua intenzione di svirilizzare (“emasculate”) gli Stati Uniti.”
Leggiamolo bene, perché è un conciso repertorio del pensiero che ci ha dato Bush, Reagan e l’autobiografia di Sara Palin in cima a tutte le classifiche di vendite prima ancora che sia uscita. Il Nobel a Obama è antiamericano perché è elitario (come è noto, i repubblicani, come i miliardari nostrani, rappresentano “il popolo”), perché è assegnato dal “mondo”, a conferma di quel pericoloso cosmopolitismo obamiano di cui era già segno per la destra l’entusiasmo europeo (e africano) durante la campagna elettorale e dopo la sua vittoria. E’ antiamericano perché fa temere che la leadership possa non significare solo bombe e guerre (che intanto continuano, comunque). E’ antiamericano perché l’”intenzione” di Obama è di andare contro il suo paese. E infine, e soprattutto, è antiamericano perché non è per veri uomini. Come ci hanno spiegato influenti guru americani molto ascoltati anche da noi, i veri uomini vengono da Marte (e sono americani); gli europei vengono da Venere; se sono gli europei a premiare Obama, allora viene da Venere anche lui. C’è da sperare che abbiamo ragione.
Persone che ammiro molto e ascolto attentamente, da Howard Zinn a Abraham Yeoshua, hanno criticato duramente e con solidi argomenti l’assegnazione del Nobel a Barack Obama. Però il solo fatto che mandi così in confusione la destra americana e che capovolga il senso del suo sbandierato patriottismo mi fa a pensare che, aspettando il futuro, questa scelta almeno un minimo provvisorio di senso ce l’ha.

03 ottobre 2009

Helth care, rights and liberties in America

La mia amica Linda Eklund ha letto su questo blog un articolo che avevo scritto sul "manifesto" sulla riferoma sanitaria in USA e mi ha mandato questa sua traduzione - di cui la ringrazio tantissimo!
My6 friend Linda Eklund read on this blog an article I had done for "il manifesto" on health care in the US and sent me this translation. Many many thanks, Linda!


I’ve got a couple of images in my head. The first is a photograph I took in Washington in September of 1982, the last time American unions called workers to the capital. They were there to demonstrate against Reagan’s economic policies, and there was an old man walking alone holding a sign that read “health insurance is an American right”. The other is recent and you can see it on TV and on line. A woman shows up at a meeting on healthcare reform with a sign that says «Health insurance is not a right.» Twice now, with Clinton and Obama, the United States has elected presidents who promised healthcare reform, an indication that the voters want it or at least that they don’t reject it. And twice this program has run into obstacles not only from the battle-hardened corporate interests, but from the not-negligible encouragement and active support they give citizens. Clearly uninformed and politicized, they are nonetheless carriers of a logic that we might understand a little better if we explore the territory these two apparently opposite placards actually share: a concept of the state, of “America”, and a concept of “rights” which are rooted in the very foundation of the country. Let’s start with the first, healthcare as an “American” right. I had to work hard to resist the temptation to tell that old man that healthcare is a right in every industrialized country - Germany, Italy, England, Spain - everywhere but “America”. And in fact infinite examples come to mind of Americans who are surprised to discover that the entire world has what they are missing. A young woman in Cumberland, Harlan County, Kentucky told me: “The other day I was watching on the Discovery Channel and - I can't remember what country it is—but everyone has health care. And it's not a rich country. See, that just boggles my mind.”An article by Sara Paretsky (the brilliant Chicago feminist detective writer), making an ironic observation about the anti-Obama propaganda using the presumed bureaucratic excesses in foreign government-run healthcare, said that when her husband got sick in France they had to navigate all kinds of cantankerous hospital bureaucracy. But when they asked for the bill, they found that the visit, the specialist, the x-rays and everything else cost next to nothing. “I’m ready to suffer a lot of bureaucracy for that kind of healthcare!” she said.
Now, her surprise and the ingenuous claim of that man in Washington derive from an a priori never seriously placed in discussion: that the United States has the best everything in the world and doesn’t have to go looking for examples anywhere else. So and thus, the meaning of the first placard is that if you have a right, you don’t have it because you are a person but because you are “born in the USA” and therefore special. An “American right” means a privilege in comparison to the rest of humanity.Internally, this means that other things that we consider rights are also not attributable to citizenship but are instead a consequence of a specific and not universal social location. Let’s remember that almost three-quarters of the American population already has some form of support or insurance; but besides the large limitations on coverage and costs (and bureaucracy: the insurance companies and the hospitals spend a disproportionate share of their budgets on administration and operations. But they are private so this is not “bureaucracy”!), the thing that characterizes them is that it isn't a question of the rights of citizenship, whose basis is collective, but of contractual clauses deriving from a private employment relationship or a union contract. You have coverage not because you are a citizen but because you work at General Motors or somewhere else. (In 1962-63 there was a miners’ revolt in Kentucky complete with gunfire, bridges blown up, and dynamite when the union rescinded the workers’ hospital cards which were financed by a royalty in the coal extracted. The miners had it in for the corrupt union and the companies who weren't paying, but it never crossed their minds to claim coverage that might not derive from their contract, the union bureaucracy, or the energy market, and that wasn't applicable to them alone).In this sense, then, the second woman is right: healthcare is not a right but a privilege. a «frringe benefit» as the jargon has it: a collateral advantage available to some and not to others. Thus, if 40 million Americans do not have a right to health care, this is not a scandal for the others and, who knows, maybe for some of them, too.So let's ask ourselves: how come carrying guns is a right (absolute and not subject to regulation), and being treated isn't? Simple. The right to bear arms is written down in an amendment to the Constitution; the right to good health is not found in any constitutional document. There is a conservative judicial fundamentalism in the United States which propounds a reading of the Constitution no less literal than the religious fundamentalism related to the Bible. The form of the state and the rights of citizens are carved once and for all in a venerable Constitution written two centuries ago, and every idea of evolution in the form of the state and extending the sphere of rights is considered not as an enlargement of the sphere of freedom, but as an invasion by the leviathan state.The concept of liberty is inscribed in the bedrock of the state, born in a peripheral rebellion against colonial state, and oriented more to a defense of personal rights against the state than to the idea of the state as a surce and guarantor of the rights. Life, liberty, and the pursuit of happiness are born with the individual and are exercisable individually (rather than other rights like equality and fraternity, which are only thinkable in relation to others).It is envisioned, therefore, that the state will protect individual rights, but it is simply anathema to think that the state might assume a social obligation. The right wing comes up with paranoid fibs like the «death committees» that would be set up under a public option to decide who should live and who should die (as if private insurers don't do this every day). These become credible if you imagine that every government assumption of social functions is a step toward a «totalitarianism» in which the state becomes the master of life and death.This helps us reason through another paradox: a rejection or a pushback against any program which in the end serves to guarantee exactly the first of the rights affirmed by the Declaration of Independence, and that is life itself. Let's compare it, one more time, to the right to carry guns, which is also claimed as the protection of one's own life. With healthcare coverage, the state defends everyone's life via institutional means; with armed self-defense, the individual protects a single life against others with his or her private means (the only institutional protection which constitutional fundamentalism accords the state is a military one: thus, wartime expenses never elicit the same frenzy as the predicted outlays for healthcare in a country that spends more than any other on healthcare but ends up with worse care than many).Healthcare coverage is a right that demands a social structure of institutions and relationships, an idea of solidarity in which a citizen has a right because everyone has it and it cannot be exercised alone. This is very hard to grasp after centuries during which the established rights have been those that everyone could exercise on his or her own behalf. Public health, in the last analysis, contradicts the tremendous liberal dogma by which «my liberty ends where that of others begins». In this case, my freedom begins where everyone else's begins. And this is valid for every one of the «new» rights that aren't found in the 18th-century Constitution, and which in fact the United States sweats to acknowledge: the right to livable climate, the right to water, the right to education - which no one can exercise unless everyone else does.Now fortunately, the United States cannot be reduced entirely to liberal-constitutional fundamentalism and to anti-“socialist” paranoia. After all, this is the nation that invented the New Deal, the country where even a president we rightly considered an enemy, like Lyndon Johnson, committed the state to the «War on Poverty» (another of America's un-won wars). And in his speech the other day, Obama repeatedly used what is perhaps the key word in all of his poetics and in all of his politics: «we». Obama's «we» is no mere rhetorical call to national unity; rather, it implies the reconstruction of a pact between citizens and the state and of a pact among citizens themselves. which in an age stained by egotism reintroduces a minimum of shared consciousness of the fact that the destiny of each individual is interwoven with the destiny of all. I don't expect much from the latest goings-on. But if, beyond the specific content of whatever reform happens, Obama could begin to (re)introduce even an embryo of an idea of common social rights, he might open a passage to a different future, a more decent one. For us, too.

01 ottobre 2009

Un naziskin in Comune

il manifesto 24.9.09


La nomina dell’ex picchiatore naziskin Stefano Andrini alla direzione dell’azienda municipale AMA Servizi a Roma è una scelta politica, non tecnica. A parte per il momento la sua storia personale, sono politiche, e non tecniche, tutte le scelte in cui qualcuno è chiamato “ad personam” – cioè senza una formale procedura comparativa e senza uno specifico percorso di carriera - a dirigere un organo della pubblica amministrazione, e cioè a rappresentare, sia pure in un ambito specifico, la città. Per questo non stanno in piedi le scuse dietro cui il sindaco ex missino Alemanno si trincera per difendere questa discutibile scelta: a) non si può discriminare una “lavoratore” sulla base di precedenti e già scontate condanne politiche (Andrini “ha pagato il debito con la giustizia,” ha detto in precedenti dichiarazioni); b) “Roma ha già pagato un debito altissimo” per gli scontri su “stereotipi” ideologici; c) giudicheremo tecnicamente il lavoro di Andrini alla fine della sua prima fase di mandato. Guardiamoli tutti e tre.
Mi pare giusto dire che una persona che ha scontato la pena per un reato non deve essere discriminata. Sarebbe bello se fosse così, se tutti i “pregiudicati” fossero trattati come cittadini con pienezza e parità di diritti, ma sappiamo benissimo che le cose stanno diversamente. Aggiungerei che non essere discriminati significa non essere esclusi, ma non trattati – come si pretende in questo caso – essere scelti. Nessuno ha discriminato Andrini come “lavoratore”, cioè come dipendente dell’azienda, nessuno ne ha chiesto il licenziamento. Se lo si contesta è come figura politica, scelta politicamente. Il diritto di chi ha scontato la pena ed è stato riabilitato comprende la libertà personale, un lavoro, un’adeguata retribuzione, i diritti politici salvo eccezioni – ma non possiamo considerare un diritto quello di essere prescelti a presiedere una pubblica azienda, un organo della collettività.
Su questo, un’altra osservazione. Nella cultura paracattolica che ci circonda, espiazione e pentimento cancellano la colpa e restituiscono la grazia. Quindi (a parte il fatto che di pentimento non si è parlato per trent’anni), se “ha pagato il suo debito,” Andrini è puro come l’agnello. Ma per chi non si sente cattolico in questi termini, e per chi ragiona in termini politici e non legalistici, la colpa commessa è un segno della qualità del soggetto, della sua etica e della sua identità. Per capirsi (e fatte le debite proporzioni): si tende a non mettere una persona condannata per pedofilia a guardia di un asilo, anche se ha scontato la pena. E’ vero che stiamo in un paese dove mettiamo falsificatori di bilancio a gestire lo stato e vecchi puttanieri a capo dei movimenti per la famiglia – ma è, appunto, uno scandalo. Andrini non andrà di nuovo a spaccare il cranio alla gente, immagino; ma c’è gente che appartiene alla sua cultura e al suo mondo che continua a farlo, che aggredisce i gay e picchia gli immigrati, e che da scelte come questa si sente garantita e legittimata.
E d’altra parte: quelli che adesso difendono il riabilitato Andrini sono gli stessi che strillano come aquile ogni volta che un ex brigatista si fa vedere in pubblico. Dice Alemanno: “mi sarei comportato allo stesso modo anche se fosse stato legato all’estremismo di sinistra.” Forse si è già scordato di quando disse che l’università era in mano a trecento criminali solo perché si prevedeva un incontro fra alcuni studenti e un ex brigatista, sotto sorveglianza di polizia. O forse non se ne è scordato affatto.
Secondo punto: il prezzo pagato da Roma per quello che Alemanno chiama “stereotipi”. L’ex missino Alemanno, che peraltro di quegli anni è stato ampiamente partecipe e corresponsabile, sembra cadere qui in una specie di non innocente amnesia generazionale: i prezzi pagati da Roma non cominciano negli anni ’70. Roma ha pagato un prezzo spaventoso per le idee e le pratiche di cui Andrini è stato fisicamente ed è oggi ideologicamente partecipe e fautore. Ha pagato nove mesi di occupazione, stragi, fucilazioni di massa, deportazioni: non sarà un caso che i più preoccupati sono gli ex deportati, i sopravvissuti ad Auschwitz, che dei prezzi pagati hanno una memoria ben più profondo e ben più dolorosa di quella del nostro sindaco.
Infine: lo giudicheremo per il suo lavoro. C’è in questi giorni a Roma uno sconcertante manifesto del Partito Democratico: “Roma è sempre più sporca. Alemanno revochi le nomine inadeguate all’AMA.” Ora, che la nomina di Andrini sia anche tecnicamente non ineccepibile sembra dedursi da quello che del suo curriculum si è letto sui giornali. Ma non è di questo che stiamo parlando: anche se ripulisse Roma, la sua nomina sarebbe comunque un’operazione sporca. Purtroppo, da quando il Partito Democratico (e le sue incarnazioni precedenti) hanno accettato l’equivalenza –strumentalmente ribadita da Alemanno – fra fascismo e comunismo, si sono privati anche della possibilità di scrivere sui muri della città che un nazista alla testa di un ente che ci appartiene come cittadini non ce lo vogliamo. Peccato.